Con che taglio di capelli mi sto per presentare al cospetto di Caterina Caselli negli uffici della sua Sugar Music in Galleria del Corso? Cosa direbbe mia madre se vedesse che la mia frangia non è perfetta e che senz’altro avrei potuto scegliere un abito migliore per passare qualche ora con una delle sue icone di quand’era ragazza? E tutti i dischi che avevo a casa mia, tutti quei 45 giri collezionati in anni e anni, vinili che avrei potuto farle firmare, finalmente, perché non me li sono portati? Uno aspetta tutta una vita di entrare in una certa stanza e poi quando ci entra è sempre troppo spettinato con troppe cose fuori dalla porta.
Caterina Caselli – Una vita, cento vite è il documentario del regista Renato De Maria in sala in questi giorni grazie a Nexo Digital, in cui la rivoluzionaria ragazzina casco d’oro del beat italiano e la (temutissima) discografica italiana dei mille successi nazionali e nel mondo si incontrano nella parola unica, in prima persona: un lavoro sensibile, privato, accorato, sincero, uno straordinario gioco di montaggio serrato tra l’intimità, gli archivi e la storia del pop italiano, in grado di fornirci un ritratto profondo e ricchissimo di una delle figure emblematiche dell’Italia popolare in azione dal secondo dopoguerra a questi scalcinati tempi d’oggi.
Quando mi accoglie nel suo studio, seduta su una poltrona nera e adagiata come un’elegante regina e regista della scena pronta a mostrarmi i dischi d’oro, i premi suoi e dei suoi artisti, qualche foto di famiglia, dei nipoti appesa ai muri, resti meravigliosi dei tour e delle edizioni francesi di Paolo Conte e molto ancora, Caselli è bellissima, raffinata, indossa occhiali dalla montatura nera, tondi, un po’ in stile Le Corbusier e mi guarda dritta negli occhi, non perde un secondo del nostro scambio, osserva come fanno pochissimi, generalmente quelli interessati a capire il dettaglio, non perdersi nulla, sapere davvero con chi stanno avendo a che fare, foss’anche una giornalista con una frangia troppo imperfetta per loro.
La prima cosa che si scopre dal documentario è che la musica la rendeva felice fin da piccola, di una speciale felicità ipnotica, inarrestabile.
Sì, è stato così da sempre, le canzoni, la musica mi hanno sempre trasportata in un altro luogo, in un mondo altro. Le racconto una cosa: dopo che mi sono sposata fumavo tantissimo, sono arrivata a fumare 60 sigarette al giorno, all’epoca con mio marito avevamo questa casa in campagna a Montorfano e c’era questo pianoforte verticale, io non so comporre ma stavo sempre seduta a quel pianoforte, un po’ a giocare, ogni volta mi ci mettevo davanti, stavo anche sei ore così e non toccavo neanche mezza sigaretta. C’è sempre stato qualcosa nella musica capace di saltarmi addosso.
Oggi è ancora così?
Sì, ora se non ascolto musica per senso di responsabilità, perché ho dei lavori da fare, poi quando a un certo punto del giorno l’accendo finisce che mi passa il tempo, mi ci perdo, vado via con lei, seguendo lei. Con i soldi delle vendite dei miei dischi avevo comprato una Morgan del 1967 tutta nera, faticosissima da guidare, con la balestra e il bottoncino nel clacson, un’auto che tengo ancora perché per me è un simbolo e ci sono molto affezionata, e insomma, con questa Morgan io andavo e andavo chissà dove, con la musica mi perdevo, cantavo e la musica mi portava via.
Questa sorta di stato di trance nell’ascolto l’ha aiutata anche nel suo lavoro di produttrice e discografica?
Da sempre, ascoltando qualcosa che mi piaceva, io mi ritrovavo a pensare per chi fosse perfetta quella data canzone, quel dato pezzo, e credo che questo mi abbia aiutato nella mia seconda vita e nella mia attività. Il piacere di immaginare nell’ascolto la condivisione di quel suono tramite una voce, un’interpretazione è stato sempre fondamentale, in fondo anche quando si compravano i dischi e non c’era altro modo di ascoltare, si voleva correre a condividerli con gli amici: senza condivisione la gioia è claudicante.
