Charli XCX, anatomia di una popstar tridimensionale
Le popstar dicono un sacco di balle che le fanno sembrare molto glamorous. Charli è qui per dire la verità. Nel nuovo album ‘Brat’ racconta l’insicurezza, la competitività, l’ambizione, l’orgoglio e l’intelligenza che stanno dietro all’ascesa di una celebrità nell’era di Internet. Poteva diventare una Dua Lipa, ha scelto di essere supercool
Foto: Tyrell Hampton per Rolling Stone UK. Top, bodysuit e jeans di KNWLS, tanga di Charli
Charli XCX ha iniziato a pensare alla maternità mentre lavorava a un album di musica club. In fondo è sempre stata una a cui piacciono gli estremi, una donna che vive la sua vita da protagonista, in bilico tra emotività e creatività. In questo caso, però, il pensiero non è nato da un semplice desiderio di novità: ora Charlie ha 31 anni e ha una relazione felice con George Daniel dei 1975.
Ha immaginato per la prima volta di vivere in modo diverso, di non essere cioè al centro del mondo, quando è andata a Stoccolma a trovare la sua collaboratrice Noonie Bao, la prima tra le sue amiche più strette ad aver avuto un figlio. «È stato pazzesco vederla da una prospettiva di vita completamente diversa», racconta Charli. «Senza che mi dicesse nulla ho capito subito che la sua ragione di vita era cambiata, era diversa dalla mia e questo era un dato di fatto». Da come lo dice, sembra quasi che Bao abbia compreso una verità misteriosa e accessibile solo attraverso la maternità. Non sappiamo se Charli conoscerà mai quel segreto, potrebbe anche decidere di non conformarsi a secoli di indottrinamento. Se mai dovesse diventare madre, sarà felice o rimpiangerà la libertà che aveva un tempo?
Sono molte le domande che le girano per la testa: «Sono meno donna se non ho un figlio? Se non lo dovessi avere, non avrò uno scopo di vita? So che non dovremmo dirlo, ma è una questione di condizionamento biologico e sociale. C’è parecchia pressione sulle donne affinché non parlino apertamente di queste cose, soprattutto nel pop o nella musica in generale; dovremmo essere sexy e libere, divertenti e selvagge». Che è una buona descrizione delle qualità del nuovo album di Charli Brat. Nel penultimo brano I Think About It All racconta in un soliloquio sensazioni e paure legati alla maternità.
Per ogni donna indecisa se fare o meno figli, la domanda diventa sempre più pressante col passare del tempo, ad ogni compleanno o post su Instagram in cui qualcuno annuncia una gravidanza. Figuriamoci se a farsi questa domanda è una popstar il cui ultimo album ha raggiunto il primo posto nel Regno Unito, una che ha scritto una hit come Speed Drive, dalla colonna sonora di Barbie, il fenomeno cinematografico del decennio. E quindi nel suo caso darsi una risposta è ancora più difficile. «Le circostanze vorrebbero che prendessi una decisione tipo: non userò più anticoncezionali, non andrò in tournée, vedrò cosa vuole fare George e proveremo ad avere un bambino», dice, per poi aggiungere che «in realtà mi sento come una bambina, non me la sento ancora di fare una scelta del genere». Quel momento arriverà, in un modo o nell’altro. «Devi prendere per forza una decisione, perché noi donne» dice sbuffando «abbiamo un orologio».
Prima di inziare l’intervista ho dovuto aspettare che finisse di parlare con la sua etichetta. Si sta facendo buio quando Charli XCX varca la soglia di casa con ancora addosso gli occhiali da sole. Le stanze sembrano un set fotografico di Tim Walker: alti soffitti da cui pendono lampadari eccentrici, libroni di lusso, decorazioni a stampa animalier. In un angolo c’è un cavalletto da pittrice con tanto di ritratto. La casa sulle Hollywood Hills dev’essere stata benedetta dagli dei delle feste. Lei l’ha acquistata nel 2020 da Calvin Harris, che a sua volta l’aveva comprata da Steve Angello, il dj degli Swedish House Mafia. Col passaggio di proprietà è ovviamente cambiato l’arredamento.
