«Fuck yeah!». Pausa, sbuffo di sigaretta (o qualcosa di simile, a giudicare dalla voce impastata e dai frequenti, chiamiamoli così, non sequitur). «But then, maybe… also definitely fuck no!» e giù una risata contagiosa. Risposta divertente e sconnessa a una domanda piuttosto banale, e che Caleb Landry Jones, fresca palma d’oro a Cannes come miglior attore per il suo ruolo da protagonista in Nitram di Justin Kurzel nonché nel tempo libero autore di dischi di deragliante creatività psichedelica/psicotica, si sarà sentita rivolgere qualche migliaia di volte, ossia: quando canti le tue canzoni interpreti dei personaggi, come fai nel resto della tua vita professionale? «No, ecco, la realtà è che non so dare una risposta precisa. Sono voci, appunto. Voci nella mia testa. Io le sento e provo a catturarne una frase, da cui partire per costruirci qualcosa sopra. Sono io? Sono frammenti di conversazioni che ho sentito o letto da qualche parte? Subconscio o memoria selettiva? Non lo so, davvero. Cioè a volte mi viene da cantare in un accento inglese. Perché? Boh. E mi succede spesso! Ma se la domanda intendeva qualcosa tipo, ehi Caleb ma tu racconti delle storie nelle tue canzoni – storie con uno script ben delineato, intendo, come in un film – allora la risposta è no. E quindi in quel senso forse non si tratta di personaggi. Chiaro, no?». E via con un’altra risata.
È oggettivamente simpatico questo trentaduenne di origine texana che si candida a essere il Johnny Depp degli anni ’20 (il riferimento è al fatto che anche Depp, «mai incontrato, ma deve essere un tipo a posto, no?», ha il virus del rock’n’roll, ma tutto sommato anche a una certa fascinosa torbidità che possedeva da giovane e che Landry Jones condivide, anche se in un contesto diverso e forse con un registro interpretativo addirittura più ampio).
Simpatico e a tratti sconclusionato, ma deciso nel voler sottolineare quanto per lui sia tutta una questione di creatività che non riesce a tenere a freno. «Capisci, ero lì ad Albuquerque sul set di questo film (Finch, con Tom Hanks come co-star, nda), e mi sono detto “Caleb, stai tranquillo, concentrati sulle riprese, lascia stare la musica” e poi bang!, mi arrivano idee per delle canzoni e devo buttarle giù. Così alla fine le ho scritte tutte lì, ad Albuquerque, su una chitarra trovata per caso da qualche parte». Ed ecco quindi nascere la scaletta per Gadzooks Vol. 1, che viene dopo l’esordio The Mother Stone dell’anno scorso (entrambi pubblicati dalla Sacred Bones, etichetta indie dedita a suoni tutt’altro che convenzionali e rassicuranti) e registrato come quello presso il Valentine Recording Studio di Los Angeles. La continuità è anche nel suono, che in Gadzooks Vol. 1 acquista forse solo una fisionomia leggermente più pop, così come nell’estetica glam-shock delle copertine: dalla foto in trucco e parrucco in stile Maria Antonietta en travesti a un ritratto da sconvolto che sembra un mashup tra una vecchia foto di Kurt Cobain e il personaggio di un horror a caso.
Oppure, tanto per tornare al discorso di prima, qualche disadattato più o meno inquietante interpretato da Landry Jones in uno dei suoi film (da The Florida Project a Tre manifesti a Ebbing, Missouri, da Get Out a I morti non muuoiono di Jim Jarmusch, che tra l’altro è anche quello che ha innescato la parallela carriera musicale dell’attore recapitando i suoi demo alla Sacred Bones). «Quelle cover sono sopratutto un gran divertimento, non ci sono particolari messaggi in codice dietro. Ma… sai cos’è? Fare musica per me significa soprattutto riuscire a gestire una parte di me stesso con la quale non riuscirei a scendere a patti in qualunque altro modo. Per questo cerco di essere fedele a quelle voci nella testa di cui parlavo prima, o a quei suoni. Dopo di che, mi piace anche un sacco sperimentare in studio, cercare quel big sound un po’ alla Beach Boys/Phil Spector ma mescolato con un atteggiamento punk».