Ma c’è stata una malinconia in questo cambio di rotta, nel lasciare il palco e passare dall’altra parte? Penso al tipo di malinconia che può provare lo sportivo, il tennista che dopo aver giocato ad alti livelli sente il suono bellissimo della pallina che incontra la racchetta e ogni volta prova quel dolorino…
Certo era liberatorio ed esaltante essere sul palcoscenico, ma il successo di una persona per cui hai lavorato, progettato, con cui hai scelto, è una soddisfazione. Ho sostituito con questo amore il mio amore per il palcoscenico. Quando c’è stato il terremoto in Emilia, Beppe Carletti, tastierista dei Nomadi, mi ha invitata a cantare a una serata allo stadio, io non cantavo da decenni, ma ho detto sì subito, vista la causa, poi però non mi sentivo allenata, chiamai Guccini nel panico e lui mi disse «beviti un bicchiere di vino!», ma non è che poi fosse sufficiente. Sono stata felice di andare, ma come cantante mi sono data voto zero, era una festa per la mia gente severamente colpita, e io amo quando la musica si dà con generosità, alla fine se hai un dono e non lo condividi per qualche ragione con altre persone il tuo dono è come dimezzato.
E quando ha pensato per la prima volta di avere questo dono, cioè di avere talento?
Dunque, vede, quando dalla campagna modenese mi sono traferita a Roma, e andavo, come racconto nel documentario, a esibirmi al Capriccio, la gente non ballava mentre quando c’era Pippo Caruso con la sua orchesta ballavano eccome, dunque io pensavo di aver sbagliato tutto, avevo pensato di fare ritorno a casa, avevo pure un pretendente fidanzato che mi aspettava, invece una volta arrivano dei ragazzi e mi dicono che sono brava. Sono stati gli altri a farmi capire che qualcosa c’era ed è stato grazie a chi me lo ha detto che io mi sono costruita un’identità; gli altri sono stati fondamentali per me, mi hanno fortificata, grazie a loro ho capito che avevo talento, ma certo non sapevo se avrei avuto successo. Il successo è arrivato dopo, con Sanremo, lì è successo qualcosa, un passo oltre.
Le ha fatto paura?
Beh, mi ricordo ancora la prima serata dopo il festival, alle Rotonde di Garlasco, c’erano questi fiumi di automobili parcheggiate ai lati della strada, io ero straniata, non avevo realizzato, allora non c’erano i social, di certe cose era difficile rendersi conto. Appena io e la band siamo scesi dalle macchine c’era il proprietario del locale fuori che ci aspettava, e io mi dicevo: ma perché? Perché mi aspettano? Eravamo stati lì varie volte, ma nessuono ci aveva aspettati mai. Quella sera ho capito che anche io avevo la faccia di quelli che hanno successo.
E com’è la faccia di quelli che hanno successo?
Non lo sapevo mica prima, forse non lo so bene nemmeno oggi, ma io dicevo da ragazzina che quelli che hanno successo hanno una faccia particolare, all’epoca ero molto matura perché la vita coi suoi eventi mi aveva portata a diventare più adulta presto, ma c’era anche un’ingenuità, me ne accorgevo, un’ingenuità che ha avuto più tempo per crescere e che magari mi faceva dire cose come questa.
La sua faccia da successo era ovunque, ma lei non era una diva, era rassicurante, piaceva ai ragazzi ma anche ai genitori, incarnava l’energia giovanile senza indispettire gli adulti.
Sì, perché avevo una vivacità, ma non ero scomoda, non mi ponevo in modo da suscitare antipatia, le donne e le mamme non mi consideravano una rivale, semmai una sorella un po’ bizzarra, simpatica, una ragazza divertente, molte ragazze si pettinavano come me mentre io mi ispiravo a quel che succedeva a Londra, ero completamente soggiogata dalla cultura anglosassone e americana, mi piacevano i Beatles, gli Stones e Dylan, anche se il mio idolo era Ray Charles.
Ha sempre amato la black music.
