Dalle nostre parti viene spesso tradotta male (e finisce per diventare sinonimo di spacciare, truffare, trafficare), ma nello slang afroamericano la parola hustle indica un concetto ben preciso: inventarsi un mestiere e perfezionare l’arte di arrangiarsi, spesso anche ai margini della legge, per sbarcare il lunario, cercare di arricchirsi e creare una sorta di imprenditoria parallela a quella dei canali ufficiali, che spesso negli Stati Uniti risultano inaccessibile ai neri. In questo senso, quasi tutti i migliori rapper sono degli hustler in senso stretto: c’è chi addirittura ne ha fatto un nome di battaglia, come Nipsey Hussle, «di cui sono un grande fan», ci racconta Capo Plaza al telefono. Hussle è morto a Los Angeles nel 2019, a 34 anni non ancora compiuti: gli hanno sparato davanti al negozio di vestiti che aveva fondato con i proventi della sua carriera discografica, per dare lavoro (e un’alternativa) ai ragazzi del suo quartiere. Fino all’ultimo, ha provato a migliorare le condizioni di vita per sé e per la sua comunità.
«È difficile spiegare il concetto a chi non vive questa cultura», riflette Plaza, che in virtù di quanto sopra è appena uscito con il suo Hustle Mixtape. «Per me hustle non è solo una parola, è una mentalità, quella che ti costringe a non mollare mai, a stare sul pezzo, ad avere sempre un obiettivo. Sono sempre stato un ragazzo che ha combattuto per i propri sogni, che ha saputo reagire davanti alle difficoltà». Allo stesso tempo, comprende che far conoscere le sue motivazioni e le sue spinte è fondamentale, se vuole arrivare davvero a tutti. «Finché la nostra cultura non viene presa sul serio, finché non capisci cosa mi ha ispirato, come faccio a spiegarti la mia musica? Ogni volta mi tocca fermarmi a spiegarti perché indosso le catene d’oro, anziché parlare d’altro. L’Italia non accetta il progresso, nel sound come in qualsiasi altra cosa. In molti altri posti, anche vicini a noi – Francia, Inghilterra, Germania, Svizzera – non è affatto così».
Ascolta la versione audio dell’articolo con vocally
[vocallyfm-iframe]
Capo Plaza non ha mai smesso di avere fame, neanche dopo il successo dei suoi primi due album ufficiali, pubblicati quando aveva tra i 20 e i 23 anni, che hanno totalizzato finora sei dischi di platino e sono entrati in classifica in diversi Paesi europei. «Per me è fondamentale essere grato dei traguardi raggiunti, ma mai soddisfatto. Certo, c’è il rischio che ogni volta io non me la goda perché sono troppo impegnato a chiedermi “Ok, e dopo?”. Ho imparato a prendermela più rilassata solo con il tempo, quando sono cresciuto un po’ e ho capito meglio come giravano le cose. Ci vuole equilibrio, e una consapevolezza di ciò che sei e ciò che puoi essere». In questo, lo ha aiutato molto aprire i suoi orizzonti anche oltre i confini italiani: appena ha potuto, con i primi soldi che ha guadagnato grazie alla musica, ha cercato di girare il continente il più possibile, tant’è che non percepisce se stesso semplicemente come un rapper italiano, ma come un rapper europeo.
È facile intuire in che senso, mettendo in play Hustle Mixtape: è il tipo di prodotto in cui il sound è talmente pervasivo che il testo passa quasi in secondo piano, un po’ come quando ascolti un disco in una lingua che non conosci. O in un patois universale, piuttosto: quasi tutti i titoli delle tracce (Everyday Everynight, Hennessy, Giungla, Rapstar) hanno qualcosa in comune. «Ho cercato di usare un linguaggio e uno slang che fosse comprensibile anche da chi non parla italiano», spiega. «Anche perché molti pezzi, come Hustle e Rapstar, sono frutto di miei periodi all’estero. Viaggiare per me è sempre stato uno stimolo, e ora capisco di più perché molti grandi artisti provengono da città ricche di arte e di stimoli come Londra o Parigi. Quando sei lì, ti viene voglia di creare. Il mondo per me è un libro, e viaggiando lo leggo. Mi arricchisco tantissimo ogni volta che vado altrove».
Hustle Mixtape, come da tradizione di Capo Plaza, non è roba per tutti: il suo mood oscuro e senza concessioni al pop lo rende meno immediato, per chi non ascolta già un certo tipo di hip hop. Una scelta precisa, dice il diretto interessato, perché «mi vedo come un Bruce Wayne del rap, più che come un Batman: sto zitto e sto nel mio, ma quando c’è qualcosa da fare porto a termine la missione. Non amo stare al centro dell’attenzione o sotto i riflettori come persona, mi espongo solo musicalmente. E poi, come Bruce sono incazzato nero perché nella vita ne ho passate tante, ma allo stesso tempo al momento giusto so esprimere i miei sentimenti». Ci tiene a sottolineare che nulla è frutto del calcolo, in questo progetto: «Tutti i pezzi di questo tape sono stati fatti più per me stesso che per gli altri, perché ne avevo proprio bisogno. Dovevo fare qualcosa che sentivo fosse giusto, qualcosa che mi avrebbe reso davvero felice nel momento in cui fosse uscito. E difatti è stato così. La musica deve essere spontanea».
Qualche mese fa ha passato un momento abbastanza buio, anche se preferisce non entrare nei dettagli. «Ero davvero giù, mi erano successe parecchie cose brutte, e mi sono sfogato facendo musica. Pezzi come Paranoie sono nati così, in un paio d’ore. Sono una persona molto ansiosa, anche perché fumo tanto (ride). Ho seguito il cuore e le emozioni e ho sputato un po’ di rabbia su quel beat, e mi sono subito sentito meglio». Anche il singolo Capri Sun, apparentemente estivo ma dall’anima dark, è figlio dello stesso periodo. «Avevo già un bel po’ di pezzi per il mixtape, ma erano tutti parecchio pesi, e volevo mettere anche qualcosa di più leggero, ma si percepisce che è un misto tra dolore e gioia».
Molto meno sfumato, invece, è un pezzo come Air Force, che segue la tradizione dei numerosi pezzi rap dedicati a un modello di sneakers (da Nelly come da Ensi) che ha fatto la storia dell’estetica hip hop. «Se dovessi indossare un solo paio di scarpe per tutto il resto della mia vita, sarebbe quello. Quando ero piccolo erano di super tendenza: avevo 10 anni e costavano ancora 99,99 euro, che per noi erano tanti soldi. Mia mamma riusciva a comprarmene un paio all’anno, quindi cercavo di alternare gli acquisti: un anno le prendevo bianche, un anno nere, un altro alte, poi basse…», ricorda sorridendo.
Plaza non ha dimenticato il suo passato, ma il suo sguardo è rivolto soprattutto al futuro. Innanzitutto al suo: lo aspetta un’estate di date dal vivo e di instore, ma spera di riuscire a infilarci dentro anche qualcuno dei suoi amati viaggi in giro per l’Europa e non solo. Guarda anche al futuro della scena hip hop italiana. «Quelle che erano le nuove leve, ormai, sono diventati rapper conosciuti e hanno portato avanti un bel movimento: mi spiace che nella nostra nazione non siamo in grado di rendercene conto. Stiamo tenendo alta la bandiera della musica italiana nel mondo, perché quella che arriva all’estero, piaccia o non piaccia, è soprattutto la nostra roba. Ci meritiamo un maggior riconoscimento, più rispetto: non siamo gente da piazzare in tv e prendere in giro, come spesso succede».