Capo Plaza: «La trap non è pop»
C’è chi scende dal treno della trap per darsi al pop. Lui no. Fa numeri pazzeschi, eppure il secondo album ‘Plaza’ ha il carattere ruvido dell’underground. Il viaggio della speranza Salerno-Milano, la fama, la necessità di crescere in fretta: intervista a un cane sciolto che ai big della scena preferisce i giovani. «Loro sono il futuro e io sono contento di farne parte»
Foto: Gabriele Micalizzi
Il primo video della saga di Allenamento, una specie di marchio di fabbrica per Capo Plaza, è uscito nel 2017 ed era una clip in bianco e nero dalle ambientazioni che richiamavano vagamente quelle della banlieue francese, cruda e squallida. Quattro anni dopo siamo ormai arrivati al capitolo #4 di Allenamento, e anche se un sentore di banlieue è rimasto, il mood è decisamente cambiato.
Stavolta è lo stadio di San Siro deserto ad accogliere il rapper e i suoi trionfali record (l’album di debutto 20, uscito nel 2018 quando aveva appunto vent’anni, è arrivato ormai al triplo disco di platino, a cui ne vanno aggiunti altri sette per i singoli Tesla e Giovane fuoriclasse, diventati veri e propri inni generazionali). Nel mentre ha partecipato a remix internazionali per artisti del calibro di Scott Storch, Aya Nakamura e A Boogie wit da Hoodie, si è messo a lavorare a un secondo album con ambizioni altrettanto internazionali, che vanta i featuring del già menzionato A Boogie wit da Hoodie, Gunna, Lil Tjay, Luciano e di Sfera Ebbasta, suo vecchio amico e unico italiano presente. Il tutto senza grandi concessioni al pop o alla melodia, cosa che lo rende quasi un unicum in un panorama di trapper che, per non rischiare di perdere pezzi, spesso si dichiarano duri e puri, ma ammiccano a Sanremo o al repertorio nazionalpopolare.
Il percorso che lo ha portato fin qui è fatto sì di tanto allenamento, ma anche di lunghi viaggi dalla sua Salerno a Milano, la capitale del rap e della discografia, che quando era ragazzino era meta dei suoi pellegrinaggi e oggi ha eletto a residenza permanente. Di treni e autobus ne ha presi più di quanti possa ricordare, ci racconta, e quello che ha preceduto la sua ascesa è stato un periodo indubbiamente duro, ma mai quanto quello che ha preceduto l’uscita di Plaza, il suo secondo lavoro, in arrivo su tutte le piattaforme domani e già record grazie appunto ai fasti di Allenamento #4.
Molti dicono che il secondo album non solo è più difficile del primo, ma è anche più difficile di tutti quelli che seguiranno…
È assolutamente così. L’ho sempre sentito dire, ma l’ho capito davvero solo adesso. Per quanto riguarda me, il primo disco è stato fatto di getto, da un ragazzino che non si rendeva neanche conto di quello che gli stava succedendo attorno. Qui invece c’era un team di lavoro molto più grosso, molti più mezzi, ma anche più pressione. Per me Plaza doveva essere uno step in più, sia musicalmente che nella scrittura. Oltretutto non dovevo superare solo me stesso, ma anche le aspettative degli altri. 20 è andato benissimo e non è facile fare meglio di così.
Fin da piccolo hai sempre voluto superare te stesso e le aspettative degli altri, tant’è che anziché accontentarti di fare rap in cameretta venivi fino a Milano alla ricerca di orizzonti più ampi. Cosa ti spingeva?
Non te lo saprei dire: a 7 anni ho visto per la prima volta un video di Kanye West, sono impazzito e non ho più pensato a nient’altro che al rap. Ancora oggi non mi so dare una spiegazione del perché le cose siano andate così bene, alla fine: qualcuno da lassù ha voluto aiutarmi, o forse ero davvero nato per questo, o magari a furia di perseverare ce l’ho fatta.
Com’erano, questi viaggi della speranza?