Durante il primo decennio di carriera, l’avant pop sovversivo di Charli è stato oscurato dal suo contributo a pezzi mainstream come Fancy di Iggy Azalea o I Love It delle Icona Pop. Le cose sono cambiate dopo la pandemia e Charlie si è trasformata da artista ai margini che non era ancora riuscita ad esprimersi a figura di riferimento di un intero sottogenere, l’hyperpop, riuscendo a creare un suono che influenza il pop stesso. Dato che non ha tanto tempo da dedicarmi, perché stasera ha degli impegni importanti, mi fa strada in abito grigio e tacchi rosa fino al piano di sopra dove entriamo in una sala studio buia. L’unica luce proviene da alcune candele che sembrano essere state lasciate accese tutto il giorno.
Nel giro di pochi minuti Charli fa partire una selezione di brani EDM anni 2000, poi si ferma e – come farebbe una che crede di essere la regina del mondo – si siede, si accende una sigaretta e inizia a sorseggiare una Coca-Cola. «Questo è senza dubbio il mio disco migliore», dice. Ascoltiamo un’altra canzone e inizia spiegarmi il significato di I Might Say Something Stupid, brano in cui la sua voce in Auto-Tune racconta l’ansia esistenziale che prova chi è «famoso ma non del tutto» la mattina dopo una festa. «Pensi a robe del tipo: che cazzo ho detto? Che ci faccio qui? Ho cambiato parti di me perché pensavo di non poter essere me stessa? Chi sono davvero? Mi capita di sminuirmi, di avere delle insicurezze quando sono a fianco di artisti tutti d’un pezzo. Credo che molti artisti si sentano così, ma non se ne parli mai perché l’idea è che siano tutti forti e sicuri di sé».
Ricostruzioni emotive a parte, Brat è innanzitutto un disco da club. A questo punto, siamo a inizio febbraio, i fan non hanno ancora avuto l’opportunità di ascoltare il singolo che parla della sua fama, Von Dutch, né Club Classics e neppure il ritmo ipnotico di B2b (che mi dice riguardare un amante seriale delle popstar che ha frequentato per un breve periodo). Dal punto di vista sonoro, l’album è ingannevolmente semplice: pochi suoni per brano costruiscono uno spazio sicuro dove mettere in primo piano i testi. La produzione essenziale si ispira al lavoro di Sophie, sua amica e produttrice scomparsa tempo fa, ma anche a canzoni come Fuck the Pain Away di Peaches. La struttura circolare dell’album e i suoni che ritornano lo fanno sembrare quasi un dj mix senza inizio e senza fine.
«L’elettronica da club mi fa sentire viva. Andare a vedere un concerto pop o, tipo, a sentire una band è un incubo per me», dice Charli con il suo accento britannico da ragazza della Valley, cresciuta nell’Essex ma da una decina d’anni a Los Angeles. «Il che è buffo, visto che sto con George, ma lui sa come la penso». La musica che fa emozionare gli altri non la tocca, la lascia fredda. La dance elettronica, invece, «è tristezza, bellezza e immobilità: mi fa qualcosa a livello chimico».
Charli ha lavorato ad alcuni brani dell’album con George Daniel, ma non è la prima volta che i due collaborano. Nel 2021 hanno lavorato al singolo Spinning con No Rome e di recente sono rimasti a lungo – proprio in questa stanza – per lavorare ai remix del set alla Boiler Room, evento che si è rivelato di enorme successo e con il maggior numero di RSVP nella storia della Boiler Room. «Vogliamo fare colpo l’uno sull’altro, pensiamo di essere entrambi bravi, ma in realtà sono una vera stronza con George quando siamo in studio», dice ridendo. «Ovviamente siamo intimi, quindi i normali confini che ci sono in studio spariscono». George è un perfezionista, ha un ritmo più lento e di solito cerca di seguire le dinamiche di gruppo. Per questo, a volte, è capitato che Charli lo rimproverasse dicendogli di sbrigarsi. La sua iper-spontaneità si è comunque fusa con le salde capacità tecniche del fidanzato. «Andiamo molto bene insieme, lui lascia molto spazio alle persone, le lascia respirare, essere sé stesse e seguire il loro processo».
