Poteva essere una intervista di routine: il producer di enorme successo (dischi di platino a dozzine, quello che ha fatto deflagrare la popolarità della trap in Italia lavorando con Sfera, Ghali e mille altri) che fa uscire un singolo – Obladi Oblada il titolo – e, per andare sul sicuro e ramazzare numeri a palate, assolda per le voci un magico trio formato da Ghali, Fabri Fibra e thasup. Ma già il fatto che la richiesta fosse di beccarci di persona, non su Zoom, ci aveva incuriosito; e in realtà la figura di Charlie Charles è da qualche anno un colossale “non detto” fra gli osservatori più attenti e cinici delle faccende di musica, perché è come se al momento di massimo successo avesse deciso di eclissarsi, riducendo in maniera drastica la produzione invece di raccogliere allori, dischi di platino e assegni corposi a getto continuo.
Alla fine un’influenza fuori stagione ha fatto fallire l’idea di beccarsi di persona; ma la conversazione via schermo con Paolo Alberto Monachetti alias Charlie Charles è stata di intensità rara. Altro che intervista di routine.
Di solito è una domanda banale, la più banale e generica di tutte. Ma in questo caso forse no. E quindi, allora: Paolo, come va?
Va. Adesso va meglio.
Ecco.
Sì, va meglio.
Perché c’era una fase in cui Charlie Charles era ovunque in qualsiasi momento, era “il” produttore per eccellenza; poi all’improvviso la tua presenza si è diradata, ma diradata davvero, fino a quasi a scomparire…
Ed è stato esattamente così.
Non posso che chiederti: perché? Che è successo?
(Pausa) Diciamo che a un certo punto è stato come quando ti risvegli. La sensazione è stata quella. Solo che quanto avevi appena vissuto non era un sogno, ma la realtà.
Eh, differenza non da poco.
E quindi ecco che ti trovi sul groppone tutta una serie di cose: il successo, la fama, anche tanti soldi, certo, perché ovviamente ci sono stati anche quelli; ma ti ritrovi pure una completa assenza di una ricerca vera e profonda su di te, su chi sei e cosa vuoi veramente. Dopo tutti questi anni di stakanovismo, di lavoro in studio, di dedicarsi instancabilmente alla musica, questo è quello con cui mi sono ritrovato al risveglio.
E sei stato male.
Sì. Molto.
Ci vuole comunque coraggio nell’ammetterlo.
In realtà i primi segnali di malessere c’erano stati già quando ancora sembrava essere tutto a posto, tutto al meglio. I primi campanelli d’allarme risalgono al 2016 infatti, quando ero in piena attività: attacchi d’ansia, cose del genere. Poi il tutto non ha fatto che peggiorare. La svolta è stata quando mi sono detto: «Basta. Devo cercare di stare bene con me stesso. Devo cercare di capirmi, devo curarmi. Devo dedicarmi a Paolo». Ed è stato quello che ho fatto. E che voglio continuare a fare. Anche perché è Paolo a nutrire Charlie: se riesco a curare la mia persona, curo anche la mia carriera.
Eri arrivato anche a detestare la musica, nel momento di crisi più profonda?
Non dico odiare, ma una forte perdita di interesse quello sì. Non era più motivato. Ma davvero, eh, non lo dico per dire: per un paio d’anni non ho fatto praticamente niente, a un certo punto nemmeno andavo in studio. Poi piano piano ho ripreso: con prudenza, andando un po’ a tentoni… Anche perché nel frattempo era cambiato il contesto. Avevo abbandonato il vecchio studio per metterne su uno nuovo, molto grande, e se prima lavoravo da solo ora avevo tecnici e professionisti che lavoravano assieme a me. Imparare a lavorare con gli altri, a influenzarsi, a fidarsi reciprocamente, è stato un processo non immediato; e anche dal punto di vista meramente tecnico era tutto un altro mondo. La mia prima situazione era molto alla buona, sai: scheda audio, microfono e via. Mentre ora ho una montagna di hardware tra cui districarmi, le patchbay, le matrici da gestire… Insomma, ho dovuto cambiare completamente flusso di lavoro ed abitudini. Ma va bene. Perché questi comunque sono stati anni in cui mi sono proprio dedicato ad imparare le cose, proprio in generale: al di là del lavoro in studio, ho infatti anche perfezionati gli studi in pianoforte, poi ora sono pure passato alla chitarra.
