Carla, il momento è solenne, almeno per me. Ma non ti farò un’intervista da fan, le detesto. Anche se potrei cantarti a memoria persino il tuo disco coi testi dei poeti inglesi.
Ah sì? Ma che bello! Lo conoscono in pochi.
Te l’ho detto. Non ti farò dunque un’intervista da fan, ma spero in una chiacchierata che, insieme al tuo disco Carla Bruni che esce venerdì, serva a farti comprendere finalmente da tutti. A patto che tu, soprattutto in Italia, non ti senta capita, altrimenti passiamo oltre.
Non è che non mi sento capita. E, in generale, ho molte difficoltà a dire che non mi sento capita, o a fare la vittima, perché non sono quasi mai vittima di niente. Perciò non oso dirlo, però, effettivamente… Io mi sento tanto italiana, proprio nelle cose più profonde, nel carattere, è un fatto di nascita. E non so perché, ma gli italiani mi trattano come se non lo fossi. Poi io di sangue sono anche tanto francese, mia nonna era francese e mi ha allevata lei, qualcosa di francese nella mia vita c’è stato fin dall’inizio. Jean Cocteau diceva: «Gli italiani sono dei francesi di ottimo umore».
Chiudiamola qui. Mi sembri giustamente di ottimo umore pure ora che dobbiamo parlare di questo tuo nuovo disco, anche se è un disco quasi crepuscolare, sicuramente autunnale.
Io lo adoro l’autunno, è una stagione bellissima. L’autunno è più flamboyant dell’inverno, che è una specie di sonno. Adesso è ancora tutto vivo.
Cito un po’ di versi diciamo così autunnali, allora. Da Un ange, “un angelo”: «Cruelle est l’absence, inquiète et fragile l’existence», “crudele è l’assenza, inquieta e fragile l’esistenza”. Da Quelque chose, “qualcosa”: «Quelque chose nous dit que c’est perdu», “qualcosa ci dice che è tutto perduto”. Da La chambre vide, “la camera vuota”: «Rien ne restera, de ce tas de bonheurs», “non resterà niente di tutta la felicità”. E poi c’è Rien que l’extase, “nient’altro che l’estasi”, una riflessione sulla morte dove non manca una certa solennità, ma vince la leggerezza.
La leggerezza viene dalla musica. Quando uno scrive delle parole non serie ma che trattano di argomenti seri – e la morte è un argomento molto serio, quando ti si avvicina proprio la senti – ho capito che ci sta meglio una musica allegra. La dolcezza sta in questo contrasto che porta la canzone dentro la vita. Rien que l’extase praticamente dice: che cosa facciamo contro la morte? Facciamo l’amore. Un po’ banale… (ride)
Eh, ma che altro dobbiamo fare?
Per me funziona benissimo, infatti. Non c’è niente di più forte contro la malattia, e contro la paura, dell’amore. Ma l’amore vero, con il desiderio, la gelosia. A parte l’amore e la morte, tutte le altre cose sono un po’ insipide, no? Anche quelle che ci sembrano molto importanti, tipo – non so – il successo, oppure la stabilità, o la generosità. Sì, vabbè, importantissime, ma vai a trovare qualcosa allo stesso livello dell’amore. Il momento in cui ci innamoriamo è già una cura, spazza via tutto. Bisogna vivere solo per quello. Tanto è un attimo che basta, finito, siamo six feet under.
Le tue ispirazioni sono dichiarate e si sentono. Le prime che mi vengono in mente: Bob Dylan, il blues, Marianne Faithfull con cui hai pure duettato in passato, i francesi come Georges Brassens e Léo Ferré, De André…
Mamma mia De André…
E poi lo senti anche tu, come lo sento io, che arriva pure Carla Bruni, in questa processione di universi musicali e letterari in qualche modo tutti legati tra loro?
Io non riesco mai a vedermi né a giudicarmi. Meno male, se no non farei niente, tanto sarei delusa. E questo mi aiuta molto. Però mi son sempre sentita non direi in diritto di scrivere, ma di sicuro fatta per quello: fatta per scrivere le canzoni. Ho sempre suonato le canzoni degli altri, ma, quando ho cominciato a scrivere le mie, mi è sempre riuscito molto naturale. Non so se mi sento nello stesso gruppo di tutte queste persone che ammiro tantissimo, che mi hanno ispirata, che mi hanno dato la voglia di scrivere. So che, quando quella voglia di scrivere non ce l’ho, ascolto due canzoni di De André e mi ritorna, perché dico: è troppo bello.