In effetti, in Gadzooks Vol. 1 si sente un’aria di grandeur vagamente trash che fa venire in mente nomi come Ariel Pink, Ty Segall, MGMT e certi Flaming Lips. «Mmh, sì, capisco che ci possano essere delle somiglianze. Ma non è perché mi ispiro direttamente ai nomi che hai fatto, quanto perché io e loro siamo influenzati dalle stesse cose. Prendi Ty Segall: è un fanatico dei T.Rex, proprio come me. I Flaming Lips li ho visti di recente in televisione, quando hanno fatto il concerto dentro le bolle durante il lockdown. Figo, ma è più o meno tutto quello che so dei Flaming Lips, avrò ascoltato un loro disco per metà e stop».
Lette così, possono sembrare dichiarazioni spocchiose, ma il tono di Caleb mentre snocciola le sue passioni musicali è quello del naïf entusiasta, non certo del professorino o della star che in effetti è. «Ti dico i CD che ho in macchina in questo momento… ah ah ah, sì, ho ancora il lettore CD in auto, niente bluetooth! Allora, senti: Their Satanic Majesties Request degli Stones, Magical Mystery Tour, The Idiot di Iggy, The Nightfly di Donald Fagen, Freeewhelin’ Bob Dylan, un best dei Kinks, uno di Waylon Jennings, uno di Hank Williams…». Niente di texano? «Ah, io adoro tutta la musica texana, da Robert Johnson ai 13th Floor Elvators!» (il fatto che Robert Johnson non fosse texano è puramente incidentale, come detto il genuino trasporto per la musica di Caleb vince su tutto).
Ogni tanto il modo di usare la voce, con quel tono vagamente operistico o in falsetto, ricorda gli Sparks. Ti piacciono? «Me li ha fatti sentire un mio amico, quel pezzo che fa (imita in modo esageratamente camp la voce di Russell Mael, nda) “this town ain’t big enough for the both of us”… però conosco solo quello, più o meno. Invece adoro, letteralmente adoro, i Roxy Music. Compreso tutto quello che hanno fatto Eno e Bryan Ferry». L’influenza roxyana si sente, certo, ma mai quanto quella beatlesiana, soprattutto Lennon-oriented. «I Beatles sono l’inizio e la fine di tutto. Li ascolto da quando avevo sette-otto anni, a volte mi impongo di non ascoltarli più poi ci ricasco, magari perché alla radio passano un loro pezzo. Come fai a nasconderti dai Beatles? Impossibile! E quindi poi ricomincio da capo, mi riascolto tutti i loro dischi, tutti quelli che hanno fatto da soli, e in certe canzoni che pensavo di conoscere a memoria scopro un angolo nuovo, un’idea che non avevo colto. Con i Beatles è così, non si finisce mai».
Tanto per cambiare discorso: come diventa la vita dopo un premio come miglior attore a Cannes? «Oddio, a volte mi sembra di non aver ancora realizzato la faccenda. Mi sveglio, ci penso e mi dico “oooh caaaazzo”. Cioè, lo hanno dato proprio a me quel premio? Davvero adesso il mio nome viene dietro a quella lista di attori fantastici che hanno vinto a Cannes? Dai, non ci credo. A parte le battute, è un onore incredibile essere entrato in quella genealogia». Magari un giorno entrerai anche in quella del Grammy. «Ah ah, no, ma chi se ne frega del Grammy. Voglio dire, massimo rispetto, ma non è proprio la stessa cosa, ah ah».
La chiacchierata prosegue così, randomica e tra risate improvvise, saltando tra i panorami del New Mexico che lo affascinavano da bambino a quando venne convocato sul set di un film girato da Fred Durst dei Limp Bizkit con Ice Cube protagonista («era una specie di film della Disney su una ragazza che entra in una squadra di football, venni chiamato all’ultimo momento perché gli serviva qualcuno con la faccia da ragazzino ma che sapesse guidare l’auto; non l’ho mai visto, probabilmente mi hanno tagliato al montaggio. Tu pensa: per andare su quel cazzo di set in Louisiana mi ero fottuto gli esami di maturità e alla fine non compaio neanche!»). Lasciamo la chiusura alla passione di Caleb per il cinema italiano. «Il massimo. Tutto quello che c’è da sapere sul cinema me l’hanno insegnato i film italiani, quelli giapponesi e la nouvelle vague. Anzi, sai che ti dico? I neorealisti sono i Beatles del cinema!». E su questo, titoli di coda.