Tante cose, in effetti.
A livello professionale ho fatto una ricerca e un lavoro a tutto tondo. E da questo, sono ripartito. Non da zero, perché non sarebbe onesto dire che ripartivo da zero, ma di sicuro ho ripreso ad imparare, ad esplorare. E ho capito che non bastava più restare nella routine, ed accontentarsi di restare sulla superficie delle cose.
Sulla superficie?
Sulla superficie.
Deve essere stato molto strano: perché mentre tu eri impegnato in tutto questo processo di diciamo reset e ripartenza ponderata, un sacco di persone attorno a te – persone con cui avevi condiviso parecchio, e che anzi tu per primo avevi contribuito a consacrare – andavano invece a mille.
Verissimo.
E tu invece eri apparentemente, ecco, fermo.
Già.
Che sensazione ti dava?
(Pausa) Ci sono stati dei momenti di sconforto totale.
Ecco. Immaginavo.
A un certo punto capitava che mi guardavo allo specchio e mi dicevo: «Forse sono solo un pazzo. Forse non dovrei vivermela così». Poi però ci pensavo su.
E?
E capivo che invece non ero pazzo per niente. Semplicemente, avevo capito cosa fosse giusto per me. Sai, tutti noi vorremmo tanto essere forti, sicuri e determinati nelle nostre scelte, ma la verità è che non lo siamo mai. Io poi da sempre sono uno che si mette molto in discussione. E riguardo al fatto della vita degli altri, effettivamente mi capitava di guardarla attraverso il filtro dei social, era strano, e a un certo punto i social li ho proprio spenti più e più volte: non solo non li ho guardati, per un anno ho addirittura disattivato direttamente gli account. Era un test: «Non voglio vedere niente del resto del mondo. Perché voglio vedere solo me, e capire cosa penso di me». Lo stadio successivo è stato tornare a starci, invece, nei social, ma imparare a farlo senza farmene influenzare. Tutto questo l’ho vissuto come un test. Anzi, mi verrebbe da dire: come un gioco. Perché così bisognerebbe viversela, in fondo: come un gioco. Nulla di tutto quello che facciamo professionalmente è così importante, in una professione come la nostra; o di sicuro, non è importante tanto quando il saper capire se stessi e i propri bisogni più autentici.
Se l’attitudine ora è questa, allora mi sa che pure Obladi Oblada è un gioco: non insomma il grande ritorno di Charlie Charles, ma più un «ecco, ho fatto questa cosa qua, la butto fuori, vediamo l’effetto che fa».
Bravissimo: hai colto perfettamente il punto. Perché è proprio così. Non c’è una progettualità a dietro a questo release, non c’è una strategia, non è l’anteprima di un album o un chissà quale posizionamento strategico. Per certi versi mi ricorda quanto è successo con Calipso quattro anni fa: un brano che stava in un cassetto già da un po’, che mi piaceva molto, ma che per qualche motivo alla fine non era mai stato utilizzato, fino a quando non ho detto «Sentite, facciamo che lo riprendo in mano io e vediamo cosa ne viene fuori». Anche Obladi Oblada è un brano iniziato con Ghali. C’è quasi una simmetria, in questo, era un cerchio che in qualche modo volevo chiudere perché in realtà, oggi, mi sento molto distante da quello che ero con Calipso e prima ancora con l’inizio del nostro viaggio artistico assieme.
Tornando a Obladi Oblada, alla traccia di partenza abbiamo sviluppato questa idea di creare una struttura a tre voci e ciascuna di queste rappresenta a suo modo un’attitudine, una generazione. Attitudini e generazioni che vengono affiancate, e messe a confronto; ma in un contesto non del tutto standard, anzi, se vuoi proprio un po’ psichedelico. Anche musicalmente è particolare come traccia, c’è questo cromatismo, questa specie di spirale che ti porta giù… Ecco, a me piace definirla una hit estiva notturna: perché chiaramente da un lato potrebbe essere un brano fatto per funzionare, dall’altro ha comunque un’identità strana che, penso di poter dire, è abbastanza riconoscibile come mia.
