Quando Bugo parla di sé fatica a definirsi “un uomo”, pronuncia quelle due parole e subito aggiunge: «Insomma, un uomo, diciamo un ragazzo…». È un modo di raccontarsi che rispecchia la sua personalità anche artistica, quella di un cantautore che a 46 anni sa ancora giocare con la musica come quando di anni ne aveva 26 ed esordiva con La prima gratta. Fu il successivo Sentimento westernato, del 2001, a regalargli la dose di notorietà che gli avrebbe poi permesso di vivere di musica. Un album-simbolo per molti giovani dell’epoca, quello, che si apriva con una traccia che in pochissimi versi illustrava un mondo: “Vorrei avere un Dio per non pensare che i videogiochi sono tutto”, cantava (auto)ironico Bugo, ai tempi esponente di un folk-rock-blues sgangherato, sghembo, apprezzato in ambito underground quanto inadatto alle classifiche mainstream. Qualcuno iniziò a chiamarlo “il Beck italiano”, etichetta discutibile, ma che contribuì a trasformarlo in una piccola icona del circuito alternativo spianandogli la strada per il passaggio alla Universal, la sua prima major, con Dal lofai al cisei. Era il 2002, in seguito dischi come Sguardo contemporaneo e Contatti avrebbero messo maggiormente in luce la sua scrittura apparentemente semplice, fatta di istantanee rubate alla quotidianità, in realtà ricca di intuizioni verbali brillanti, doppi sensi, sarcasmo, gusto per lo sberleffo bonario, in grado di sintetizzare stati d’animo complessi in frasi di un candore quasi infantile.
Ora, con il nuovo Cristian Bugatti, il cantautore di Rho cresciuto nel novarese sembra tornato in forma tanto da meritare che non si parli più del “caso Sanremo” e del sodalizio con Morgan spezzato in diretta tv, per lasciare spazio ai suoi nuovi brani confezionati con Simone Bertolotti e Andrea Bonomo: a fuoco nelle parole e negli arrangiamenti, ci consegnano un pop-rock che scorre via piacevolmente, immediato, dalle melodie azzeccate, con echi anni ’80, cori allegri, che in un paio di episodi si fa ballabile tingendosi di funk e in cui affiora tutto l’amore di Bugo per Vasco Rossi, Battisti, Enzo Jannacci, Celentano. Cantato sbilenco e gusto per il nonsense, Bugo mette in scena il suo rapporto con una realtà in cui si sente ancora “un alieno”. Oltre che con Morgan duetta con Ermal Meta, neo-compagno di scuderia alla Mescal. E in tutto questo ci parla di amore, di nostalgia, di voglia di fuga e di libertà. Anche della faciloneria di questi tempi e del diffuso bisogno di un’omologazione che ci fa sentire accettati, ma che ci allontana dalla genuinità. «L’ho intitolato Cristian Bugatti perché so che non sono così conosciuto», commenta lui, sposato con un figlio, oggi di stanza a Roma, pronto per un tour al via il prossimo 5 marzo. «Per me è un atto di umiltà. Non ho rimorsi né rimpianti, la vita dà quel che deve, semplicemente è come se con questo album mi stessi presentando al grande pubblico». Ecco come lo racconta.
1. “Quando impazzirò”
«Questo pezzo nasce dall’idea che la follia sia parte dell’animo umano. Quella patologica può far male, ma io parlo della follia positiva, alla base della creatività. È la ragione per cui gli artisti sono tutti un po’ folli: quando esci fuori dalle regole – quando impazzisci, in un certo senso – stai meglio, ti senti più libero. E in fondo parlo anche di amore, perché alla fine le mie canzoni non hanno mai un significato unico: le scrivo perlopiù partendo da una miriade di idee e immagini che mi vengono in modo sparso, raccogliendo anche discorsi altrui, e che una volta riunite in un brano restano porte aperte in cui ciascuno può trovare qualcosa di sé. Passando alla musica, in generale per questo disco ci tenevo a portare avanti un vero e proprio lavoro di squadra, per cui con Simone e Andrea (i produttori e arrangiatori, nda) ho formato un tridente: l’obiettivo era realizzare un album pop pensato tassello dopo tassello, ma senza perdere la spontaneità dell’immaginazione. Non è un caso che questa prima traccia parta con un ritmo e dei cori scanzonati».
2. “Sincero” feat. Morgan
«Qui racconto lo scarto tra le nostre ambizioni e la realtà. Le strofe sono un elenco di tutte le cose che ci dicono quotidianamente di fare: ricordati di fare benzina, di bere responsabilmente, le buone intenzioni… Cose che a furia di ripeterle diventano pure noiose, no? E poi arriva il ritornello che con quel “volevo”, verbo al passato, smaschera la caduta del sogno. “Volevo fare il cantante”, dico, ma avrei potuto dire anche il dottore, l’astronauta… Fiorello a Sanremo mi ha confidato che anche lui voleva fare il cantante: “Invece” mi fa “sono diventato un animatore”. Il senso della canzone, comunque, è che bisogna accettare che non tutti i sogni si possono avverare, l’importante è conservare la propria sincerità, essere ciò che si è. Come sarà cantarla dal vivo dopo quanto successo? Una versione del pezzo con me che canto da solo esiste già dall’aprile scorso, per cui nessun problema. A Morgan era piaciuto, poi è successo quel che è successo, sono turbato emotivamente ma mai parlerò male di lui, non sono quel tipo di persona: ha fatto la sua scelta, io vado avanti».