Molto belli, perché passare da Salerno a Milano è come andare da Milano a New York, a livello di cambio di mentalità. All’inizio l’unico amico che avevo in città era Sfera, perciò stavo sempre con lui: ci eravamo conosciuti sui social (addirittura su Facebook, che nessuno dei due usa più, per farti capire quanto tempo è passato). Facevo continuamente su e giù dalla Campania alla Lombardia e ritorno, e ogni volta che arrivavo conoscevo più persone, avevo allargato la mia rete, avevo capito qualcosa di più sulla musica. A volte non avevo neppure un vero motivo per salire: lo facevo e basta, giusto per passare un po’ di tempo qui.
Per un periodo purtroppo non ho più potuto muovermi, perché ho avuto un piccolo problema con la legge da giovane, ma appena è finita tutta la tarantella della causa, della messa in prova e dei servizi sociali, sono ripartito, e alla fine mi ci sono trasferito. Ho capito da subito che era il posto dove dovevo stare, che il mio futuro sarebbe stato qui: Salerno mi ha cresciuto, ma è una realtà provinciale, quindi mi è sempre stata un po’ stretta. Dai 17 anni in poi Milano mi ha accolto, mi ha fatto diventare grande, mi ha aperto la mente. Oggi che sono riuscito a comprare due case qui, dopo aver passato anni a spostarmi in mille appartamenti in affitto, è una grande soddisfazione. Spero di poterci vivere per sempre.
In passato hai detto che ti piacerebbe anche abitare all’estero, però…
Sì, vorrei farmi un anno o due in America o a Londra. Mi aiuterebbe a crescere musicalmente e come persona. Mi è già capitato di viaggiare, ma avevo giusto il tempo di abituarmi e già dovevo rientrare in Italia. Vorrei fare un’esperienza vera, per respirare un’altra cultura e un altro ambiente. Anche a costo di scoprire che proprio non mi ci trovo.
Il fatto di stare lontano dall’Italia ti permetterebbe anche di sfuggire alla fama, che notoriamente non vivi benissimo. Come mai?
Un po’ mi pesa, sì, soprattutto per l’età che ho: vorrei fare le cose che fanno tutti gli altri ragazzi di 22 anni, ma non posso. E a volte mi ritrovo coinvolto in discorsi e discussioni che sono troppo grandi per me e i miei coetanei. Sono cresciuto in fretta, purtroppo e per fortuna, ma non è sempre semplice.
A proposito di età, in Street usi un campione di una hit dei primi anni ’00, Dilemma di Nelly e Kelly Rowland (delle Destiny’s Child, il primo gruppo di Beyoncé, nda): quando è uscita avevi appena 4 anni. Come mai questa scelta così lontana da te, anagraficamente parlando?
Avevamo da un po’ l’idea di inserire in questo disco un brano con un sample famoso: è stato un azzardo, perché il rap contaminato con il pop non è proprio il mio genere, e infatti è la traccia a cui ho lavorato di più in assoluto.
Di solito scrivi di getto?
Sì, molto. Per scrivere un pezzo in studio ci metto un’oretta: se devo pensarci troppo, mi sembra che le cose non escano come devono uscire. A Street, invece, ho lavorato quasi un mese, ma alla fine è diventato uno dei più inaspettati e interessanti dell’album. Dilemma è una hit leggendaria, che è rimasta nella storia anche perché ha unito mondi molto diversi. Ancora oggi i ragazzini su TikTok la usano, è impossibile non conoscerla. Chi come me ha cominciato ad ascoltare rap da bambino andava su YouTube e scopriva un mondo: Notorious B.I.G., Raekwon… Gente che rispetto a noi era vecchissima, ma di cui capivamo la musica. Da una parte, visto che Plaza è anche un disco abbastanza internazionale, spero che un giorno Nelly e Kelly Rowland avranno modo di ascoltarlo, e magari mi arrivi un loro messaggio in cui mi dicono che spacca (ride).
