«Qualche giorno dopo l’uscita di Figlio di un re ero a fare la spesa alla Coop di piazza Cavour, e c’era un ragazzo, uno di quegli hipster con la barba lunga, che mi fissava. A un certo punto mi fa: “Sai una cosa? Mi sono accorto che sei bravo”. Era il 2009 e, per la prima volta, ho pensato: “Forse c’è una via di uscita”».
Cesare spalanca un sorriso e preme con decisione lo spazio sulla tastiera. La traccia corre su Pro Tools, mentre lo sguardo di entrambi cade sul finestrone alle spalle del mixer: nevica senza ritegno. Bologna è la prima città imbiancata d’Italia e sarebbe tutto davvero magico, non fosse che via Zanardi è completamente bloccata. Eppure per il taxista pare non ci fossero soluzioni migliori per arrivare a Casalecchio. Qui, a pochi passi da quell’Unipol Arena che nel 2015 consacrava il trionfo del Più che Logico Tour con un doppio live da 24mila persone, Cremonini ha creato la sua «factory», il Mille Galassie studio, un luogo in cui produrre musica «in maniera artigianale e naïf, protetto da ciò che accade fuori». Dentro questo edificio di due piani, con le istantanee della sua carriera alle pareti e Bowie e My Generation in diffusione, si è barricato negli ultimi due anni. Per riemergere solo quando il suo sesto album solista, terzo con Universal, è terminato. «L’altro giorno sono tornato in palestra e la segretaria, che ricordavo ragazzina, era diventata una donna. Ho pensato: “Quanto tempo è passato? Quanti anni ho adesso?”». Si è giocato tante, troppe energie per questo disco, «e non ho 20 anni: non lo rifarò mai più».
Ora che Possibili Scenari, registrato tra queste quattro mura come i precedenti tre dischi e mixato tra Londra e New York, è a disposizione del pubblico, lui prova «un senso di vuoto, di lutto creativo. Ma è il momento in cui ritorno padrone della mia vita, il successo è come una trasfusione di sangue pulito. Una carriera è fatta di continue rinascite, ma per accettarlo devi credere in te».
Una dopo l’altra riecheggiano nelle nostre orecchie le dieci canzoni che compongono l’album. Seduto alle nostre spalle Walter Mameli, il manager e produttore al suo fianco sin dai tempi dei Lùnapop, «la persona più importante della mia vita artistica», sembra pensare ad altro. «Questa dovresti conoscerla», dice Cremonini, mentre l’intro sontuosa e vagamente retrò di Poetica riempie la stanza. «Non è un brano che ti viene a cercare, non ti lecca il culo». In radio è andata alla grande, ma la scelta del primo singolo è stata tutt’altro che indolore. «Questo disco mi ha menato forte. Sin da subito Poetica mi ha dato una sensazione di piacere, ma poi è salita l’ansia. Capivo che era costruita per aprire il cuore, e non per avere successo». Era un pezzo «fallibile», e Cesare, che ha da sempre un rapporto tormentato col sonno, si ritrovava a girare in auto da solo la notte, in preda ai pensieri. «Poi ho deciso. Non volevo un podio assicurato: dopo tanti sacrifici meritavo di salire sul trampolino più alto. Se non sei un uomo nei confronti del tuo mestiere, sarà sempre e solo una rincorsa al successo. E a me non basta».
Ho perso il successo e l’ho ritrovato: amo la debolezza, è il sentimento più sensuale. Anche se la nostra società la rifiuta
Ambizioni, ansie e ossessione per il proprio lavoro lo hanno portato a immedesimarsi in Brian Wilson, leggendario leader dei Beach Boys, che negli anni ’60 uscì devastato dall’inseguimento della chimera del disco perfetto. «Avevo da poco finito il tour e volevo prendermi una vacanza con la mia fidanzata dell’epoca. Che mi possa perdonare – no, non lo farà mai –, ma la visione della sua biografia Love & Mercy mi aveva smosso qualcosa». Pochi giorni dopo era di nuovo in studio. I cori in stile Beach Boys affiorano qua e là nell’album, un mix di ballate e grandi melodie, fino alla disco music. Dentro convivono Henry Mancini e i Beatles, «la spontaneità e l’istintività» degli australiani Avalanches, l’octatrack, «che mi fa sentire uno dei Moderat», e il theremin, «un rimando ai film degli anni ’70». «Possibili scenari è un prodotto orgogliosamente suonato, libero e un po’ fuori dal tempo».