L’approccio di Charli alla musica è cambiato nel tempo. Tutte le metafore elaborate e adattate al pop radiofonico del concept album del 2022 Crash sono scomparse, proprio come quelle più dirette e personali che ha usato per esprimere le frustrazioni, le speranze e i sogni nel suo album pandemico How I’m Feeling Now del 2020. Mentre cerca d’illustrarmi il suo processo creativo – e quindi anche come è nato Brat – Charli dice che «per sentirmi ispirata il pendolo deve oscillare violentemente». I testi di Brat somigliano a conversazioni profonde e significative: «Mi sembra di dire cose che direi in privato agli amici». Viene da fare un paragone con la scrittura pop di Crash e in particolare del singolo Good Ones: «Nessuno direbbe mai frasi come “Me? I let the good ones go” (“Io? Ho lasciato che quelli bravi se ne andassero”)», dice Charli girandosi sulla sedia della scrivania e sbattendo le mani sulle gambe per scherzo. «Probabilmente diremmo: “Oh mio Dio, sono un cazzo di disastro, continuo a innamorarmi di veri idioti”».
Il suo lavoro fino ad oggi è stato spesso incentrato su relazioni, infedeltà e ragazzi idioti. Brat invece parla di donne. L’unico brano diverso oltre a B2b è una canzone senza titolo che racconta esplicitamente della sua attuale relazione con George, in particolare del suo comportamento invasivo quando cerca di affermare la sua presenza nella vita e nella carriera di Charli. Per il resto, il disco parla del rapporto con le donne della vita di Charli, dei suoi sentimenti nei confronti di Sophie, della competitività con le altre artiste e della più importante relazione che ha avuto con una donna: il legame che ha con sé stessa. I temi sono trattati in modo acuto e riflessivo, come nel caso di Sympathy Is a Knife, in cui esplora il desiderio di condividere i momenti di insicurezza per poi sentirsi in imbarazzo quando viene a generarsi compassione negli altri. Nelle mani di artisti mainstream questi temi potrebbero risultare troppo sdolcinati o quasi da seduta terapeutica. Lei non potrebbe essere più d’accordo: «La gente crede in quel che dico».
È ora di uscire di casa, le chiedo cosa farà stasera. Immagino che abbia un altro incontro di lavoro o che suoni alla festa di compleanno di un miliardario. Abbassa lo sguardo e un po’ imbarazzata dice che «vado a farmi un trattamento al viso… lo so, lo so». Scoppio a ridere e lei abbozza un sorriso evitando il contatto visivo. «È solo che… è molto brava e non volevo disdire… mi spiace». È il tipo di risposta che vorresti da una persona che si definisce un cult classic e che mi ha appena detto di non essere interessata a questa parte del suo lavoro, intendo la dinamica da intervista.
Dopo l’uscita del suo album pop più accessibile e dopo aver fatto parte del mondo di Barbie, sarebbe stata una transizione facile e ovvia per lei diventare una Dua Lipa per i sobborghi d’America. Ha scelto invece la strada più interessante per lei. Se non pensasse di essere intelligente, si annoierebbe. Se non potesse più considerarsi cool, si ritirerebbe. Questo contraddittorio cocktail di sfacciataggine e ambizione, insicurezza e vulnerabilità è ciò che la rende tridimensionale.