Sì, molto, mi piace quel modo di sentire ed esprimere la musica in modo viscerale, sofferente, il rapporto senza filtri con la parte emozionale, un’espressione molto diretta e poi amo il modo in cui dividono, arrivano sempre un po’ prima o un po’ dopo, c’è questo movimento affascinante, un’onda che a me fa impazzire.
Come cantante ha cercato ispirazione in quel mondo?
Al Cantagiro 1965 cantavo Sono qui con voi adattamento del pezzo dei Them e un innominabile non molto amato giornalista nel pubblico mi chiese, testualmente: «Tu c’hai qualche negro in famiglia?». Io risposi: «Magari!». Mi appassionava Otis Redding.
Cos’è la passione?
La passione è una musica meravigliosa, è la mia compagna di vita.
Chiedo alla Caselli cantante e alla Caselli discografica: come si tengono insieme passione e talento, tormento e senso del progetto, della costruzione?
Nell’incredibile fim di Giuseppe Tornatore che quando uscirà la invito subito a vedere perché lo amerà, Ennio Morricone parla del tormento dell’autore nel trovarsi davanti allo spartito da riempire, quando lo vede bianco e non sa proprio ancora cosa scriverci dentro. Nell’arte ci sono continui duelli cui l’artista prende parte tra sé e sé, non c’è niente mai che non abbia un rovescio della medaglia, tutto sta sempre in ciò che si desidera, in ciò che si vuole fare e in ciò che non si vuole davvero: ciò che vogliamo fare anche se ci costa lo facciamo lo stesso perché lo vogliamo veramente e perché sappiamo proprio quella cosa che canto in quella mia canzone, cioè che si muore un po’ per poter vivere. Tutta la vita è così, essere disposti a perdere anche qualcosa per qualcos’altro che vogliamo davvero.
Ecco, mi ci ha portata lei: Insieme a te non ci sto più è una canzone perfetta nella scelta dei termini analitici, chirurgici, a partire da quell’incipit subito in medias res e con quell’ambivalenza nel testo che è solo dei grandi pezzi: da un lato c’è quel pacifico “devi sorridermi se puoi”, ma dall’altro c’è la rabbia di chi sta chiudendo senza aver avuto quel che voleva, ‘”o cerco boschi per me e vallate col sole più caldo di te”. Nel documentario, dice che è ancora la sua canzone preferita tra quelle che ha cantato, ne parla con l’autore, Paolo Conte, e lui usa un termine, un’espressione tutta contiana, le dice, riferendosi al brano, “ne sei ancora invaghita”: cosa la invaghisce ancora?
Strutturalmente è una canzone così lontana dai canoni eppure lui è un genio, è sempre stato considerato, e a ragione, un grande autore e un grande musicista, ma lui è un poeta ed è un artista a livello mondiale, in Francia lo vanno a vedere live anche i giovanissimi, è una cosa incredibile, quando cantava canzoni non comiche la gente rideva poi c’era quel fatto di Villotti che suonava con lui, Villotti alla chitarra… si ricorda?
Sì, erano un po’ una cosa alla Walt Disney.
Esattamente! Ecco, il mio invaghimento è tutto per Paolo Conte, lui che è anche quello che scrive “dammi un sandwich e un po’ di indecenza”… ma come si fa? È di una bravura assoluta.
Una delle cose più interessanti del documentario è la capacità di mettere in accordo il suo essere stata una giovane artista, col suo occuparsi di giovani artisti con la dedizione che forse le è stata dedicata, come se all’interno dell’azienda che l’ha accolta lei ora continuasse con altri il lavoro che qualcuno ha iniziato con lei.
È che io amo i giovani da sempre, mi piace il coraggio e mi piace l’incoscienza, da queste qualità nascono le cose nuove, l’espressione dei sogni e la loro realizzazione, anche l’errore, sia chiaro, perché anche quello ci vuole. Io, da cantante prima e in discografia poi, ho fatto le mie battaglie, le mie sfide, ho avuto i miei momenti di coraggio e le mie débâcle, non sempre le cose sono andate come speravo andassero, però tutte le volte tutti i drammi sembravano problemi insormontabili e poi col tempo si sono ridimensionati e appunto trasformati in inciampi, riuscire a vedere questa trasformazione è una delle cose importanti della vita. Noi negli anni ’60 sbagliavamo dicevamo «ok non è andata bene, facciamo un’altra cosa», questo dà grande impulso artistico perché avere il timore di sbagliare ti fa trattenere invece bisogna essere liberi e non offendersi se qualcuno ti fa presente che qualcosa non funziona e a quel punto provare un’altra via: quello è un atteggiamento virtuoso, secondo me, da adottare, trasformare la sensazione del dolore e di fallimento in una cosa più piccola, relativizzare.
