Polaris come la stella polare a cui dovremmo affidarci in questo momento «di smarrimento», ma anche come il titolo del decimo album dei Casino Royale. Che è uscito ieri e che, se si esclude la divagazione pandemica e sperimentale di Quarantine Scenario (2020), arriva a dieci anni dall’ultimo Io e la mia ombra. Un lasso di tempo in cui la musica italiana è cambiata radicalmente – nei gusti del pubblico, nei metodi di promozione, nella stessa concezione di indipendenza”– e una band come questa, che negli anni ’90 con uno ska incrociato con la dub, l’elettronica e l’hip hop è stata un’icona della nostra scena alternativa, uscendo dal recinto, ha faticato ad adattarsi. E infatti «non è che questo contesto mi invogli a fare musica», dice Alioscia Bisceglia, frontman del gruppo.
Ma nonostante ciò i Casino Royale sono ancora qui, ancora in piedi, pronti per tornare sui palchi. Insieme a lui, i soliti Geppi, Patrick Benifei e Ferdinando Masi; ma anche, per Polaris, il giovane produttore Francesco Leali (figlio di Fausto) e Giorgio Mirto, direttore dell’Orchestra Alta Felicità che ha composto e arrangiato alcuni brani dell’album. Nella sua brevità frugale, da otto canzoni di cui quattro strumentali, è infatti un lavoro denso, con beat asfissianti, pianoforti, archi, cassa dritta, suoni scuri e notturni. «Ma il motore che ci ha spinto a registrare è lo stesso delle altre volte: né più né meno, la voglia di fare di musica».
Solo che…?
Solo che stavolta è andata anche meglio, perché le scorse volte avevamo sempre un contratto, delle scadenze; qui invece ci siamo mossi in maniera libera, rispondendo a un’esigenza di raccontare e basta. In basse alla vita che facciamo – che ormai è da adulti fra due lavori e mille impegni – ce la siamo presa con calma.
Diamine, dieci anni senza un disco di inediti…
L’abbiamo registrato nei ritagli di tempo. Non che ci siano voluti dieci anni, ma insomma… Nel periodo trascorso mi sono chiesto che senso avesse fare musica in un mercato del genere. I ragazzi italiani ascoltano solo musica italiana, i generi che derivano dall’underground sono diventati mainstream, l’entertainment è cambiato e va velocissimo, legato com’è ai like e alla comunicazione piuttosto che al contenuto. Non è un contesto in cui mi senta a mio agio, anzi. Non è stato piacevole immaginare un disco per questo mondo, pensando a cosa funzionasse a livello di suoni, linguaggio, immaginario, e a cosa no. Ho avuto un po’ il rifiuto di tutto.
Hai anche pensato di smettere?
Di smettere, no. L’ego che ti fa cantare brilla sempre. Ma alcune volte mi sono domandato chi me lo facesse fare. A volte, prima di salire sul palco, mi sono chiesto cosa mi spingesse a esibirmi ancora: non ero un bravo cantante prima, neanche un bravo rapper… perché perseverare adesso? Mi dicevo: quand’è che la finisci?
E invece?
E invece appunto salire sul palco, riaprire i file, sentire l’empatia della gente che ha ancora bisogno di noi mi ha dato la scossa giusta.
Quindi, Polaris.
Il disco era pronto da almeno un anno e mezzo, comunque da prima della pandemia. È mezz’ora di musica in tutto, ma ha comunque una sua densità, un’onestà intellettuale. Non so se intercetteremo nuovi ascoltatori, ma credo che fosse lo stesso necessario per i nostri fan. Quando siamo andati in lockdown mancavano solo un paio di voci da sistemare, eppure abbiamo deciso di non pubblicare. E ci siamo dedicati a Quarantine Scenario, un progetto collettivo che è una sorta di spin-off o di teaser da un’ora e quarantacinque di Polaris.
Mi stai dicendo che Polaris è stato scritto prima della pandemia.
E infatti quando è scoppiato tutto ho pensato che un disco del genere sarebbe stato perfetto, cazzo.
Eh, infatti.