In effetti tu, a differenza della maggior parte dei trapper italiani, non hai mai virato verso il pop: la tua è vera e propria trap, il che rende Plaza un disco anche molto ruvido, non per tutti…
Esatto, e ci terrei a farlo capire: la trap non è pop. Soprattutto quella che gasa a me. Ci sono degli standard, e credo che il fatto di essere arrivato così in alto con la mia musica non voglia dire che io debba snaturarmi: non devo vendermi per vendere, grazie al successo che ho ottenuto dopo 20 posso permettermi di non farlo. Spero che il mio album venga compreso per quello che è: in America, in Inghilterra e in Francia anche pezzi con un sound molto duro e underground finiscono primi in classifica, perché non dovrebbe succedere anche qui? I tempi cominciano a essere maturi anche da noi, soprattutto grazie alle nuove generazioni di rapper che stanno emergendo adesso.
Qual è il tuo rapporto con la scena rap di oggi, tra l’altro?
Ti dico la verità: passo molto più tempo con le nuove leve che con i big della scena. Mi rivedo molto più in loro, sono molto più vicini a me sia come età che come mentalità. Per me loro sono il futuro, e sono contento di farne parte.
In una delle pause dello shooting mi è capitato di sentirti raccontare che a Salerno ormai non hai più amici, e che anche qui a Milano non ne hai tantissimi. Da cosa dipende?
Sicuramente dalle mie esperienze passate, molte persone mi hanno deluso. E sicuramente anche la fama ha inciso: non sai più chi ti calcola perché sei Luca (il suo nome di battesimo, nda) e chi ti calcola perché sei Capo Plaza. Finisci per rispettare tutti, ma per non fidarti di nessuno. Gli amici veri li conto sulle dita di due mani, e a volte mi sento davvero solo. Ma che ci si può fare? È nell’ordine delle cose, bisogna tenere duro.
È da poco che sono arrivato a questa consapevolezza: forse da prima del lockdown. Avevo appena finito il tour europeo, e per la prima volta mi ero reso conto di quello che stavo diventando: prima ero troppo impegnato a correre per riuscire a guardarmi intorno, avevo i paraocchi, di fatto. Ho vissuto un periodo molto scuro, pesante: un successo del genere è difficile da gestire, se ti arriva alla mia età. Per fortuna sono riuscito a trovare il modo di rialzarmi: anche se hai altre persone vicino, la forza la puoi trovare solo in te stesso.
In Fiamme alte, uno dei brani dell’album, dici: “Faccio gli incubi / basta Rivotril / sulle mura di casa c’ho i platini / ma da solo con la vista mare / poi nel letto da solo fa male” (il Rivotril è una benzodiazepina, nda).
Credo che Fiamme alte sia il pezzo che rappresenta di più la mia vita: anche ora, quando lo riascolto, mi emoziona. Quando dico “basta Rivotril” è perché davvero ho passato un lungo periodo in cui per riuscire ad addormentarmi dovevo prenderlo, altrimenti erano nottate di merda. Il concetto di quel brano è: che cosa cambia se hai tutto e alla fine sei comunque da solo? Per fortuna, sono abituato a stare tra le fiamme alte. Sono abituato a sorridere anche quando sto malissimo. È difficile esporsi su temi così personali, così come è difficile sentirsi giudicati da chi non ti conosce, ma fa parte del gioco. Capita agli artisti, ai personaggi famosi, ai calciatori.
Leão, un attaccante del Milan di cui tu sei tifosissimo, ha detto che i rapper e i calciatori hanno un sacco di cose in comune. Sei d’accordo con lui?
Assolutamente, e infatti abbiamo un ottimo rapporto (ride). Anche lui è un esempio di rivalsa, perché è un ragazzo che stava in mezzo a una strada a giocare a pallone e ora è a San Siro. In generale, gli atleti e i rapper sono sempre stati molto uniti: guarda la relazione strettissima che c’è in America tra l’hip hop e il basket. Tutte le periferie si assomigliano, e anche tutte le storie di ascesa e vittoria.
In Ferrari dici “Siamo tutti nel party / o resisti o collassi”. Una metafora molto azzeccata sulla corsa alla fama in questo periodo storico…
Non puoi fermarti mai, perché se lo fai qualcuno prenderà il tuo posto. È dura. Bisogna combattere.
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Foto: Gabriele Micalizzi
Ringraziamenti location: ATM, FS italiane, Comune di Milano, Webuild Spa, M4 Spa
Thanks to: Giorgio Dirindin, Sasha Tettamanni, Alessandro Cimma, Samar Zaoui
Video: Omar Cristalli