E il confronto, come lo gestisci?
Ma non è quella l’idea, lo so che non gli arriverò mai neanche alla caviglia. C’è gente che, per trovare un’identità sua, si allontana dalle persone che ammira. Io invece no, io vorrei fare le canzoni proprio come loro, quelle sono le mie canzoni ideali e perciò le imito, o cerco di imitarle.
E com’è la scrittura che è solo di Carla Bruni, invece?
Viene da sé. Esiste non un savoir faire, o forse sì. Esiste un modo di fare. Io non scrivo mai col pensiero, non mi dico mai adesso faccio una canzone sul quadro che c’è dietro di te (lo indica via Zoom, nda), o sulla libertà delle donne, o su due amanti che si separano. Mai. A me viene una specie di sentimento molto forte, anche se non è personale. Mi può arrivare, per esempio, osservando te nella tua vita, se noi fossimo amici.
Diventiamolo, Carla!
Con piacere. Dopo questo Covid, quando ricominceremo a viaggiare…
Torniamo a quel sentimento, se no m’illudo che succederà davvero.
Mi può venire un sentimento che non fa parte della mia vita, ma che è lo stesso molto intimo. È così che scrivo, da lì mi viene un’idea, una frase. Da un’emozione, mai da una decisione. Devo essere davvero commossa.
Ma sei anche disciplinata, immagino.
Ah, sì. Ogni volta che ho un momento così, lo scrivo o lo registro. E poi, quando decido di fare un disco, prendo il materiale che ho, lo metto tutto insieme e lo ricopio su un quaderno, come se fossi una bambina. E allora inizio a lavorare.
Comme si c’était hier, “come se fosse ieri”, è una specie di bilancio. Canti: «Trent’anni sono passati in una settimana». Sono gli ultimi trent’anni vissuti da te o anche in questo caso è la storia di qualcun altro?
Comme si c’était hier è una canzone sull’insostenibile velocità e tristezza delle nostre esistenze. E sulla possibilità che ci sia la fine del mondo, e che a quel punto ci ritroveremo tutti. A me un po’ piacerebbe che ci fosse qualcosina. Non dico proprio Dio, ma insomma… qualcosa. Che ci si possa ritrovare con quelli che se ne sono già andati.
Dimmi tu se sbaglio, ma è come se dentro le canzoni mettessi certe domande che ti fai, e magari non trovi una risposta, le butti lì ed è come se intanto te ne liberassi, poi si vedrà.
È esattamente così. Per me le canzoni sono una specie di rifugio: anche quelle degli altri. E allora, se devo scrivere le mie, le faccio così, come se fossero un posto dove rifugiarmi. Le canzoni non risolvono le cose che non possono essere risolte, ma mettono una distanza da quelle grandi domande. È come se addomesticassero la vita, le paure.
L’altra impressione è che nella musica tu voglia nascondere l’immagine di te che c’è fuori, e tutto quello che si porta dietro.
La mia immagine è confusa.
Agli occhi di chi? I tuoi?
Ma no, io l’idea della mia immagine non ce l’ho, o almeno me ne frego. Ho capito che non riesco a controllarla e allora, a un certo punto, ho lasciato perdere. Tanto non mi piace mai.
Non ti credo.
Se avessi potuto, l’avrei controllata, davvero. Ma anche quando tutti ti dicono come sei bella, come sei simpatica, non è che conti tanto. Al di là di un certo livello, la tua immagine va dove vuole.
Però con la tua immagine ci giochi, altrimenti non avresti sfilato per Donatella Versace, tre anni fa, con le tue colleghe supermodelle. Resta quel meraviglioso fotogramma di voi tutte insieme, tutte luccicanti.
Ah, era bellissima quella sfilata… Ma certo che ci gioco con la mia immagine! Io, anzi, amo questa cosa, e in un certo senso ne ho pure bisogno. Però, ripeto, so che non la posso controllare. E quando si ha questa consapevolezza, giocarci diventa anche abbastanza piacevole. Spero solo che la mia immagine a un certo punto mi assomigli.
