Caparezza: «Le hit di oggi? Al confronto Mikimix sembra Bob Dylan»
Il rap visto e fatto da un uomo di 47 anni. E poi i soldi rifiutati, la lotta con l'acufene, il gusto per la complessità e ovviamente il nuovo album ‘Exuvia’, «una fuga attraverso il bosco e l’oscurità». Troppo serio? «No, sono cintura nera di cazzeggio»
Foto: Albert D’Andrea
Era più di dieci anni fa, quando chi vi scrive e Michele Salvemini in arte Caparezza ci si era ritrovati insieme a casa sua, a Molfetta, in una cantina piena zeppa di una incredibile collezione di giochi vintage di qualsiasi tipo. Il tutto per una chiacchierata di più e più ore finita poi, distillata e asciugata il giusto, in un libro che raccontava la storia del rap in Italia. Caparezza all’epoca era già diventato un protagonista assoluto, capace di sbancare le playlist radiofoniche e di radunare migliaia di persone ai concerti; lo era diventato facendo rap, ma venendo guardato con grande sospetto dalla scena hip hop propriamente detta (che allora era ancora abbastanza una nicchia, una riserva indiana non facile da perimetrare, e non la corazzata di bauscia nazionalpopolari da classifica che è adesso).
Era guardato con sospetto Caparezza dalla scena perché il suo era un rap molto teatrale e letterario, decisamente slegato insomma dai canoni stradaioli del genere (quelli che oggi fanno invece la fortuna commerciale del rap: come cambia il mondo…); ed era guardato con sospetto perché anni prima, in una precedente vita artistica, lui era Mikimix. Oh sì, Mikimix: ovvero il classico esempio di pagliaccio telecomandato che nel passaggio da vecchio a nuovo millennio provava ad usare il rap per fini commerciali (che allora era un’ingiuria, mica come oggi che si fa la gara a chi ha lo Spotify più lungo). Insomma: durante la nostra chiacchierata di un decennio e passa fa, fece i conti con questa esperienza come non mai, e con una lucidità e autocritica abrasive. Si vedeva che l’argomento lo toccava. E ci teneva a parlarne.
Esperienza che riappare – raccontata sempre con nitida precisione – nell’album in uscita in questi giorni, Exuvia: basta andare a planare sulla traccia Campione dei Novanta. «Per anni l’esperienza di Mikimix l’avevo vissuta come una vergogna, come un trauma di cui era difficile già parlarne, figuriamoci liberarsene. Ma chi ha vent’anni ha attenuanti sempre, ora l’ho capito», sorride Caparezza. Che anzi oggi, nel 2021, si permette pure una velenosa nota polemica (a un certo punto recita nella canzone: “Ascolta roba new, è una robina / Il vuoto di una hit continua / Al confronto Mikimix sembra Bob Dylan”).
«L’importante è avere il coraggio di dare sempre ascolto a quella voce dentro di te che continua a dire “Ma davvero questo vuoi fare? Sei sicuro?”, non sopprimerla mai del tutto, nel momento in cui inizi a sentirla». Ma oggi? Oggi cosa significa fare rap? «Oggi vedo meno voglia di rischiare, onestamente. E guarda, non ne faccio una questione di contenuto: perché il contenuto può essere anche una gabbia, un limite. Chi fa rap solo di contenuto spesso è deficitario sul flow, non può esprimersi liberamente né come metrica né come rime perché deve dare un senso compiuto a quello che dice, e nel farlo rischia di perdere un sacco di occasioni per tirare fuori incastri divertenti e metriche interessanti che hanno tuttavia il difetto di non essere funzionali al discorso. Quindi davvero, non è questione di “manca il contenuto”: se ne può anche fare a meno. Però, sì, mi pare ci sia un po’ meno voglia di rischiare, questo mi tocca dirlo».