Parlando di dolore, c’è nel documentario un altro raccordo, più intimo, che lei fa, ed è quello legato all’esperienza del suicidio, in cui lei parla in due momenti ravvicinati di Luigi Tenco e di suo padre.
Pensi che non riuscivo neppure a usare la parola suicidio, anche quando è morto Tenco ho sempre celato a tutti questo momento tragico della mia vita privata, all’epoca la società era giudicante e spietata, la depressione non era riconosciuta come malattia, la gente diceva «beh, quello è matto» e se era matto lui la conseguenza è che lo sarebbero state anche le sue figlie, dunque mia mamma per proteggerci non voleva che si dicesse in giro di come era morto. All’epoca non facevano nemmeno i funerali ai suicidi, a mio padre lo fecero e io non andai, non riuscii a vederlo, da lì ho poi fatto grande fatica ad andare ai funerali di altre persone, quell’immagine di mio padre che non ho visto me la sono sempre tenuta dentro, un dolore non elaborato, mantenuto integro come coperto da un ghiaccio. Grazie a Renato De Maria e alla fiducia che mi ha immediatamente ispirato, ne ho parlato per la prima volta, quando abbiamo fatto il primo incontro per il documentario lui mi ha dato come riferimento il film su Dylan fatto da Martin Scorsese, quello lungo quattro ore, io l’ho visto ma al di là di questo ho capito subito che c’era un’affinità tra noi. A quel punto mia mamma non c’era più così ho chiesto a mia sorella Liliana se potessi parlarne pubblicamente e lei mi ha detto «certo, è tutto cambiato adesso». Così ho aperto la cicatrice ed è uscito il mio dolore. Ora voglio dire che mio padre mi è stato d’aiuto, perché lui credeva in me, nei momenti in cui pensavo di non farcela anche nel lavoro il pensiero di lui mi dava la speranza.
Ha cantato a un uomo che non poteva giudicarla (nemmeno lui!), poi, appunto, Insieme a te non ci sto più, cose forti nella voce di una donna: alla fine il suo ’68 è stato un ’68 emotivo. Che rapporto ha con il femminismo? Si ritiene una femminista?
Il movimento femminista ha segnato momenti fondamentali, non sono un’estremista per carattere ma penso che una donna possa fare tutto quello che fa un uomo e che la mente della donna possa tutto. Questa cosa dei diversi trattamenti economici e sociali è un’assurdità, qui a Sugar la donna è centrale e molto rispettata, credo alla pretesa del giusto, la provocazione in sé e per sé non mi interessa, è controproducente, questo ho imparato, ma la donna deve avere il rispetto che merita, e penso che sia assurdo, vergognoso che ci si trovi ancora in situazioni in cui gli uomini si comportano in modo aberrante, uomini che non sanno essere lasciati e uccidono, una follia, bisognerebbe ricordare a questi tizi che l’amore non è un diritto tout court.
Qualche giorno fa è morta Lina Wertmüller, ho letto in una sua intervista una cosa che mi ha commossa e che ho pensato subito di riportarle. La regista a un certo punto diceva che «amare è essere impegnati, è lavorare, avere interessi, creare». Cos’è per lei l’amore? Cosa vuol dire amare?
L’amore è un fatto misterioso che accade tra due persone, e dico persone non a caso, dico due esseri umani non importa il sesso, è qualcosa di vitale dove nessuno deve stare al comando di nessuno. Sono molto d’accordo e mi associo a quanto ha detto questa regista che abbiamo perso con grande dispiacere, creare è amare. Io credo di avere una sorta di creatività aggiuntiva, il progetto su qualcuno e per qualcuno, su un artista per esempio, è anch’esso una grande forma di amore e creatività.