E le altre immagini? Le tue foto da Première Dame con la regina Elisabetta, e con Obama, e con tutti gli altri? Quelle dove stanno adesso?
Nella valigia dei ricordi, e sono ricordi stupendi… È stato così divertente! E pure eccezionale. La regina, Obama, Nelson Mandela… tutti incontri fantastici. E poi centinaia, migliaia di persone anonime meravigliose anche loro, generose, interessanti. Sono stati cinque anni preziosissimi.
Ora tutto questo lo osservi da fuori?
Ma anche prima. Ero immersa in quel mondo lì semplicemente perché accompagnavo mio marito (l’ex presidente francese Nicolas Sarkozy, nda), ma lo guardavo sempre nello stesso modo. Io non sono di quel mondo, a me piacciono tutti i mondi, io sono affascinata dagli esseri umani in generale. La gente mi dice spesso: ah, la politica sarà stata così dura! Io trovo che le persone siano dure e dolci dappertutto, anche all’asilo. Certo, il potere è una cosa magari un po’ feroce, ma la vita è feroce sempre.
A me ora sembrano tutti ferocissimi, battono battono sulle loro tastiere sempre incazzati.
Sui social c’è il tribunale popolare, che è pericolosissimo, anche perché spesso è anonimo. In democrazia tutti abbiamo il diritto di esprimere le nostre opinioni, però con il nostro nome, non firmandoci Mickey Mouse. Questa cosa dei social invece è molto pericolosa. Non è vera giustizia, siamo noi e basta.
Sui tuoi social però ci sono i commenti della tua amica Naomi, e le foto che ti ha appena scattato Hedi Slimane… A un certo punto ci si abitua a tutto questo bello?
Secondo me il bello, oltre che una forma d’arte, è un modo di vivere. Ci sono molte persone che hanno accesso alla bellezza, e non è relativa al lusso, veramente. La bellezza è una cosa pura, intatta, e non parlo per forza della bellezza umana.
Anche perché oggi farlo è rischiosissimo, è un tema che va maneggiato con cautela. C’è una differenza, rispetto a quando eri una modella?
Gli anni ’90 erano molto più liberi. Ora, mi sembra, siamo entrati in un momento un po’ scuro. Un momento in cui si denuncia la gente, in cui l’indignazione è sempre basata su qualcosa di abbastanza ignorante, in cui ci sono grandi movimenti da seguire come se fossimo tutti delle pecore. Mi preoccupa molto. La bellezza, invece, è qualcosa di eccezionale, non funziona in un mondo in cui tutto dev’essere uguale e piatto. Parlo proprio della ricerca della bellezza, e dell’eccellenza, che oggi non è un concetto tanto di moda. Forse bisogna trovare un equilibrio. Da un lato c’è la parità dei sessi nei governi, che è giusta. Dall’altra, questo movimento che vuole fare giustizia in tutto. Ora c’è chi dice che in ogni film ci dev’essere una donna, o un gay, o un disabile. Non penso che imporre certi personaggi porti a una vera giustizia sociale, per me anzi è un passaggio molto pericoloso. Oltre che triste e umiliante per la qualità artistica, e anche per le minoranze. Cosa me ne faccio di una donna di cinquant’anni in un film, se è imposta solo in quanto prototipo di qualcosa?
Sono un tuo filologo, dicevo. Nella deliziosa autobiografia di tua madre Marisa Borini, Care figlie vi scrivo, di te viene detto che andavi male a scuola, che scappavi di casa per andare ai concerti rock, che facevi tutto di nascosto.
È vero, ero una pessima alunna. Cioè: non ero proprio fatta per la scuola. Le cose di nascosto le faccio ancora, mi piace anche solo l’idea, poi magari non è niente di speciale, ma mi piace che sia fatto di nascosto. Per esempio esco di notte, vado a fare dei giri quando tutti dormono. Ma qua ci sono dei poliziotti che guardano mio marito, non è semplicissimo. Mi piace l’idea di essere libera anche così, per niente. Come un profumo.
