Brian Wilson ha 23 anni, i Beach Boys sono in tour negli Stati Uniti. È l’estate 1965. Lui è chiuso nello Studio 3 della United Western Recorders a Hollywood e guida una decina di session men tra i più esperti in circolazione, la leggendaria Wrecking Crew, spingendoli quasi fisicamente a dare forma alla musica complessa ed emotivamente intensa che vuole registrare. Uno di loro chiede spiegazioni sulla scelta degli accordi e sulla linea di basso. Sembrano in due chiavi diverse, è illogico, non può funzionare. Wilson risponde: «Funziona nella mia testa». Nasce così Pet Sounds, l’album che sposta i confini della musica pop. Sono passati più di 50 anni da quando è uscito il 16 maggio del 1966, ma Brian Wilson ricorda ancora quel momento: «Non avevo idea dell’impatto che avrebbe avuto, volevo solo registrare la musica che avevo in mente. Mi sono reso conto che era speciale solo quando l’ho ascoltato per la prima volta, un mese dopo averlo finito. Sai dove l’ho fatto? In macchina». L’automobile, l’elemento chiave della celebrazione della cultura californiana alla base del successo dei Beach Boys nei primi anni ’60. «Già. In quel momento ho capito di aver fatto un passo in avanti. Volevo crescere artisticamente». Brian Wilson è a casa sua a Los Angeles. Per parlare con Rolling Stone ha spezzato una routine quotidiana molto precisa che ripete da anni perché lo fa sentire al sicuro.
Ha 75 anni, vive in una villa a Beverly Hills vicino a quella appartenuta a Frank Sinatra e ogni giorno esce dal cancello con la sua Mercedes blu e va a passeggiare al parco, poi va a fare colazione sempre nello stesso posto, il Beverly Glen Deli, rientra a casa e al pomeriggio rifà tutto da capo: «Deli, park, home», spiega. Non ha un cellulare, non usa le email, non naviga in Internet. Passa la maggior parte del tempo con la famiglia: sua moglie Melinda, con cui è sposato dal 1995, cinque figli e una dozzina di cani. Notoriamente non ama parlare del passato, anzi non è uno che ama parlare in generale. Le sue risposte sono secche. È educato, gentile, ma nella voce si avverte una vibrazione malinconica e inquieta, la stessa che attraversa molte sue canzoni. In fondo si è conquistato il diritto di essere conciso. Ha pagato un prezzo alto quando la sua spasmodica ricerca della perfezione pop si è trasformata in ossessione. Dopo Pet Sounds la sua testa, quella che gli aveva regalato una musica così meravigliosa, ha smesso di funzionare. Voleva fare un album ancora più sperimentale, Smile, ma lo sforzo creativo lo ha fatto quasi impazzire. Allucinogeni, depressione, l’influenza manipolatrice dello psichiatra Eugene Landy da cui si è liberato proprio grazie a Melinda. Brian Wilson è stato per anni il simbolo del genio tormentato e idiosincratico e poteva finire come Syd Barret. Invece nel 1999 è iniziata una nuova fase della sua carriera: ha fatto il suo primo tour solista a 56 anni, ha ultimato e pubblicato Smile, si è riunito con i Beach Boys per l’album That’s Why God Made the Radio, ha fatto un disco di cover di Gershwin e uno di brani dai film di Walt Disney, poi due album solisti, That Lucky Old Sun del 2008 e No Pier Pressure del 2012.