Ma il primo bagaglio che Cesare porta con sé è una carriera ventennale, unica e irripetibile nel panorama italiano per un artista della sua età. «Secondo Faber un musicista ha bisogno di credibilità e di una storia di canzoni. Gli anni che passano sono una parete piena di strumenti, da cui attingere per i propri esperimenti. È un po’ come quando giocavamo a Super Mario: ogni disco ti permette di passare allo schema successivo». Guardarsi indietro, per andare avanti: così si spiega il gioco di richiami che Cesare innesca di continuo. Se GreyGoose, secondo singolo tratto da Logico, era «una 50 Special adulta», ora c’è Nessuno vuole essere Robin, una Marmellata#25 contemporanea, con tanto di metafora calcistica.
«È il pezzo più attuale, uno dei pochi in cui il protagonista sono io», dice, abbandonando lo studio, sotto lo sguardo severo di Walter, per accendersi la prima Marlboro. «Finita la partita, il vincitore si ubriaca, scopa in giro, e finisce lì. Chi perde, invece, passa la settimana a macerarsi. Io ho provato il successo, l’ho perso e l’ho ritrovato: amo la figura del perdente. Solo che oggi nessuno può ammettere di non farcela, siamo tutti dei piccoli Robin travestiti da Batman».
La musica gli ha donato fama e successo, «e il macellaio sotto casa ti dà la carne migliore», ma non può fare a meno di raccontare le fragilità umane. «Le cerco come virtù negli altri, per giustificare le mie: per me sono la porta per entrare nei rapporti». Perché la debolezza per Cremonini «è il sentimento più sensuale. Le donne la stanano negli uomini e se ne innamorano; poi, spesso, la usano contro di te. Ma questo è un altro discorso». Le ragazze sono al centro di tutto il suo repertorio, e Possibili scenari non è da meno. «Ma non di Poetica, a differenza di quello che molti pensano. Non solo il tipo di persona che dice a una ragazza “sei la mia vita”. Alla fine io nel letto mi giro dall’altra parte, dove ci sono il comodino con i libri e l’abat-jour, per poter stare un po’ solo con la mia esistenza». A proposito, la fidanzata? «Non c’è più, dai parliamo d’altro».
Ora siamo seduti su un divanetto, e una nuova sigaretta fa da antipasto a un panino col tonno. «Le canzoni non sono dei selfie, non sono vittime del presente. Si insinuano dentro di te e esplodono di colpo, dopo anni di gestazione. Io potrei scrivere un pezzo su una ragazza che ho visto per due minuti in tele, se mi illudesse di avere un mondo interiore. È bello pensare che le donne mi immaginino sempre intento a struggermi per qualcuna, e vorrebbero essere loro. Ma magari quella persona ora sta con un altro, è morta oppure convive con il cane». Ride di gusto il latin lover emiliano, che ora pare determinato a spiazzare una buona fetta del suo pubblico. «Ma dai, il music business funziona così sin dai tempi di Elvis. L’amore è uno straordinario strumento retorico, e le donne sono una parte fondamentale di questo mestiere».
La neve cade senza sosta, e senza un motivo apparente. Lucio, «un ex musicista della New Wave bolognese, che ora si prende cura dello studio», imbraccia la pala e va in cortile. Noi continuiamo a parlare del processo con cui confeziona i suoi testi. Perché se è vero che, come sosteneva Mogol, non esiste un talento nello scrivere canzoni, è utile per lo meno darsi delle regole. «Io ne ho solo una», dice. «Scrivere ogni giorno, in ogni momento. L’idea di canzone è la mia compagna sempre. L’ispirazione non riceve su appuntamento, e quando passa devi farti trovare davanti a un pianoforte. A me aiuta il dialogo con le altre persone, perché sono uno ossessivo e rischio di andare a sbattere. Per questo, da Logico, scrivo con Davide Petrella, che avevo conosciuto ai tempi di Myspace. Oltre a lui c’è Alessandro Magnanini per la ricerca musicale». Tutto qua? «No, c’è un’altra accortezza: non usare mai la parola carciofo». In realtà in passato Cesare ha fatto di peggio, e in rete fioriscono forum in cui si va a caccia dei termini più assurdi utilizzati nei suoi brani. «In Possibili scenari dico “si evince”, in Logico “fibre nervose”: dubito esistano precedenti».