Il rischio però effettivamente è vedere che è uscito ‘sto pezzo, ok, che ci sei tu, che ci sono Fibra, Ghali e thasup, e prima ancora di ascoltare pensi: ah ecco, è tornato Charlie Charles, mo’ vogliono ributtarlo sul mercato facendolo funzionare al massimo e infatti raccattano gli MC che fanno grandi numeri, così sbancano facile, il solito giochetto…
C’è una cosa che ho capito, e che per me è molto, molto importante. Ovvero: io non ho più bisogno di numeri.
Ok.
Questo perché, detto senza presunzione, i numeri che ho fatto io difficilmente saranno fatti da qualcun altro. Ma occhio, non lo dico con arroganza: è che semplicemente ho fatto il mio percorso che è lì, di fronte a tutti, coi risultati che ha generato, e ora non ho più bisogno di dimostrare più niente a nessuno – né a me stesso, né agli altri. Io ai numeri ci sono arrivato; e ora ho capito che non mi interessano. Li ho assaporati, ma ho capito che non bastano a farmi stare bene. E bada bene, lo dico da persona che anche in questo periodo ha un brano primo in classifica negli streaming, quello di Sfera e Tedua, e che comunque con S!r! con Lazza, Sfera e thasup ha prodotto una delle tracce coi maggiori numeri di sempre. Ma questi numeri a cui sono arrivato ho capito che non mi appagano. Belli, i dischi di platino. Ma poi, una volta che li raggiungi, stanno lì. Sento che a me non danno niente di davvero profondo.
Però mi tocca dirti: facile dire che «i numeri non sono importanti» per te che li hai già fatti…
Chiaro. È un discorso che affronto molto lucidamente: chiaro che vale per me, chiaro che io posso permettermi oggi di dire che i numeri non sono importanti, mentre se sei un emergente e vuoi sfondare allora i numeri devi dimostrare di saperli fare, punto. Ma anche quelli che oggi hanno l’urgenza di farsi un nome, a un certo punto capiranno probabilmente che tutto questo è: solo un gioco. Non è questione di vita o di morte. No. Io poi finora ho avuto la fortuna di vedere che se una cosa mi piace tanto, se mi convince al 100%, alla fine quasi sempre funziona. Quindi sono sereno. Quello che sta succedendo ora è che semplicemente sto cercando di godermi un po’ di più tutto quello che faccio.
Proprio ieri lo dicevo alla mia ragazza: «Ma sai che non mi era mai successo di vivermi così bene l’uscita di un mio brano nuovo?». Ero a cena con lei, coi ragazzi dello studio, con quelli della label, proprio per festeggiare tutti assieme l’uscita di Obladi Oblada: ci credi che io cose così prima non le avevo mai fatte? Di solito se avevo un brano in uscita era un «Ah ok… vabbè», e poi tornavo a produrre. Ora invece ho imparato a godermi il momento, a stare nella situazione. Ed è bello, sai. Alla fine quello che mi porterò dietro saranno più questi momenti, che i 100 milioni di streaming o i non so quanti dischi di platino. O almeno: penso sarà così.
Azzardo: mi sembra che ora sei anche più molto più sereno nel fare conversazione e nel rapportarti con le persone rispetto a qualche anno fa, quando eri il producer del momento. Ok, questa è una intervista programmata, con una testata importante: quindi in qualche maniera ti tocca stare qui a parlare con me, anche se magari non ne hai voglia o ti sto sulle palle. Mi pare però che tu abbia veramente piacere nell’avere la conversazione che stiamo avendo e, in tutta sincerità, in passato invece penso non sarebbe stato così.