Ovvero? «Sai cosa: mi sembra che oggi tutti vogliano essere il rapper preferito di se stesso. È tutto cioè molto autoreferenziale. Quando, in realtà, basterebbe conoscere un minimo le cose per sapere che nelle sue origini il rap è tutto e il contrario di tutto. Io sono nato coi Run-DMC, coi Beastie Boys, coi Public Enemy. I primi e i secondi flirtavano tantissimo col rock e col punk, le basi dei Public Enemy sembravano ogni tanto rumori di una acciaieria, era veramente musica industrial in certi passaggi: era tutto insomma… rumoroso. Musicalmente e non solo. Oggi, invece, mi sembra quasi che siamo alla sedazione. Detto questo, c’è anche da spiegare che io non mi sono mai sentito vicino agli N.W.A. o al gangsta rap: non mi appassionava allora, di conseguenza mi appassiona ancora meno sentirlo oggi riciclato e ripreso. E se all’epoca potevo almeno empatizzare con i suoi esponenti perché in fondo erano miei coetanei, avevano insomma quel tipo di energia, oggi invece? Che possa fare, cosa posso pensare?».
Già: cosa? «Di anni ora ne ho 47. E non punto ad essere ascoltato dai sedicenni: ogni volta che succede – e mi succede, di essere ascoltato dai sedicenni – per me è una vittoria inaspettata, una piccola soddisfazione, ma non è qualcosa che cerco. Non lo è. E ti dirò di più: se ho qualche minima chance di essere ascoltato e preso sul serio da un sedicenne, è proprio perché faccio l’adulto, mi presento cioè per come sono. Se non lo fai, se fingi, il rischio sistematico è quello di diventare patetici. Io a vent’anni ascoltavo i ventenni, c’è poco da fare; c’era qualche eccezione tipo magari Battiato, però per il resto ascoltavo i coetanei, erano loro che mi appassionavano. Ma al di là di questo discorso anagrafico, torno al fatto che bisognerebbe sempre ricordarsi che il rap può davvero essere tutto e il contrario di tutto: è nel suo dna. Si nutre di contraddizioni. Da sempre. E da sempre, la generazione successiva deve demolire quella precedente, se non altro per trovare il modo di imporsi. È nell’ordine delle cose. Puoi diventare all’improvviso irrilevante».
Non è però facile prenderla sempre con questa flemma e tranquillità d’animo, con questo fatalismo. Il successo, quando arriva, può diventare qualcosa che mette pressione: un amico scomodo e petulante con cui scendere a patti, oppure da inseguire, o anche da cui addirittura fuggire se si sceglie la via più drastica. Se ne parla proprio in Fugadà, la traccia che apre il nuovo album: «Te lo giuro sulla cosa più sacra che ho, che forse in questo momento sono le mie orecchie: non mi importa molto di come sarà recepito Exuvia. Davvero. Mi importa però parecchio che la gente percepisca l’impegno che ha comportato farlo, l’impegno che ci ho messo. Perché se il gusto è soggettivo, e lo è, altre cose non lo sono. E io ti posso dire che di ogni singola frase contenuta in questo disco io potrei parlarti per ore, ma davvero ore; sui testi ci sono tornato su mille volte, prima di trovare la versione definitiva. Non mi importa insomma che questo disco ti piaccia, ma devi riconoscere l’impegno che ci sta dietro. Questo sì, questo te lo chiedo, questo un po’ lo pretendo».
Un disco che è pure un po’ scuro, un po’ scostante. Talmente scostante da non avere, almeno all’apparenza, nemmeno una hit. Niente balli in Puglia insomma, niente tunnel del divertimento. «Ok. Ma è veramente un problema? La hit non è un problema mio o del disco: la hit è un problema di Spotify. E io non sono Spotify. Io sono Caparezza. Sono un ragazzo di Molfetta, anche abbastanza cresciuto. Uno che peraltro già a 16 anni non si faceva passare nemmeno per la testa di arrivare davanti a una vetrina e pensare “Oh, quanto vorrei questo vestito”, anche perché che cazzo te lo prendi a fare il vestito figo, visto che stai alla periferia del mondo? Il punto è: non devi raccontare quello che non sei. Devi raccontare la tua realtà. E la mia realtà, beh, è quella di un uomo di 47 anni che se magari non ha perso il gusto del gioco, ha però perso un po’, quello sì, il gusto della meraviglia. Ma è inevitabile, no? Con tutto quello che hai visto ed ascoltato a 47 anni, come fai a stupirti facilmente ancora? Come fai a meravigliarti facilmente? È più difficile. Riuscirci, oggi, è una sfida nuova e diversa. Detto questo: sì, parte del rap che gira oggi per me è ostico, e non mi ci riconosco. Non mi ci riconosco per quello che è, per i messaggi che lancia. Non entro però nel merito se sia giusto o meno; semplicemente, non è il mio modo, non è il mio mondo».