La libertà è un altro tema ricorrente nella tua musica. Scrive ancora mamma Marisa: «Carla è Capricorno, ama la solitudine e il mistero». Anche queste cose tornano sempre nelle tue canzoni, il mistero certamente, e una solitudine che però pare serena.
Lo è. Io quando son sola sono beaaata. È come se mi ricostruissi ogni volta. Con la scusa di scrivere, mi prendo due-tre orette tutta sola, anche se poi magari non faccio niente. Adesso succede di più di notte. Da quando ci sono i bambini, il marito…
Mentre tu accompagnavi “il marito” nella sua dimensione pubblica, lui – se posso permettermi – ti lascia tanto da sola, in questo tuo rifugio che cerchi con la musica.
Lui mi lascia libera in tutto. Strano, eh? Ho capito sul tardi, a quarant’anni, che in fondo il matrimonio è libertà. Alcuni pensano sia l’opposto. E invece è bellissimo essere liberi da sposati, è il meglio di tutto.
A tua sorella, che duetta con te nel pezzo Voglio l’amore, devi invece un film. Tempo fa le domandai perché non chiama direttamente te per le sue storie famigliari, lei ridendo mi rispose: ma Carla mica si fa dirigere da me, lei fa i film con Woody Allen.
(Ride) Ma guarda, io non sono una brava attrice, mentre lei potrebbe cantare di più. Ha un talento al di là del fatto che sia mia sorella. Ho proprio un piacere, un’ammirazione per lei, le chiedo continuamente consigli. L’attrice l’ho fatta poche volte in vita mia. Prima di tutto, non ho proprio il talento. E poi semplicemente non fa per me. Son lì che aspetto, e aspetto, e mi annoio. Quando scrivo una canzone mi diverto un mucchio perché faccio tutto io, ho come l’impressione di stare facendo un oggetto tutto da sola, come quando da piccoline facevamo quelle collane per la festa della mamma. Con i film mi sento che non son nulla.
In un’intervista nel backstage di una vecchia sfilata che si trova su YouTube, Milly Carlucci osserva che tu vieni da una famiglia privilegiata, e tu rispondi che sì, è agiata, ma in fondo “normale”. Che cos’è la normalità per Carla Bruni?
(Fa una lunga pausa) Per me la vita quotidiana è una cosa normale. Poi, col lavoro che faccio, ci sono dei momenti un po’ estremi: ma non ci sono nella vita di tutti? L’intimità, la famiglia, l’amore, la coppia, quella è la normalità. La vita tranquilla, quella in cui uno sta bene, in cui c’è tempo per leggere, per guardare un film.
L’ultimo che ti è piaciuto.
Mi è piaciuto moltissimo Joker. E poi un film che mi ha dato gli incubi, l’ultimo visto al cinema prima dell’isolamento: Parasite. Terrorizzante! Ma favoloso. C’è una specie di emergenza dell’Oriente, mio marito è già da dieci anni che mi dice guarda che l’Occidente è finito, adesso arriva l’Asia… E in effetti, dal punto di vista artistico, sono pazzeschi, hanno uno sguardo più raffinato e nello stesso tempo più primitivo di noi.
Ti avrei citato un altro verso che mi pare definirti molto bene: «[Siamo] come dei bambini saggi». È nella canzone Partir dans la nuit, “partire di notte”. Ma a questo punto, visto che prendi e vai a fare i tuoi giri notturni, basta anche solo il titolo.
È più ragionevole andar via di notte, no? Ho fatto ascoltare la canzone a mio marito e lui mi ha detto: la adoro, ma adesso io vado a letto. L’idea della canzone è proprio la possibilità stessa di partire, di uscire di notte. C’è gente che non ha nessuna voglia di farlo, dopo aver lavorato tutto il giorno. A me invece sembra l’essenza di momenti come la giovinezza, l’estate, la libertà. Quando hai dei bambini, non vai più via più di notte: perché non osi o perché non puoi, devi far venire una tata, una nonna, un amico. Io invece penso che queste nostre vite costruite, organizzate… che queste vite, in realtà, non ci proteggano da niente: né dalla disgrazia né dal dolore né dall’inutile né dal vuoto. E se uno non può neanche prendere e andare via di notte, allora non è giusto. Tutti hanno diritto di partire di notte. Per me è saggezza, fare cose così.