La speranza che riesce a infondere in chi lo ascolta, non sempre coinvolge anche lui. «Nel mio lavoro la felicità dura circa una settimana. Sono i momenti in cui il tuo vagabondare ti porta a incontrare un’emozione che funziona, di cui ti innamori, e così inizia il processo creativo. È come guidare un grande aereo, che all’improvviso si alza e ti porta in cielo. L’abilità sta nel tornare a terra sano e salvo, con una canzone in tasca. È una sensazione di eternità che dura poco, ma ne vale la pena». La sua passione per quello che fa è straripante, quasi pericolosa. «Cerco di stare attento a rimanere un essere umano. La mia musica negli anni è cambiata perché sono cambiato io, non viceversa». Nel disco c’è una canzone, Al tuo matrimonio, che, scherzosamente, parla di chi vede gli altri andare all’altare al posto suo, mentre il tempo passa. «Oggi è la musica che custodisce la mia vita. Il senso di responsabilità nei suoi confronti è alto, perché il mio staff e il pubblico credono in me. Nella vita, complice il mio status, non ho ancora trovato una persona che si fidi ciecamente. Sarebbe bello costruire questo rapporto anche con una donna, ma bisogna essere in due».
La musica ha la priorità perché «mi ha scelto a sei anni, quando mia mamma mi ha imposto di suonare il piano». A 11 capì che voleva fare il cantante, perché al bar in cui faceva colazione durante le fughe da scuola mandavano in loop Live at Wembley ’86 dei Queen. Mentre lo dice mostra il celebre tatuaggio di Freddy Mercury sull’avambraccio, di cui gli chiedono a ogni intervista. Il tour che il prossimo giugno, per la prima volta, lo porterà negli stadi è l’ennesimo traguardo raggiunto. Dopo San Siro e l’Olimpico toccherà al Dall’Ara, dove un bolognese non si esibiva da 39 anni, dai tempi di Dalla e Banana Republic. «Sono di corsa da vent’anni. Quando salirò sul palco non cercherò il riscatto, ma mi godrò la certezza che per altri dieci anni potrò fare la musica che mi piace. Liberamente».
A questo punto della chiacchierata Cesare è pronto a riavvolgere il nastro, e a raccontare una storia che non tutti conoscono in questi termini. Quella del ragazzino che tra i 15 e i 16 anni scriveva Vorrei – «un brano dolce e ingenuo, che per me vale quanto Poetica, perché non esistono figli minori» – e 50 Special – «vi sfido, al liceo, a comporre un pezzo così». Con un milione e mezzo di copie …Squèrez?, l’unico disco nella storia dei Lùnapop, diventava l’album più venduto di una band italiana. E tale rimarrà, «visto che la fruizione musicale è irrimediabilmente cambiata». Poi le polemiche per lo scioglimento del gruppo e la nuova carriera solista, grazie a un contratto decennale con la Warner che gli garantiva un’autonomia lavorativa unica. «Quella è diventata la mia prigione dorata. Il successo ha portato con sé un prezzo alto, io lo chiamo trauma da stress post-Lùnapop. Per anni ho raccolto meno di quello che ho seminato: ero schiavo di un pregiudizio, non potevo confrontarmi con il valore della mia musica». Nell’estate del 2008 ha fatto 50 concerti gratuiti nelle piazze. «Una volta, non ricordo se a Africo o a Rende, mi cambiai dal barbiere del paese. Ma per me era come stare al Madison Square Garden».
Ho sofferto il trauma post-Lunapop, quella è stata la mia prigione dorata. Per anni ho raccolto meno di quanto ho seminato
Tira fuori il telefono dalla tasca, e cerca un articolo. «Di recente a Cambridge hanno scoperto che nel cervello c’è un cassetto segreto in cui confinare i brutti ricordi; a me non devono averlo montato». A 22 anni Cesare pubblicava Bagùs e a 25 Maggese, ma «le stesse canzoni per cui ora mi osannano, allora erano solo i tentativi di uno che voleva liberarsi di un’etichetta». I suoi discografici dell’epoca ascoltavano i nuovi lavori, e scuotevano la testa. «Ma io ho fatto ciò che sentivo, ho sempre avuto un approccio cantautorale. Quelli sono stati gli anni più importanti, e sono grato anche a chi non ha capito che non sono un artista telecomandato».
Fuori ha iniziato a cadere la pioggia, che si mangia via la neve, fuori stagione per i nuovi canoni. Il registratore è acceso da tre ore. «Ho un’ambizione: non vorrei solo piacere ai miei sostenitori, ma non disturbare gli altri. Amo quando i signori della raccolta rifiuti mi dicono “ciao Cesarone”: suscitare confidenza è sempre positivo». Oggi il suo pubblico va «dalla ragazzina innamorata, a chi ascolta Ozzy», fino al seguace della scena indie, «che dal Primo bacio sulla Luna ha iniziato a perdonarmi il peccato originale dei Lùnapop».