Il che è quasi un democristiano non schierarsi… «Ma no! Certo che mi schiero, invece! Mi schiero di brutto, oh. Perché ho molto chiaro a me stesso quello che a me piace, quello che a me interessa. Molto chiaro. Mettiamola così: se io una sera uscissi con una persona che passa il tempo a raccontarmi cosa ha fatto nella vita e quanto guadagna, potrei anche divertirmi; ma avrei voglia di uscirci assieme un’altra volta? Risposta: no. E al tempo stesso, probabilmente pure quest’altra persona non avrebbe voglia di uscire con uno stronzo che si perde in dissertazioni infinite su Kafka e Dostoevskij… Senti, non te lo nascondo, io il dubbio me lo sono anche fatto venire: “Non è che ora la vedo così perché sono invecchiato, perché ormai sono un uomo che va verso i 50?”. Bene: no». No? «Sai chi mi ha fatto innamorare del rap italiano? Frankie hi-nrg. È stato lui, è tutta colpa sua, è colpa del suo rap: che era tutto contenuto, siamo d’accordo?». Siamo d’accordo. «Ero così allora, sono così anche adesso. Non sono cambiato. Non è solo questione di essere adulti. E se oggi alcune canzoni trap mi urtano come messaggio e come attitudine, ottimo: vuol dire che stanno facendo bene il loro lavoro, perché è esattamente quello che devono fare. E se in futuro chi le fa cambierà direzione, benissimo: a tutti deve essere concesso il privilegio di poter cambiare. È stato concesso, seppure a fatica, pure a me dopo che ero stato Mikimix. Quindi…».
È un disco cupo, Exuvia, soprattutto rispetto ai precedenti. È un disco anche sottile e tagliente, in alcune analisi e prese di posizione. In tempi superficialmente gretathunberghiani una traccia come Contronatura è tutto tranne che scontata: «La natura ti insegna non solo cose positive, ma anche parecchie negative, ha una sua dark side pesante. È come la vita: ogni tanto ti offre delle cose pesanti, feroci, che ti destabilizzano, che ti fanno male. E va a cicli». Una pausa, e il discorso prosegue: «Come tutte le persone avviate verso la terza età», sorride, «ho iniziato anche io a coltivare terreni. Bene: quando inizi a farlo, scopri subito che ogni pianta ha il suo predatore. È una realtà, ma è anche una metafora perfetta. Quando si dice “Eh, ma questo è contronatura” è una gran cazzata: perché tutto quello che è indicato come “contronatura”, in realtà nella natura c’è già. Ci sono madri che mangiano i propri figli, ci sono come detto i parassiti, che spesso fanno cose assurde – come quelli che entrano dentro le mantidi, le smembrano, ma tengono attivi i loro organi vitali per poter continuare a crescere e ad esistere… Dobbiamo insomma arrivare a superare questo concetto della natura che soffre a causa dell’uomo: non che sia falso che soffra, attenzione, ma comunque sopravvive, se ne fa una ragione. Io sono più vicino al pensiero di un George Carlin, che ha fatto un monologo paradossale in cui dimostra che è la natura a volere la plastica: ha creato l’uomo, così che l’uomo potesse inventare la plastica, ma una volta che l’ha fatto ha iniziato a mandargli contro tutte le malattie del mondo, tanto non le serviva più… Ovviamente questo è un paradosso, è un numero da stand up comedian, ma in sintesi io la penso come Leopardi: la natura è matrigna. Cosa può significare allora andare contronatura? Può anche significare introdurre il concetto di coscienza – che è quello che contraddistingue l’uomo dagli altri esseri viventi – e tentare di essere migliori della natura».