Anche qua ci hai preso. Sai, quando hai un confronto con qualcuno c’è sempre questa cosa che è un po’ come un guardarsi allo specchio: e tutto ciò mi ha sempre un po’ intimorito. Io di mio sono uno che interagisce volentieri, ma con chi conosco già. Con gli sconosciuti è sempre stato un po’ più difficile, facevo fatica ad aprirmi. Anche per questo ‘sta chiacchierata volevo farla di persona, e non via Zoom come stiamo invece facendo, ma poi ci si è messa di mezzo la febbre… Però sì, sono convinto che quando ci si incontra di persona c’è una comunicazione più intensa, più ricca. Comunque: se dici che prima non sarei stato così ricco e aperto come conversatore, è vero. È assolutamente vero. Ed il motivo è molto semplice: non ero ancora passato da un percorso di introspezione. Questo significa due cose: che avevo meno cose da dire da un lato, e che avevo paura ad espormi dall’altro. Ora che so meglio chi sono e cosa voglio, ho molta meno paura ad espormi e a raccontarmi.
Non ti preoccupa il fatto che comunque qualcuno possa dire, adesso e a dirla tutta già da un po’ tempo, ma in realtà soprattutto adesso che sei tornato ad esporti e lo fai però con questo tipo di attitudine, «Charlie Charles? È andato, è bruciato»…?
Ah ma certo. Già lo fanno, cosa credi. Li leggo. Leggo i messaggi che mi arrivano direttamente, o che mi riguardano. Ne abbiamo anche parlato fra di noi, in studio, o con la mia compagna. Sai cosa: per un sacco di tempo sono stato abituato proprio a zero hating, perché quello che ricevevo erano solo complimenti, o al massimo dei «Oh, ma non ridi mai». Anche questa cosa del non ridere… Io nel mio privato sono una persona molto tranquilla, aperta. Ma se si trattava di esporsi pubblicamente, in qualche modo non volevo far trasparire emozioni. Non per posa o per chissà quale assurdo motivo, ma semplicemente perché: avevo paura. Questo. Non altro. L’amara verità è questa. Ora questa paura c’è molto di meno, perché ho molta più consapevolezza di chi sono e di cosa voglio per me. La gente pensa sia impazzito, quando invece molto semplicemente ho imparato ad essere sincero con me stesso e ad ascoltarmi. Il paradosso è che basta questo oggi per essere preso per pazzo. Oppure, li vedo che scrivono: «Chissà cosa si è preso…». Io? No. No ragazzi. Sapete cosa? Io sono la persona più pulita che mai conoscerete in vita vostra! Non bevo caffè. Non bevo bibite gassate. Non mi sono mai fatto alcuna droga pesante. Non fumo. E anzi, guarda, ho smesso di fumare perfino le sigarette. Cioè, per farvi capire: io sono uno che beve l’acqua a temperatura ambiente… Eppure, la gente arriva lo stesso a pensare che sia andato via di testa, che sia un drogato, quando la verità è che semplicemente mi sono liberato di alcuni dogmi che non andavano bene per me e non mi facevano stare bene. Oggi mi sento libero di esprimermi, e non temo più il giudizio degli altri. Almeno così mi sembra. Poi, se è così davvero o se invece a un certo punto certe parole degli altri inizieranno a ferirmi sul serio, te lo farò sapere (sorride).
Affare fatto.
Sai cosa, oggi un sacco di gente che mi conosce mi dice dopo un po’ «Ma sei un grande, cavolo. Non credevo». La prima reazione sarebbe: cosa significa «non credevo»? Accidenti a te e ai tuoi pregiudizi! La verità però è che la colpa è tutta mia. Perché per un sacco di anni ho mostrato pubblicamente un me stesso che, in realtà, non ero io.
Ora c’è un nuovo Charlie Charles.
(Lunga pausa) Nuovo? No. Non direi così. Non credo ci sia un nuovo Charlie Charles. Semplicemente, sono cresciuto. Non so se con questa crescita tornerà a essere quello che trovi ovunque; ma di sicuro, sto riscoprendo la musica e mi sto divertendo a espandere i miei confini e le mie conoscenze, ora che so molto meglio chi sono, cosa voglio, cosa non mi interessa granché.