Come ti dicevo, volevo dar voce a un pensiero, fare il punto della situazione. Lo smarrimento di cui parlo nell’album e il bisgono di una stella polare arrivano da lontano, da quando è cambiata l’idea di futuro. I miei genitori sono nati nel dopoguerra, avevano certezze e per me, che ho 50 anni, si aspettavano un futuro anche migliore. Invece è andata diversamente. Però, ti ripeto, quest’ansia arriva da lontano. La pandemia ci ha solo resi più vicini nel disastro: qui a Milano, per dirti, eravamo magari un po’ inebriati dal post Expo, mentre a Roma l’oscurità si sentiva da tempo; ma la società va in questa direzione da almeno un paio di decenni.
Dici che è l’assenza di certezze del postmoderno.
Da quando il Muro è crollato, il consumismo ha preso le nostre vite e i social hanno cambiato le relazioni, il declino è evidente. Polaris non dice nulla di nuovo. Tantomeno vuole essere un disco nostalgico delle grandi ideologie. La società si evolve, è giusto così, non c’è da tornare indietro. Il problema è il nichilismo diffuso. Ma la stella polare da seguire è in ciascuno di noi: l’equilibrio e la serenità di una società dipendono dall’equilibrio e dalla serenità interiore. Se hai dei vuoti, sei stressato, senza futuro, ecco che nascono i modelli imperanti di adesso, che ci stanno portando alla deriva. Poi, oh, se finisce questo mondo non è che finisce il mondo: anche Costantinopoli è durata mille anni, ha fatto cose fighissime e poi è sparita.
È per questo, immagino, che hai definito quest’album come pre apocalittico.
Quando l’ho scritto la pandemia non era neanche nei nostri pensieri, ma sentivo aria di apocalisse. Poi figurati: se la pandemia, questa pandemia, è la nostra apocalisse… Ma magari! Io mi aspetto molto di peggio. Ora vedo un Paese convalescente, lo vedo dal bancone del bar che ho sui Navigli, il mio punto di osservazione su persone che vanno dai 25 ai 50 anni. Vedo segnali strani, anche incoraggianti però. Per esempio alcuni mi dicono di aver capito di poter vivere con meno. Come chi mi chiede di lavorare 32 ore invece che 40. Per me, che gestisco il bar, è un problema, ma in generale lo apprezzo perché controcorrente a ciò che il mercato ci chiede oggi.
A proposito di vivere di poco: anche Polaris è un disco frugale per certi aspetti, con soli otto pezzi in tutto di cui quattro strumentali.
Abbiamo fatto di necessità virtù. E poi la gente ormai ha la soglia di attenzione di un criceto, un approccio superficiale; registrare un LP costa, perché sbattersi tanto? Il concept di Polaris è carino, piacevole, immersivo… mezz’ora in tutto, ti diverti, poi ci vediamo alla prossima puntata.
Al contempo, è anche un disco molto profondo però: ci sono l’orchestra, il pianoforte, le distorsioni, la dub.
Gli unici punti fissi che avevamo in mente erano mettere dei pianoforti e degli archi e lavorare su dei beat che ti facessero muovere il culo. Abbiamo scelto come collaboratore Francesco Leali, che quando ha iniziato ad approcciarsi a Polaris non aveva neanche 30 anni. Sapeva chi fossero i Casino Royale, conosceva un nostro disco come CRX, ma veniva da un’altra generazione, non era nostro fan. Il primo pezzo che è nato è stato Fermi alla velocità della luce, poi Ho combattuto su un beat di Dj Tennis. Da lì, il resto tra cui l’apertura di Tra di noi. Che all’inizio era lunga, molto lunga, tanto che Leali ha deciso di spezzarla e crearne una versione distorta, che è la seconda canzone del disco. Invece le parti orchestrali (Contro me stesso e al mio fianco e FVDL interlude, nda) sono nate quando Giorgio Mirto ci ha invitati a un festival no tav in cui la sua orchestra suonava pezzi di altri. Ed è stato un disastro: è difficilissimo cantare su un’orchestra, ho fatto un’esibizione di merda. E pensa che prima di noi c’erano i 99 Posse con Bella ciao con la cassa in 4/4, mentre dopo Ensi che è un animale; noi sembravamo lì per caso (ride). Uscito da quella sera, però, ho preso un bel respiro e mi sono messo a lavoro.
