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Carl Brave: «’Sotto cassa’ è un piatto crudo: tie’, magnatelo e dimmi»

Gli dicono «torna a fare indie», ma lui indie non è mai stato. Dagli studi di elettronica con Ketama al nuovo disco «senza regole» dedicato alla club culture, ecco l'anima techno del cantautore/rapper/produttore

Foto press

Fate un gioco con i vostri amici e chiedete: come definireste Carl Brave? Sono sicuro che qualcuno dirà rapper. Altri diranno un artista pop, oppure indie. Altri ancora – soprattutto se bazzicavano nel mondo romano – potrebbero stupirvi e dire produttore elettronico, mezzo techno. Ma chi avrebbe ragione?

Qualche giorno fa, a sorpresa, è uscito Sotto cassa di Carl Brave dedicato, come il titolo esplica, al mondo del clubbing e dell’elettronica. Fa strano pensare questa scelta se consideriamo che il suo ultimo lavoro era una hit da radio come Makumba, in collaborazione con Noemi. Naturalmente non parliamo di un disco club oriented puro, ma un utilizzo dell’elettronica per rilanciare il linguaggio che ha consacrato l’artista romano. Lo raggiungiamo al telefono mentre sta per prendere il treno che da Milano lo riporta a Roma.

Ciao Carlo, stai scappando da Milano perché sei uno di quei romani che odiano Milano?
No, figurati, ci ho vissuto due anni mentre frequentavo la SAE Institute con Ketama (una decina d’anni fa, ndr); abbiamo studiato electronic music production.

Non riesco ad immaginarvi dietro i banchi a studiare produzione. Come è stato quel periodo della vostra vita?
Eravamo sempre in giro a sentirci i dj e i producer che ci piacevano e poi stavo fino alle 6 a produrre, a cercare un mio suono. In quegli anni ho vissuto a Malaga, poi a Berlino, sempre con Ketama. Centomila locali, centomila feste in casa. Considera che i primi rudimenti di produzione, pre-SAE, me le ha insegnate proprio Ketama.

I tuoi primissimi lavori come produttore infatti erano più orientati all’elettronica.
Sì, penso che in certi lavori si potessero già capire molte cose. In Cleopatra, uno dei miei primi lavori, si può scorgere il percorso con cui sono arrivato al linguaggio di Polaroid: una ricerca di immagini sul quotidiano e una produzione minimale. In quel periodo ero in un mood più elettronico, lo si sente bene in Stoned, un trip alla Kalkbrenner. Sono pezzi dimenticati da dio, nessuno li conosce, ma per me sono ancora validi.

Nel panorama pop italiano sei uno dei pochi che si produce gran parte dei propri lavori da sé, come dimostra questo EP. Quanto pensi sia importante essere il producer principale di te stesso?
È fondamentale; decido io come suonare, cosa fare. Il mio stile è solo mio. Ti dico però che aver anche producer esterni che mi mandano cose è un bene, un ulteriore stimolo. Così si possono fare cose che da solo non avrei mai pensato. Ognuno, alla fine, ha il suo gusto, e aver uno scambio con altri produttori aiuta ad ampliare il proprio bagaglio.

Tra l’altro sei un produttore e un compositore eclettico. Sotto cassa vuole essere un ritorno all’elettronica ma arriva subito dopo Makumba, il brano che hai prodotto e scritto per Noemi che invece è una hit da classifica.
E se ci pensi il pezzo prima ancora è L€BRON (64 Bars) per Red Bull, una trappata; tutt’altra cosa! A me diverte mettermi in gioco. Ad esempio, in Makumba mi è piaciuto mettermi lì a provare a scrivere la hit. L’idea di comporre una hit, di fare un pezzo composto come una hit, quindi in un certo modo, con delle regole di minutaggio, struttura, ecc, mi prende bene. Sotto cassa invece è l’opposto, senza regole, senza schemi, senza il bisogno di scrivere qualcosa che sia una hit per la radio, anche perché Makumba, che pensavo fosse super radiofonico è andato fortissimo su Spotify, ma in radio un filo meno di quanto mi aspettassi.

E come mai hai scelto ora di tornare a fare un disco dedicato al mondo “sotto cassa”?
Volevo fare una roba diversa, che “non ci stava”. Ascolto tutto, sono un grande fan dell’elettronica, ma l’idea è uscita così, a buffo.