3. “Come mi pare”
«Un brano che è un manifesto, la mia carta d’identità, mi descrive. Perché io davvero voglio fare quel che mi pare, ma non come quelli anarchici che criticano sempre gli altri: troppo facile fare i ribelli così, prendendotela con chi ti sta attorno. No, io voglio essere me stesso restando in mezzo alla gente. Come i miei punti di riferimento, come Vasco, come Celentano, che nella loro grandezza sono sempre rimasti degli outsider».
4. “Al paese”
«Un ritratto della vita di paese, che conosco bene essendo cresciuto a Cerano, fuori Novara. Il tema di fondo è nuovo per me, lo affronto anche in un’altra traccia del disco, “Mi manca”: è la nostalgia del passato espressa da una persona che nostalgica non è. Perché io non tornerei mai a vivere al paese, adoro le metropoli, però ci sono momenti in cui la vita semplice di paese affiora nei ricordi riportando a galla le mie e nostre origini, ciò che ero e che eravamo. Allora ecco il poliziotto che va a ballare nel weekend, gli incontri al bar, i pettegolezzi, la ragazzina che sogna di scappare chissà dove e io che nel ritornello canto “altro che America, quella dei cinema”, perché in fondo sono un “italiota”, mi piace molto l’Italia: quei versi sono uno slancio di autostima in un Paese dove tutti si lamentano e nessuno guarda alle cose belle. Invece noi italiani sappiamo uscire dalle difficoltà a testa alta, dovremmo valorizzarla questa nostra capacità di reagire».
5. “Che ci vuole”
«Un’invettiva ironica, ma tremenda, benché velata da un arrangiamento molto pop, contro i furbetti che timbrano il cartellino e poi vanno al mare, contro la faciloneria di chi pensa che per scrivere una canzone che ci vuole?, basta buttare giù due parole, due note. Non è così, come dico in questo pezzo che è anche una canzone d’amore, perché in fondo chi se ne frega?, “a me ci vuole te”. Che è un verso che mi piace molto, parecchio “celentanesco”. Ironia vuole che canti anche “che ci vuole a tirarsela un po’, basta dire che Sanremo fa cagare, che ci vuole a diventare famosi, basta un vaffanculo in tv”. Ma non è preveggenza, il fatto è che è ormai talmente palese che la gente vada in televisione per mandare a cagare gli altri…».
6. “Fuori dal mondo”
«Quanto è bella questa vita se con il proprio partner si riesce a costruire una dimensione sentimentale e di complicità che è un universo a parte? Questo brano parte da questa constatazione sull’amore, argomento difficile da trattare in musica, ma su cui mi viene naturale scrivere. Sarà che a volte ciò che si prova per la persona che si ha accanto è davvero l’unico angolino di gioia che ci resta, per cui hai solo voglia di urlare “non svegliateci e andate tutti all’inferno”». Certo, questa è una canzone, nella realtà non è facile non lasciarsi scalfire da ciò che avviene là fuori, ma sono anche convinto che se hai dei valori sei comunque più forte di tutto quel che può accaderti intorno. È per questo che sono sceso dal palco dell’Ariston: perché il mondo è quello, il mondo è il vaffanculo in tv, ma io, pur se difettoso come tutti, ho dei valori, una dignità».
7. “Mi manca” feat. Ermal Meta
«Il pezzo più malinconico dell’album. Ho voluto interpretarlo con un uomo e non con una donna, perché ci tenevo si capisse senza rischio di fraintendimenti che nel testo parlo di due amici che con la memoria tornano ai tempi passati, a quando da ragazzini giocavano a pallone, pagavano qualcosa con le figurine, tiravano sassi contro i vetri delle fabbriche, non vedevano l’ora di uscire di casa per andare a comprarsi le caramelle. Altro che l’età adulta con tutte le responsabilità che implica. È una canzone potente, lacerante, che vuole emozionare, smuovere, arrivare dritto al cuore e spaccarlo in due nel modo più bello. Ne vado fiero».
8. “Un alieno”
«Mi definiscono un alieno da sempre, qui è come se rispondessi: ok, sarà così, ma “non mi dite che questa è vita, tra le zanzare e il ritmo americano, il cocktail con l’ombrellino”. Ossia: per me i pazzi siete voi. E lo dico su un ritmo ballabile, positivo. Del resto non sono uno da feste mondane, da party con i vip, con la mia famiglia conduco una vita molto semplice».
9. “Stupido eh?”
«Un’altra canzone d’amore, stupido eh? Perciò questo brano s’intitola così, perché l’argomento potrebbe sembrare banale. In questo caso lo affronto con un pezzo pop, sì, ma che è anche il più sperimentale dell’album, visto il ritornello che anziché esplodere frena e data la coda strumentale finale che ho voluto per chiudere il disco con un po’ di aria. Tornando al tema di fondo, beh, io sono uno che si vive il rapporto di coppia in modo totale, nel senso che mi ci butto a capofitto, ma senza annullarmi, restando integro. Anzi, con quel “totale” intendo proprio dire che amare non può significare soltanto darsi, donarsi, non può essere solo dire “ti amo” o “sei bella”, comprende anche il “che cazzo vuoi?”, “che diritti hai su di me?” (Che diritti ho su di te è una delle canzoni migliori del repertorio di Bugo, nda). È per questo motivo che l’amore è così bello, perché racchiude tutte le sfumature della vita. Ma se ti annulli per l’altro allora no, allora è la fine, è una trappola».