«Quando la gente non veniva a sentire i miei concerti, io andavo a quelli degli altri. Invidiavo Vasco, i Muse e i Coldplay, perché avevano fan preparati e affamati di musica. Ora anche i miei sono così: è il miglior pubblico possibile».
Non è sempre immediato comprendere dove Cesare ti voglia portare con le figure che tratteggia, gesticolando ampiamente. «La cultura musicale di un Paese, ma anche quella letteraria, o culinaria, si muove di continuo. Era come se io fossi finito fuori dalla cornice, che poi, dopo Mondo e Logico, è tornata a inglobarmi. È anche una questione generazionale: chi era più piccolo di me ai tempi dei Lùnapop, e quindi non mi odiava per via dei capelli rossi o perché piacevo alla sua ragazza, ora ha trent’anni, e vede in me un fratello maggiore, uno che parla la sua lingua, e che, se lo invita a bere una Grey Goose, poi non tirerà il pacco».
Eppure, proprio ora che i satelliti si sono allineati, è il momento di rilanciare. «Vorrei che Possibili scenari sia un disco influente, che dia coraggio alla discografia. Penso alla via Emilia, che unisce la mia regione e dà vita a una storia unica da Piacenza a Rimini. Vorrei essere una delle perle di un Paese che produce ancora buona musica».
Ora l’accento bolognese, che nel disco è quasi sparito, «perché oggi ho più controllo, sono un uomo canta a occhi aperti, non sono più il ragazzo che cantava a occhi chiusi», affiora sempre più spesso nella conversazione. E dalla sua bocca spunta una parola che mai penseresti di sentire da un gigante della musica mainstream: scena. «È ciò che è mancato al pop, e che invece ha fatto grande l’hip hop, che gode di una platea appassionata, che si scambia informazioni e sostiene l’intero sistema. Bisogna ricreare fiducia verso la musica, dare vita a un collante tra i progetti e non più solo a sterili collaborazioni per vendere due copie in più». Oggi «80 delle prime 100 canzoni su Spotify sono identiche, non si sa chi canti».
Qualche tempo fa su Rolling Stone Linus sosteneva che i giovani italiani più importanti sono ancora Tiziano Ferro e Cremonini, solo che hanno quasi 40 anni. «Il drammatico tempo dei talent ha prodotto solo interpreti. Il successo dell’indie mi pare più un fallo di reazione, che un gol in rovesciata. Io spero che i ragazzi capaci di emergere non si facciano infettare dal meccanismo, cercando il posto fisso come infermieri della discografia. Ma temo che avverrà proprio questo».
A chi invidia il suo percorso, risponde «accomodati». «Non sanno quanto ho sofferto. Ma non serve essere Cesare dei Lùnapop e aver subito le angherie di mezza Italia per fare belle canzoni». Nella musica è fondamentale saper distinguere «i cercatori d’oro, da chi invece insegue solo il successo». Perciò continua a stimare Lorenzo, Giuliano, Tiziano e Zucchero. «Ma anche Caparezza, Brunori, Fibra e Salmo. Apprezzo chi cerca un suo linguaggio: non importa se sbagli un congiuntivo o dici qualcosa di superficiale. Le canzoni sono sostanze betabloccanti, le nostre vitamine quotidiane». I suoi punti di riferimento sono sempre Battisti e Dalla. «Lui è il nostro orgoglio. Io amo una Bologna immaginata, cristallizzata agli anni ’80 e ’90, alla mia giovinezza. Lotto per difendere quell’idea di città, perché è nell’illusione delle cose care che costruiamo un mondo migliore». «Un giorno», dice convinto, «torneremo ad ascoltare bella musica e mangiare cose buone, a vivere meglio i rapporti. Il futuro è nelle nostre mani, e chi ha vent’anni oggi non è male come ci raccontano. Non mi nutro di antipolitica né sono disilluso, perché non mi sono mai illuso. O fatto ipnotizzare dalle ideologie».
È il momento di andare: neve e pioggia non sono amiche di chi ha un treno da prendere. Cesare non appare preoccupato, anche se in serata deve passare da suo padre, che ha 93 anni. «Sta bene, ci vediamo spesso. È circondato dall’amore della famiglia e dei pazienti di una vita, che vanno a salutare il vecchio medico come un re buono. Ogni volta che mi saluta dice la stessa cosa: “Bravo, come me hai seminato bene”».