Un paio di settimane dopo, mentre quasi 40 mila gay della East Coast vengono colpiti da un attacco di FOMO, 500 club kids e l’élite LGBTQ+ newyorkese sono stipati in un ex magazzino per la Boiler Room di Charli. O, come lo ha chiamato su X il dj Ty Bushwick, il «Bushwick Met gala». Un remix di Pump It Up di Endor suona mentre in sala gira Aquaria di Drag Race. Due fan con cappelli di Von Dutch fanno headbanging alla balaustra. Pare che tutti o quasi stiano svapando, vestiti come la versione goth di Spike di Buffy l’ammazzavampiri. Altri sembrano ballerini usciti da un video di Britney. Siamo qui per vedere un altro lato di Charli XCX: la rockstar alfa, la somma vivente di tutte le celebrità degli anni 2000 arrestate per guida in stato d’ebbrezza, la donna che ha dato il via al ciclo di questo album dicendoci che siamo ossessionati da lei.
Una volta che Charli, il suo produttore di lunga data A. G. Cook e George Daniel si mettono dietro ai piatti, esce dal campionatore la voce della cantante che dice la parola “me”. Indossa una grande maglietta blu con la scritta “Club classics” in maiuscolo, mescola un paio di successi, musica inedita e Satisfaction di Benny Benassi. Mentre mixa Vroom Vroom, fa suonare la parola “George” sul campionatore, girandosi per incrociarne lo sguardo. I due si sorridono. Più tardi lui verrà presentato con entusiasmo da Charli come «il mio fidanzato sexy».
A un certo punto Charli chiama dall’area vip l’attrice, artista e it girl Julia Fox, che si dirige verso il palco per cantare il suo singolo d’esordio Down the Drain. Stava andando via quando Charli le ha chiesto di esibirsi. «Mi ha sorpreso il fatto che volesse condividere con me un momento così importante. Ti fa capire che tipo di persona è e la sua voglia di valorizzare chi le sta attorno», mi dice Fox. Da tempo ormai le due si frequentavano e stanno sviluppando una vera e propria amicizia. Secondo Fox stare vicina a Charli è stimolante: «Ha un’energia rassicurante, ti fa sentire a tuo agio, è una vera leader».
Durante uno dei momenti salienti del set, Charli si toglie gli stivali, sale sul palco in collant e occhiali da sole e balla sul remix di A. G. Cook di Bitch Better Have My Money di Rihanna. Solo lei poteva permettersi un momento del genere, se lo avesse fatto qualcun’altro sarebbe sembrata una pazzia. Ma fatto da qualcuno che ha un corpo da Venere di Milo – forse un po’ più tonica – e la sicurezza di un branco di leoni funziona e trasmette il tipo d’euforia che non capita spesso di provare. A inizio serata, però, le tremano le mani mentre manovra pulsanti e manopole. «Io e George eravamo belli nervosi», mi dice più tardi, ricordandomi che hanno fatto entrambi esperienza da dj in tutt’altri contesti. «Mentre stavamo montando le riprese della serata mi sono rivista letteralmente terrorizzata, cosa che non mi succede quando faccio i concerti. Non avevo mai fatto la dj con otto telecamere puntate in faccia».
Quand’era adolescente, Charli si faceva accompagnare dai genitori per fare la dj nei rave illegali di Londra. Più tardi, a metà anni 2000 e durante l’era di Pop 2, A. G. Cook aveva uno studio nel quartiere di Seven Sisters attaccato a un club. Facevano musica e la portavano subito nel club per farla ascoltare alla gente e avere un riscontro immediato. Per Charli, il set della Boiler Room è stata un’esperienza simile. «Adoro ascoltare la mia musica alle feste. Il posto migliore è all’aperto, a tutto volume. Non è roba da Starbucks e probabilmente lì non la sentirai mai, a meno che il manager non sia un twink».