Il suo grande ritorno si completa nel 2016 con il tour mondiale di Pet Sounds, celebrazione di un album nato proprio perché non voleva più fare tour. Nel dicembre 1964, mentre è in aereo diretto a Houston per un concerto, Wilson ha un attacco di panico. Scoppia in lacrime, vuole tornare in California. Poco dopo convoca i Beach Boys e dice: «Ascoltate. Io non canterò più dal vivo. Ma è meglio così, perché mentre voi sarete in tour io scriverò canzoni bellissime». È interessante immaginare come farà a riprodurre dal vivo la complessità degli arrangiamenti di Pet Sounds: «Ho con me dei musicisti fantastici», mi spiega. Uno è il tastierista Darian Sahanaja, sempre al suo fianco da quando è tornato a fare concerti nel 1999. «Canto quasi tutte le parti vocali e le armonie e suono il pianoforte. È grandioso, esattamente come l’originale. So che a volte c’è un pubblico giovane che non ha mai ascoltato Pet Sounds e non sa neanche cosa sia. Spero di riuscire a trasmetterne lo spirito».
Qual è oggi il suo pezzo preferito? «Wouldn’t It Be Nice, lo stesso di allora», risponde, «è stata la scintilla che ha fatto partire tutto». La scintilla, in quell’estate del ’65, è usare lo studio come uno strumento di registrazione (“playing the studio” si dirà dopo), prendere la struttura della canzone pop e metterci dentro tutto quello che l’immaginazione riesce a contenere. Wilson campiona e arrangia il suono di decine di campanelli di bicicletta, chiede se può portare un cavallo in studio, suona lattine vuote di Coca-Cola, registra il fischio di un treno e usa uno strumento assurdo, il theremin, come unico accompagnamento nel brano che insieme a God Only Knows rappresenta la sua visione artistica: I Just Wasn’t Made for This Time, l’addio al mondo innocente e alle canzoni spensierate dei Beach Boys. «Chi ti credi di essere? Mozart?», gli urla contro Mike Love, suo cugino e cofondatore del gruppo, terrorizzato all’idea che il leader della più grande pop band d’America voglia abbandonare le canzoni ambientate nel mondo del surf per buttarsi nell’avanguardia.
E ancora: «Chi credi che ascolterà questa roba? Un cane?». In effetti, nel disco di cani ce ne sono addirittura due: Banana e Louie, i cani di Wilson, che abbaiano alla fine del primo singolo, Caroline, No. Nemmeno i boss della Capitol Records sono entusiasti dei nastri che Wilson gli fa sentire e, due mesi dopo Pet Sounds, pubblicano al volo The Best of the Beach Boys, una raccolta di vecchie hit. Brian Wilson ci rimane malissimo. Pet Sounds si è fermato al n.10 in classifica, vendendo molto meno di tutti gli altri dischi della band. Solo il batterista della Wrecking Crew, Hal Blaine, sembra capire quello che sta succedendo. Un giorno si avvicina a Wilson e gli dice che con il suo approccio innovativo ha superato Phil Spector. È il più grande complimento che gli si possa fare. Spector è il suo idolo. Nel 1964 ha scritto Don’t Worry Baby per tentare di rispondere a quello che, secondo lui, era il pezzo pop definitivo, Be My Baby scritto da Spector per le Ronettes. Don’t Worry Baby è solo il B-side di I Get Around (prima n.1 in classifica in America dei Beach Boys), ma dimostra che Wilson sta puntando dritto alla perfezione. Però ha bisogno di mettersi alla prova e, a partire dal 1964, trova un altro rivale molto più potente, i Beatles. Si dice sia stato Rubber Soul a spingere Wilson verso Pet Sounds, che a sua volta ha spinto i Beatles verso Sgt. Pepper’s Lonely Hearts… Un cerchio di influenze che si chiude con una sequenza di capolavori diventata simbolo della musica irripetibile di quel decennio. Paul McCartney ha provato a spiegarla, quando ha parlato alla cerimonia di introduzione di Brian Wilson nella Songwriter Hall of Fame nel 2000: «La musica degli anni ’60 ha una profondità e intensità tale da farmi piangere ogni volta che la ascolto. Grazie per avermi fatto piangere, Brian». Wilson ha risposto con la disarmante semplicità che lo ha fatto diventare l’antieroe pop: «La musica è la mia vita e stanotte posso dire che la mia vita è stata ben spesa».
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