Discorsi che proviamo a spostare verso il problema di una società che, almeno in alcune sue parti, è sempre più ossessivamente attenta ad eliminare crudeltà, offesa, contrasto, contraddizioni. «È effettivamente così. Può diventare una sfida in più parlarne. Perché puoi sostenere che esista una verità unica, sola e incontrovertibile, puoi volere un corteo che marcia sempre nella stessa direzione; o puoi invece decidere che esistono le sfumature, anche quelle più problematiche. Di solito il primo caso è quello tipico di quando si è giovani; poi cambi posizione quando cresci, quando diventi un po’ adulto. E io, come si diceva prima, sono ormai un rapper anziano. Sono come quei due inglesi assurdi, hai presente…?». Certo: Peter & Bas. Meravigliosi. «Li adoro. Ma senza andare fino a questi estremi, c’è comunque chi fa un rap adulto, non è mica vietato farlo. Anzi, c’è anche chi come Marracash fa di più: con Persona è riuscito a fare un disco che parla a gente come me, ma che al tempo stesso non gli ha fatto perdere nulla in credibilità presso un pubblico più giovane. Questo perché è così bravo tecnicamente e così credibile che non può che essere visto come un punto d’arrivo anche per loro, qualsiasi cosa dica o faccia. Questo dovremmo capire: il rap è prima di tutto essere reali, autentici, credibili. Prendi Speranza: quello che dice e racconta è spesso agli antipodi rispetto al mio mondo. Ma è credibile, dannatamente credibile. Sarà la voce, sarà la tecnica che ha, sarà il flow: è credibile. E questo conta. E poi conta avere una poetica, anche: penso ad esempio a Leon Faun, che è bravissimo, gli ho fatto proprio i complimenti personalmente, si è creato davvero un mondo a parte che se avessi avuto vent’anni quando l’ho sentito, beh, sarei andato ancora di più via di testa».
Anche Exuvia ha l’ambizione di creare un mondo a parte, con tutta la pesante (sovra)struttura narrativa: la foresta, il viaggio, la muta degli insetti, la nuova fase di vita. Tante cose, che Caparezza stesso si spende parecchio a raccontare e spiegare. Tante. Rischiano mai di essere troppe? È venuta mai voglia di essere un po’ più leggeri, meno concettosi, più liberi e istintivi? «Exuvia, mentre si stava completando, è diventato nella mia testa il secondo elemento di una trilogia. Prima c’era Prisoner 709, ovvero la prigionia. Exuvia è la fuga, fuga attraverso il bosco, attraverso l’oscurità e la complessità. Il terzo disco potrebbe essere, effettivamente, la libertà». Eccoci, mo’ addirittura il concept della trilogia, a proposito della concettosità… «Guarda, non lo so: chi mi conosce sa che faccio solo quello che ho voglia di fare. Il prossimo disco, se mai ci sarà, potrebbe anche essere completamente strumentale». Scelte controcorrente, alla Mark Hollis, il leader dei Talk Talk esplicitamente citato nel singolo La scelta, uno che a un certo punto ha abbandonato le scene o giù di lì. C’è stato un momento in cui Caparezza poteva diventare Hollis, fuggendo da tutto e tutti? «Sì. Essenzialmente poteva accadere per due motivi. Il primo, la salute. Il mio problema con l’acufene è qualcosa che devo monitorare costantemente, che mi rende faticoso tutto: ogni disco è come una piccola bandierina che riesco a conficcare in un complicato sentiero che è una scalata verso un traguardo non semplice. Non parlo spesso di questo. Perché non voglio farmi compatire. Voglio essere apprezzato per quello che faccio, non perché poverino vado aiutato e sostenuto. Ho affrontato direttamente l’argomento solo in un brano dello scorso album, in Larsen, ed era tutto tranne che una canzone struggente».
Questo è un motivo. Comprensibile. L’altro, invece? «Capire se tutto questo ha un senso. Ha senso fare un nuovo disco? E se sì, qual è? Perché lo faccio? Per soldi? Fare qualcosa per soldi, non è mai un buon motivo». Fermi lì: non sarà un buon motivo per te, ma ormai la galassia-Caparezza è qualcosa che non riguarda solo te, c’è tutta una serie di persone che attorno alla tua musica ci lavorano e, di conseguenza, ci vivono. «Vero. In un mondo ideale, questi problemi non dovrebbero esistere. Ma il nostro non è un mondo ideale. Quindi sì, non è che i soldi non servano a un cazzo, e non è che di loro non me ne freghi un cazzo. Ci sono delle contraddizioni, e con queste contraddizioni bisogna entrare in conflitto. Nel caso specifico, bisogna avere ben chiare le proprie responsabilità: responsabilità che non sono più solo nei confronti di se stesso come a inizio carriera, ma sono ora anche nei confronti di altre persone. Quando però abbiamo iniziato ad avvicinarci al rap, io ma penso un po’ a tutti quanti, perché lo si faceva? Per soldi? No, zero! Anzi: se provavi a dirlo eri uno sfigato, eri uno commerciale, marchio di infamia! Mentre ora…».
