Lunghi capelli neri, abiti gothic, brani dalle atmosfere noir, copertine dal gusto horror, titoli come Apokalypsis. Bisogna dire che Chelsea Wolfe ce l’ha messa tutta per guadagnarsi l’etichetta di “dark lady” che le è stata appiccicata addosso. A metà strada tra Marissa Nadler e Lana Del Rey, apprezzata da Mark Lanegan (che ha inciso la cover della sua “Flatlands” per l’album “Imitations”), la trentenne californiana ha pubblicato lo scorso settembre per Sargent House il suo quarto lavoro, “Pain is Beauty”, che questa sera presenterà dal vivo al Magnolia di Milano, unica data italiana del suo tour. Un disco reso forse un po’ freddo dall’uso massiccio di synth, ma che è stato ben accolto dalla critica, poggia su testi a tratti romantici e soprattutto dà voce a una nuova Chelsea, come dimostra la cover in cui la songwriter di Sacramento, oggi di stanza a Los Angeles, appare vestita di rosso e per la prima volta con il viso bene in mostra.
Hai deciso di uscire allo scoperto?
Beh, c’è chi mi definisce “dark lady”, chi “regina del gotico”, è anche per via della capigliatura, per come mi vesto, me ne rendo conto. Insomma, va bene, non posso controllare ciò che gli altri pensano o dicono di me e sinceramente non m’importa. La verità è che uso questo tipo di look per nascondermi.
Spiegati meglio.
Scrivere canzoni mi è sempre venuto naturale, la prima l’ho scritta all’età di otto anni, ero una bambina. Invece stare sul palco no, non è una cosa che mi viene spontanea. Non avrei mai immaginato di dovermi mettere alla prova come performer, non è una cosa che ho dentro, ho dovuto mettermi in gioco per riuscire a esibirmi davanti a un pubblico, ho dovuto imparare e in questo l’abbigliamento e la moda mi hanno aiutata. Prima ho usato la parola “nascondermi”, ma di fatto gli abiti che indosso mi aiutano non tanto a sentirmi invisibile, quanto a sentirmi più forte.
Da un titolo come Apokalypsis sei passata a Pain is Beauty: è una provocazione o pensi davvero che “il dolore è bellezza”
Si tratta più di una metafora, nello scrivere questo disco mi sono ispirata all’intensità e alla potenza della natura, in particolare avevo in mente gli incendi nei boschi, nelle foreste: il fuoco distrugge tutto, ma poi, pian piano, il terreno si rigenera e la vegetazione ricompare. Se ci pensi anche le nostre vite sono così, dal dolore possono nascere nuove, diverse e migliori prospettive, una nuova forza per stare meglio.
Sembra che tu conosca bene la dimensione della sofferenza, nel tuo passato c’è un dolore che ti ha segnata?
Preferisco non parlarne, da tempo ho deciso di separare la musica dalla mia vita privata. All’inizio scrivevo canzoni sui miei problemi, sulle cose brutte che mi accadevano, poi ho capito che era sbagliato, così ho cominciato a guardarmi attorno e a prendere spunto, per i miei pezzi, dai telegiornali, dai racconti degli amici, dalle vite degli altri. In Pain is Beauty, per esempio, c’è un brano che s’ispira a 1984 di George Orwell e ce n’è un altro, The Waves Have Come, che ho scritto dopo aver visto dei documentari sul terremoto e lo tsunami del 2011 in Giappone: vedevo questa gente che aveva perso tutto, la casa, la famiglia, il lavoro, una sofferenza schiacciante che ho tradotto in versi.
Prima hai detto di aver scritto la tua prima canzone a otto anni, ti ricordi qualcosa di quel momento?
Chiesi a mio padre se potevo usare la sua tastiera, ricordo solo che fu una cosa del tutto naturale, non una forzatura. Sarà che sin dai sei anni mi ero già cimentata in alcune poesie.
E il tuo primo brano, di cosa parlava?
Di amore. Fa sorridere, lo so, cosa vuoi che ne sapessi di amore a 8 anni? (ride, ndr).
Tuo padre aveva un gruppo country, credi di aver ereditato questa vena artistica da lui?
In parte sì, in casa aveva una stanza dove provava con la band, registrava, là dentro ho imparato molto sulla musica. Spesso suonavano pezzi dei Fleetwood Mac, gruppo che ha influenzato il mio modo di cantare e usare la voce. Però non c’era solo mio padre, i miei genitori hanno divorziato quando ero piccola, sono cresciuta in tre case, quella di mia madre, quella di mio padre e quella di mia nonna. Ecco, mia nonna mi ha trasmesso la passione per l’aromaterapia e il reiki, pratica secondo cui si può trasmettere energia alle persone senza nemmeno sfiorarle, mi piace come idea, ci credo. Così come amo gli odori, gli aromi, ho letto un libro molto bello su questo, Profumo di Jitterbug di Tom Robbins.
Insomma, non sei così dark come ti dipingono?
Mettiamola così: attorno a noi per ogni cosa bella che accade ne succedono tantissime brutte. Non è che io voglia focalizzarmi su queste ultime e basta, però mi piace essere realista, guardare i contrasti che contraddistinguono il mondo in cui viviamo.