«Dove sono gli uffici di Rolling Stone? Qualche anno fa ho dormito per sei mesi a casa di Manuel Agnelli, vicino a Porta Genova. È una zona di Milano fantastica». Intervistare Greg Dulli, fondatore e anima degli Afghan Whigs, è come fare una chiacchierata con un vecchio amico – anche se prima di oggi non avevo mai parlato con lui; e anzi, prima di raggiungerlo al telefono nella sua casa di Los Angeles, provavo un certo timore reverenziale. In fondo è un tizio che mi appare ammantato di coolness e mistero fin da quando andavo al liceo. E come ogni fan degli Afterhours, ho visto Dulli sul palco insieme alla band più di una volta, nel corso degli anni. Una vecchia conoscenza, insomma.
In Spades, in uscita il 5 maggio è l’ottavo album della band fondata nel 1986 dal cantante e chitarrista nato in Ohio e dal bassista John Curley. E il secondo da quando la band è tornata nel 2014 con l’ottimo Do to the Beast, dopo una pausa durata una decina di anni – in mezzo ci sono stati i progetti paralleli di Dulli: The Twilight Singers e The Gutter Twins, quest’ultimo insieme all’amico Mark Lanegan.
Il suono di In Spades è l’evoluzione di questa seconda vita della band: meno ruvido, forse, ma di sicuro più libero di abbracciare e sintetizzare le proprie contraddizioni. «Mi piace pensare di aggiungere sempre nuove ispirazioni a ogni disco», dice Dulli, «In Spades è il mio sedicesimo in totale, e se parti dal primo e arrivi a questo c’è un discreto progresso, te l’assicuro! Ascolto un sacco di musica diversa, mi interessa provare diversi metodi di produzione. Non ho paura di sperimentare! Mai avuta. Ci sono canzoni come Birdland in ogni disco che ho fatto nella mia vita». E a proposito di influenze da diversi generi, di recente Dulli ha twittato a proposito del nuovo disco di Kendrick Lamar, DAMN.: «È il suo disco migliore», mi spiega, «è fenomenale».
Ascoltando In Spades (così come, in tempi recenti, Last Place dei Grandaddy) viene da chiedersi: com’è che certe band si sciolgono, e poi ritornano alla grande come se nulla fosse? Non potevano resistere e restare insieme? E perché altre, gloriose, si rimettono insieme ma non funzionano molto, come la classica minestra riscaldata? (Tipo i Soundgarden, solo per citare altri eroi di gioventù…). «Non ho intenzione di parlare male di altre band…» risponde Dulli, insolitamente diplomatico, «però ti posso dire quali sono le reunion recenti che mi sono piaciute: i Dinosaur Jr., che hanno fatto un buon disco; ma soprattutto i Feelies, che hanno fatto un disco fantastico, In Between. Dentro c’è una canzone, Gone, Gone, Gone, che mi piace così tanto che voglio farne una cover».
Parlando di grandi cose del passato che ritornano, mi viene in mente di chiedere a Dulli cosa si aspetta dalla terza stagione di Twin Peaks (in onda dal 21 maggio)? «Sono curioso!» risponde, chiaramente contento di parlare anche di cinema e tv. «Ma cauto. Guarderò le prime puntate, e se mi piace vado avanti. Se mi rende triste smetto subito». Una politica condivisibile, visto che nessuno sa come saranno i nuovi incubi lynchiani. «Invece sto guardando la terza stagione di Fargo» continua, «è fantastica. E poi non vedo l’ora di vedere American Gods». Ne approfitto per bullarmi con Dulli: ho da poco intervistato Ian McShane, proprio per la serie tratta dal romanzo di Neil Gaiman. «Figata», risponde interessato, «ma gli hai fatto una domanda su Sexy Beast?». A dire il vero, no. «Il suo personaggio in Sexy Beast è uno dei più fuori di testa che ho mai visto in un film» spiega. «Si lascia inculare da un tizio solo per accedere alla banca che deve rapinare! (Ride). Cioè, wow! È la prima cosa che avrei chiesto a McShane!».
In passato Dulli ha spesso esplorato nei suoi testi, senza paura di esporsi o sconfinare nel politicamente scorretto, il tema di una mascolinità tossica, incapace di uscire dagli stereotipi ricevuti dall’educazione o dalla cultura mainstream. I tempi nel frattempo non sembrano molto migliorati, visto che adesso abbiamo un certo Donald Trump seduto sulla poltrona più grossa che ci sia: «Noi abbiamo, purtroppo. Voi no!», scherza Dulli. Certo, ma in Italia ne abbiamo avuto uno in miniatura, qualche anno fa. Lo stile era lo stesso. «Vuoi dire Berlusconi? Ok, ma è qualcosa che è sempre esistito. È quello che governa il mondo, purtroppo: i maschi tossici!».
Mi sono tenuto la domanda difficile per ultima: esiste ancora il cosiddetto “rock alternativo”, oggi? «No. Ma a dire il vero, ogni volta che nella mia vita ho sentito l’espressione “rock alternativo”, mi sono sempre chiesto: alternativo a cosa? Onestamente, man, per me esiste solo il rock’n’roll. E se lo sai fare, lo sai fare. Se non lo sai fare, non lo sai fare. È molto semplice».
E chissà se il prossimo 3 giugno, unica data italiana degli Afghan Whigs presso Zona Roveri a Bologna, Manuel Agnelli non ci farà una sorpresa.