Un produttore giovane, un’orchestra: sei uscito dalla comfort zone, insomma. Dicevamo della voglia, l’hai ritrovata anche così immagino.
Alla fine sono ancora quello che a 17 anni andava a sentire i suoi eroi fare le cover, e poi ha messo in piedi un gruppo, questo. Se non sono un musicista, non so chi cazzo sono. Penso spesso di essere scarso, di fare roba che non interessa nessuno; invece i Casino Royale sono arrivati fino a oggi.
E che rappresentano, oggi, i Casino Royale?
Per quanto riguarda il mercato, abbiamo stampato 500 copie del vinile di Polaris, che è un oggetto bellissimo e curatissimo; la missione finisce lì (ride). In generale, non ho aspettative: potrei averne? Intervista dopo intervista, mi rendo conto che un po’ ce n’era bisogno, di un lavoro così. Non abbiamo fatto un disco per nostalgici: se sei uno che ha il dna Casino Royale – io ho il dna Clash, per dire – non vivi con la nostalgia, aspetti solo che ‘sto gruppo torni e ti assomigli ancora. Nel senso: il ragazzino che amava le tutone, si è intrippato, ha occupato le case… Ora cosa cazzo è diventato?
Eh, cosa?
Siamo diventati un pelo più equilibrati. E poi – parlo per me – un cinquantenne che per certi aspetti non vuole crescere, specie per quanto riguarda le proprie passioni, la voglia di fare musica, la ricerca del piacere. Poi, sì, per certi aspetti siamo cresciuti. E i tempi di recupero dai vizi si sono dilatati (ride). Ma crescere è lo stesso una figata, acquisisci consapevolezza. Per il resto, col tempo perdi un po’ d’ansia, perlomeno per te. Mi preoccupo più per i miei figli e il loro futuro, piuttosto che per il mio. Insomma, quel momento in cui vorresti dare dritte alle generazioni nuove.
Sarebbe bello, in questo senso, se Polaris intercettasse un pubblico giovane.
Sì, ma come? Se andremo a dei festival e la gente ci vedrà dal vivo. Magari, eh. Di certo non mi metterò a fare dei feat per racimolare like tattici, endorsement e il resto.
Però il nuovo pubblico è molto meno attento alla musica alternativa rispetto a vent’anni fa.
Siamo riusciti a resuscitare Sanremo: quel Titanic che non vuole affondare è ancora fra noi. Chiaro, i suoni di oggi derivano dalla controcultura, ma non hanno velleità di fare un percorso alternativo al mainstream. Questa era e resta un’urgenza della nostra generazione, non di questa. Il mainstream ha stravinto, altroché. Anche se un po’ di roba non allineata viene fuori: l’ultimo disco di Cosmo non è commerciale anche se l’ho sentito su Radio Rai, lo stesso Ira di Iosonouncane a suo modo è un fenomeno mediatico. La cosa che mi fa un po’ male è che una volta avevamo a che fare con discografici che non conoscevano il nostro linguaggio, erano vecchi, mentre oggi i discografici sono tutti giovani, e trasformano i progetti in marketing. Che poi: un conto è il marketing, un altro la comunicazione. Noi puntiamo sulla comunicazione, Polaris avrà un progetto grafico ricercato, col contributo di fotografi e un cortometraggio che chiuderemo a breve.
E poi, dopo il cortometraggio si torna a suonare dal vivo?
A febbraio prossimo. Abbiamo già una decina di date fissate nei club. Pensa: non abbiamo trovato posto prima, figurati quanta voglia di suonare c’è. Faremo un best of dei Casino Royale che si possa contestualizzare dentro i suoni di Polaris. Ma non credo sarà un problema: la nostra stella polare brilla dentro di noi, sempre uguale, già da un disco come Dainamaita. Che è del 1993.