Così come i cani somigliano ai loro padroni, la fanbase di un artista dice molto dell’artista stesso. Fuori, nella coda infinita dell’afterparty della Boiler Room, le glamazon meglio vestite di New York aspettano sotto la pioggia senza ombrello per un’ora e mezza prima di poter entrare. Una delle Charli’s Angels – il nome dato alla sua fanbase – lancia un lungo urlo, un’altra inizia a piangere, quasi imbarazzata. «Questo non è proteggere le bambole», dice una donna trans sistemandosi il caschetto. Un altro Angelo sexy cerca di farsi largo, dicendo: «Sono Addison Rae». Quando la vera Addison Rae arriva a bordo di un SUV (venendo subito avvicinata da un ragazzo gay che le dice: «Ti adoro!»), l’Angelo accenna a un saluto e cambia versione: «Sono la mamma di Spy Kids».
Qualcuno minaccia di suicidarsi, ma nessuno se ne va. Una volta entrate, le persone cambiano espressione, come se l’acquazzone non ci fosse mai stato. «Come sto?», chiede un fan a un altro. «Figo» è la risposta.
Una powerhouse è una persona la cui sola presenza cambia l’energia di una stanza. Ai Billboard Women in Music 2024, Charli è sul tappeto rosso e spiega che sta per cantare una nuova canzone, un po’ delicata, che potrebbe farla piangere. Una giornalista le dice che non c’è «posto più sicuro per cantarla di una stanza piena di donne», Charli sospira e risponde prontamente: «Giusto, assolutamente sì. Potere alle ragazze, suppongo». Due intervistatori ridono, senza cogliere il sarcasmo.
Il cuore le batte forte quando sale sul palco per esibirsi. La canzone che ha scelto è So I, una ballata con un sacco di Auto-Tune dedicata a Sophie, morta nel 2021 in un tragico incidente. Charli canta la sofferenza nell’averla persa e il rammarico per non esserle stata più vicina quand’era in vita (“Le tue parole, brutali, amorevoli, veritiere / ero pietrificata”). Dato che la serata è dedicata alla celebrazione di artiste donne, a Charli è sembrato «giusto onorare Sophie, sia come artista trans che come incredibile visionaria».
Quando ritira il premio Powerhouse, sembra fuori luogo. Invece di parlare al pubblico femminile di quanto siano leggendarie le donne presenti in sala o di quanto sia importante la presenza femminile nell’industria dell’intrattenimento, Charli parla di che casino sia essere donna e in particolare donna nel settore musicale. Dice che le donne possono essere gelose, fare confronti, mettersi l’una contro l’altra. Vogliono essere più sexy o avere più successo e più di qualunque altra cosa.
Jordan Firstman, attore comico amico di Charli che vive come lei a Los Angeles e definisce la città «la terra degli stronzi opportunisti, ma Charli non è una di loro», cita la sua onestà come la qualità che più lo sorprende. «È sempre bello quando qualcuno riesce ad essere sincero sulle sue insicurezze», mi dice Jordan. «Se sente di non meritare qualcosa o è gelosa di qualcuno, lei non ha paura di dirlo. Altre invece fanno finta di non essere mai insicure o gelose e ovviamente è impossibile».
Pur riconoscente e felice di essersi esibita con So I, Charli non si trattiene dal dire la sua riguardo all’evento: «Siamo tra donne intelligenti, non posso sopportare la mancanza di realtà in situazioni come queste. Noi donne non dobbiamo giocare per forza la carta del minimo comune denominatore, moralmente sicuro, per continuare a essere intelligenti e apprezzate. Possiamo essere oneste». La verità secondo Charli è che gelosia e insicurezza sono presenti anche, e forse soprattutto, in eventi come questo. «Essere gelosi è in qualche modo erroneamente equiparato a non sopportare la presenza delle altre donne, il che non è vero. Credo che si possa provare invidia e sostenere comunque le altre donne», dice, aggiungendo che «la gelosia non è un sentimento o una caratteristica molto sexy, vero?».
Per Charli la gelosia è semplicemente la sopravvivenza del più forte, e questo impulso animalesco a prosperare è necessario in un’industria che valorizza la novità, la giovinezza delle donne e la loro appetibilità. «Se tu fossi una tipa tranquilla e felice, probabilmente non lavoreresti in questo settore al livello in cui lavoro io, capisci? Questo settore ha una natura competitiva e credo stia a noi scegliere se far leva su di essa o meno». È l’atteggiamento che l’ha portata a migliorarsi in ogni album e progetto.