Tutti questi cambiamenti di genere come sono vissuti dal tuo pubblico? Li disorienta?
Dopo Polaroid da molti sono stato etichettato come indie. C’è ancora gente oggi che mi scrive «torna a fare indie», ma io non sono mai stato indie! Ok, c’è quel disco che, se vuoi, è indie, ma io vengo dal rap, è quella la mia base. Il rap e la techno.

Parlando sempre di questo eclettismo, in Sotto cassa ogni brano ha una versione elettronica più spinta e una versione ridotta in forma acustica lo-fi, buttata lì come fosse una schitarrata tra amici. Come nasce quest’idea della doppia versione?
Mi sembra che spesso la musica, intesa come la parte strumentale del brano, non sia realmente il punto d’interesse del pubblico. Il pubblico italiano predilige il testo su tutto il resto. Ma per me la base, che è spesso il punto di partenza, è più importante, è lei che setta il mood del brano. Proporre una doppia versione dei brani serve a far sentire il testo su due mood differenti, un vestito elettronico e una versione acustica. Così il pubblico può capire quanto un vestito sonoro sia importante. Penso allo sforzo che ho fatto in Polaroid per trovare quel suono specifico, per capire che quei testi non funzionavano sulla trap o su produzione elettroniche, ma che avevano bisogno di strumentali suonate da musicisti. Ogni brano ha bisogno del suo giusto sound.

Nei featuring presenti in Sotto cassa ci sono tuoi grandi amici come Ketama126 e Pretty Solero, Gemitaiz e una collaborazione inedita con Myss Keta e Speranza. Come hai scelto questi featuring?
Quel periodo delle discoteche – come ti dicevo – l’ho vissuto con Ketama e Sean (Pretty Solero, ndr), averli nel disco era obbligatorio. Con Gemitaiz invece ho fatto mille feat, lui è bravissimo e funziona su tutto.

E con Myss Keta e Speranza? Come nasce Matrimonio Gipsy?
Spesso, quando devo scrivere e produrre cose nuove, vado in qualche posto lontano con un po’ di musicisti. In passato sono stato a Granada, a Miami. Stavolta ero in Sicilia. Dopo aver prodotto la strumentale di ciò che sarebbe diventata Matrimonio Gipsy (quella trombettina un po’ gitana su cassa dritta) mi è venuto automatico chiamare Myss Keta. Sapevo avrebbe spaccato. Lei ha invitato Speranza e alla fine è uscito questo brano in cassa dritta, ma gipsy, con la Myss che ti fa il ritornello e Speranza che entra a farti la strofona. Ti dico solo che dovevamo fare un video pazzesco coinvolgendo Il boss delle cerimonie; peccato sia zompato!

Parlando di video, per lanciare il disco hai preparato un clip con i tuoi amici The Pills in cui fate molta ironia sulle discoteche di adesso, sulla club culture, su come è variato il mondo della notte. Niente più botte, buttafuori sovraeccitati e droghe di merda, ma inclusione, presa bene, droghe buone. Com’è oggi il tuo rapporto con il club, con la discoteca? Frequenti la scena clubbing romana?
In Italia, o almeno a Roma, la situazione era già cambiata prima del Covid, nei club la techno aveva lasciato lo spazio alla trap. È difficile parlare di clubbing a Roma, non c’è una scena o un giro come a Milano o a Berlino. Spero comunque si possa ripartire presto. Nel video invece vedi proprio come siamo, o meglio, delle macchiette di ciò che siamo quando usciamo. Quando ero pischello, prima di essere Carl Brave, venivo rimbalzato in continuazione. Il video parla di quello. Sai quando arrivi al locale e il buttafuori ti dice quelle frasi tipo «non sei vestito bene», ecco, a me capitava sempre e mi faceva impazzire. Stavo là, in coda, per 20 minuti, e poi venivo respinto! Per fortuna ora sono Carl Brave e non ho più quel problema.

Se ci pensi, la coda, il buttafuori, l’essere rimbalzato è la cosa che accomuna le discotecaccie al club per eccellenza, il Berghain.
Eh sì, vero, però là è il contrario, se stai in camicia non entri proprio. Però non sono mai andato al Berghain quando ero a Berlino, c’erano sempre file tremende, le file sono il mio incubo.

Ultima domanda e poi ti lascio andare a prendere il treno. Il disco è uscito senza grandi proclami, a sorpresa, a metà settimana. Come mai questa scelta?
Mi piaceva l’idea di metterla giù così. Di getto, di botto. È un piatto, un crudo, tie’, magnatelo e dimmi.

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