Ora? «Ora, sembra ogni tanto di essere in quadro di Escher: vuoi fare i soldi dicendo al microfono che vuoi fare i soldi. Poi magari funziona, eh, bravo tu che lo fai funzionare… Ma non fa per me. Io posso solo dire una cosa: sono orgoglioso di tutti i soldi che ho rifiutato, e soprattutto di quelli che ho rifiutato quando ero povero. Davvero, ne sono orgogliosissimo. “Eh, ma sei un cretino, ok che ora va tutto bene ma magari un giorno scoprirai che ti avrebbero fatto comodo anche quei soldi lì”: ok, può essere, ma per ora io sono a posto così. Detto questo, lo so bene che non si può essere immacolati. Lo so bene. Men che meno oggi, che i miei guadagni arrivano solo dai dischi che vendo e dai concerti che faccio». Solo da lì? «Non ho sponsorizzazioni di alcun tipo. Non faccio da testimonial a comando su Instagram, o altrove. Mi rifiuto. Ma mi rifiuto non perché voglia essere Don Chisciotte, attenzione, ma semplicemente perché io sono così. La mia libertà è più nelle cose che non faccio che in quelle che faccio».
Resta il gusto della complessità: «Io negli anni ho difeso strenuamente persone e cause che poi, negli anni, ho scoperto essere molto ma molto diverse da quello che credevo. Persone che oggi sputano su quello che dicevano, e magari pure su quello che ho fatto io per difenderle; e ovviamente non è che la cosa mi renda felice. Oh, pure in famiglia ho gente che oggi simpatizza per la Lega, “ma guarda, in fondo quel Salvini non ha mica tutti i torti, sai?”, e manco si accorgono dell’assurdità della cosa… La realtà è complessa. Non puoi capirla e non puoi abbracciarne la vera essenza se hai una visione manicheista del mondo, in cui esistono solo il bianco e il nero – e al nero non vuoi concedere diritti di cittadinanza, vuoi cancellarlo dall’umanità. E dico questo anche considerando i momenti in cui davvero entro nello sconforto, e ce ne sono! Per dire: io sono cresciuto che ci si immedesimava e si tifava per i giudici antimafia, ora invece la mafia è diventata una cosa affascinante, appetibile, addirittura da brandizzare, ed ecco, io qui proprio non ce la faccio. So che dovrei analizzare la questione nella sua complessità intrinseca, lo so!, ma non ce la faccio, non ce la faccio proprio. La criminalità è bella ed affascinante solo finché non ci finisci dentro davvero, allora lì le cose cambiano all’improvviso. Almeno, io sono convinto così. Va bene fare lo storytelling sul malandrino di turno, ok, ci può stare; posso anche capirlo, ma io di mio vorrei fare dello storytelling su persone come Libero Grassi, su chi ha combattuto tutta la vita contro i soprusi e le ingiustizie senza mai flirtare con certi tipi di mentalità. E prima o poi ce la farò».
La chiacchierata scorre verso la fine. Anche stavolta l’ennesima chiacchierata con Caparezza colta, evoluta, articolata, piena di riferimenti alti: non rischia di venire a noia, tutto questo? «Io su quello che dico e scrivo ci ragiono tantissimo. E cerco sempre di stare molto attento a non essere fraintendibile – ovviamente, non riuscendoci mai del tutto», ride. «Di sicuro, ammetto che ogni tanto mi limito proprio nel citare concetti o riferimenti vari, perché non vorrei sembrare quello che fa il professorino – anzi, il professorone – di turno. Non voglio ostentare. Anche perché non è per un cazzo questione di cultura, di educazione alta, di contesti di un certo tipo: è questione semmai di curiosità. E quella, credimi, è alla portata di tutti». Saggio. «Poi oh, il momento del cazzeggiare e del dire scemenze arriva comunque sempre… e su quello credo di essere abbastanza cintura nera. Su quello fidati che non mi tiro indietro, quando sono a mio agio. E anche quando sono su un palco».