Quando Firstman ha incontrato Charli a una delle sue feste durante la pandemia, «osé ma non immorali», le ha detto: «Charli, sei la Rick Rubin della tua generazione, individui altri talenti e lavori con ogni singola persona influente dando vita a delle visioni. Ma non so se sei una popstar, ragazza mia, mi spiace». A detta di Firstman, Charli ha annuito educatamente (naturalmente la mattina dopo era terrorizzato al pensiero di rivederla). Ma guardandola esibirsi durante il tour di Crash, con le nuove doti acquisite di ballerina e il suo approccio alla coreografia pop, si è reso conto che invece poteva arrivare fin dove voleva. «Con quella forza di volontà può fare qualsiasi cosa».
Chiedetele il nome dell’artista donna di cui è stata più gelosa e Charli dirà per la gioia dei fan che è Lorde. Tempo fa una giornalista ha fatto una gaffe con Charli scambiandola per Lorde e dicendole che la sua canzone preferita era Royals (sul momento, ovviamente, Charli si è prestata al gioco e ha fatto finta di essere la cantautrice neozelandese). Da quel giorno, i fan hanno iniziato a prenderla in giro chiamandola per scherzo Charli Lorde e, ogni tanto, chiedendole di cantare sul palco Royals.
«Ero super invidiosa del successo di Royals. Ho messo insieme degli elementi e ho iniziato a pensare: a lei piaceva la mia musica. Aveva tanti capelli, come me. Metteva il rossetto nero e anch’io una volta lo portavo. Crei questi parallelismi e pensi: potrei essere io. Ma non è così, perché siamo completamente diverse. Non stavo facendo musica simile a Royals. È l’insicurezza che fa brutti scherzi». L’invidia però non dura per sempre, infatti lei e Lorde sono in buoni rapporti. «A un certo punto l’invidia si supera, cerchi di capire che cosa ti rende unica, quali sono le tue qualità. Poi probabilmente dopo cinque mesi ti viene un esaurimento per qualcos’altro», confessa Charli. «Qualsiasi breakdown tu possa avere, fidati, è roba profonda finché non lo è più».
Mentre aspettava le recensioni di Crash, la sera prima dell’uscita dell’album, Charli è stata fotografata mentre usciva a cena al Sexy Fish di Mayfair. Indossava un crop top con la scritta “Non costruiscono statue di critici”. Tralasciando la sua indifferenza nei confronti dei giornalisti culturali, è lei stessa un critico che lavora come pop star. Charli pensa all’essere musicista attraverso una lente quasi accademica. Analizza e poi affina le sue teorie attraverso le sue esperienze e la celebrità. «Per fare una buona campagna pubblicitaria, che non crolli appena gratti la superficie, devi essere interessata alla teoria». Seguendo questa logica, Charli ha messo in pratica molte trovate promozionali. Basta pensare a quando ha messo in scena un video dove il suo pubblico la filma mentre guida per Las Vegas ascoltando la sua stessa musica. Oppure quando ha deciso di scalare un jumbo jet o ancora quando ha postato un TikTok con i suoi amici – Firstman e la comica Rachel Sennott – mentre discutono idee di marketing mandate dalla sua etichetta.
Charli è arrivata a una parte di questa teoria analizzando il modo in cui la sottocultura alternativa e la cultura giovanile operano online. «Non direi che sono profondamente coinvolta nella cultura edgelord, ma ne ho analizzato i testi». Non è granché interessata alla politica del famoso podcast Red Scare di Dimes Square, ma ha apprezzato l’episodio sulla storia e la musica di Lana Del Rey. «Ovviamente dipende da che tipo di artista sei, ma credo che gli album memorabili siano radicati in un pensiero profondo e non in semplici vibes, che per me sono il crimine più grande».
Ad aprile parlo di nuovo con Charli, questa volta in videochiamata. Indossa una felpa nera con cappuccio. È pronta per una mattinata poco impegnativa, gli unici altri piani sono la realizzazione dei poster di Sweat per il tour congiunto con Troye Sivan e un po’ di meditazione col metodo Charli XCX, ovvero firmando 5000 dei suoi CD. È stata troppo occupata per considerare la questione figli, ma alcune delle sue amiche hanno sentito I Think About It All The Time e si sono immedesimate. «È difficile indovinare che tipo di madre sarei. Ma spero che, se avessi un figlio, non mi approccerei a lui come faccio con la mia carriera».
Dall’ultima volta che ci siamo incontrate, qualcuno ha twittato una raccolta di copertine minimaliste di nuovi album di popstar femminili e tra questi c’era anche quella di Brat. L’hanno criticata dicendo che i direttori artistici probabilmente erano in sciopero quando l’hanno realizzata. Charli ha risposto con un tweet: «Penso che la costante richiesta di vedere i corpi e i volti negli artwork dei nostri album sia sintomo di misoginia, ed è pure una cosa noiosa». E ancora: «Il più delle volte la gente si limita a digerire quel che ha davanti senza porsi più delle domande. È deprimente perché parte del divertimento della musica pop e soprattutto delle campagne pop è capire quel che c’è dietro».
L’artwork di Brat è volutamente bratty e a bassa risoluzione. «Non voglio darvi qualcosa di carino, voglio farvi pensare», dice Charli. «Voglio spingervi a chiedere: perché vi dà fastidio che in copertina non ci sia la mia faccia? Cosa dice della cultura pop il fatto che vi dia tanto fastidio? Cosa dice di ciò che vi aspettate dagli artisti? Cosa dice di me in quanto artista? Averlo fatto mi rende stupida? O forse coraggiosa? Mi rende pigra? Ci sono così tante riflessioni che si possono fare guardando la copertina e secondo me sono più interessanti di “oh mio Dio, guarda quant’è sexy”. Ma forse è una conversazione da belle arti».
Il titolo dell’album non si limita a definirla come “monella”, incarna la velocità con cui viene vissuta ogni cosa su Internet. È una critica ai cicli di trend e ai contenuti futili e volatili che circolano sul web. Per ironia della sorte, Von Dutch e il suo testo “Do that little dance, without it, you’d be nameless” (“fai quel balletto se no rimarrai anonimo”) sono diventati la colonna sonora preferita degli influencer e il brano più utilizzato per i balletti da veri brat degli utenti di TikTok.
Questo mondo online è lo spazio iperattivo e usa e getta in cui Charli ha osservato prosperare i brat. «Che tu sia un troll su Twitter o che tu stia ballando Addison Rae su TikTok, ti spinge una richiesta di attenzione sfacciata e spudorata che potrebbe esprimere il bisogno di sentirsi protetti. Essere impertinenti è un mantello dietro cui nascondersi. Sei impertinente solo se ti opponi a qualcosa che ti ha fatto sentire insicuro».
Ci vuole un impertinente per riconoscerne un altro. È questa la teoria che spiega l’energia al tempo stesso inquietante e galvanizzante che sta da sempre alla base del progetto di Charli XCX. Tutto ciò che la rende sexy e al contempo dissociata non fa altro che farla sentire un essere umano completo, più simile a noi. L’unica sua regola nel pop: non limitarsi a trasmettere semplici cool vibes. «Per me quella non è artisticità. Semplicemente non penso alla mia musica o alla mia arte in modo bidimensionale, e mai lo farò».
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Foto: Tyrell Hampton
Creative and styling: Joseph Kocharian
Hair: Jillian Halouska at The Wall Group
Makeup: Lauren Reynolds at Bryant Artists
Fashion Assistant: Aaron Pandher
Dal numero di giugno/luglio di Rolling Stone UK.