All Mirrors di Angel Olsen è una dichiarazione d’indipendenza. Lasciatasi alle spalle la fine di un amore e un tour che l’ha lasciata esausta – parole sue –, la songwriter americana si è dapprima buttata sulla scrittura in una dimensione raccolta, dove sono affiorate canzoni alla chitarra essenziali, scarne, diventate dei demo in quel di Anacortes, Washington. Poi, però, ha deciso di stravolgere tutto ed esplorare nuovi mondi. Sonori, s’intende, e l’ha fatto affidando quelle stesse canzoni al produttore John Congleton (già con lei in Burn Your Fire for No Witness), all’arrangiatore Jherek Bischoff (che ha collaborato con David Byrne e Amanda Palmer, tra gli altri), al compositore di colonne sonore di film e videogiochi Ben Babbitt e a un’orchestra di 14 elementi.
«A un certo punto, durante l’ultimo tour, ho cominciato a provare inquietudine, era come se mi sentissi responsabile per i musicisti della band, come se la loro serenità dipendesse da me», racconta Olsen. «Non era giusto. Non mi sentivo più bene e ci bevevo su, il che di certo non ha aiutato. Sul palco me la godevo, ma per il resto c’erano complicazioni che hanno reso tutto molto stancante». Quando si è messa al lavoro sul materiale confluito in All Mirrors l’idea era di scrivere dei pezzi solo suoi, intimi, lo-fi. Tutto è cambiato quando Angel si è messa nell’ottica di collaborare con altri, di creare attorno a sé una squadra. È così che dopo essere stata la folksinger dall’animo dark di Half Way Home o ancora la rocker di Shut Up Kiss Me, è approdata in territori per lei nuovi. Le suggestioni musicali si sono moltiplicate e questo ha portato alla nascita di brani di varia natura, ma non tanto da risultare estranei l’uno all’altro. L’intreccio di archi, tamburi e synth dal gusto gotico, le melodie accattivanti, gli inserti dal sapore cinematografico, i riverberi, l’intensità dell’interpretazione e di un cantato versatile, diretto, ma dotato di una sua sensualità e raffinatezza: tutti questi elementi fanno di All Mirrors un’opera che ci presenta una Olsen trasformata e che si può decisamente definire la più riuscita della sua carriera.
«Non sapevo come il pubblico l’avrebbe accolta», racconta lei. «La consapevolezza che molti si aspettavano qualcosa di diverso c’era, ma sono andata avanti lo stesso: non voglio farmi condizionare dalle aspettative. Anche perché tanto ognuno in ciò che ascolta trova quel che gli pare». In realtà l’album sta collezionando elogi, facile che lo ritroveremo ai primi posti di molte classifiche dei migliori dischi del 2019. Giustamente, perché qui non c’è un dettaglio fuori posto: i passaggi più epici si amalgamo perfettamente con quelli più schiettamente pop, la voce della Olsen è all’apice della sua espressività sia nei momenti più dolci e ipnotici, sia quando si inerpica fino a tonalità che ti entrano dritte in pancia. E se la musica non è mai lineare, ma a tratti crea rifugi, culla e a tratti dà spazio a esplosioni sontuose, non manca un tocco vintage che non scade mai nel cliché. Siamo al punto più alto di un percorso artistico già di per sé notevole.
«Alcune tracce le preferisco nella versione originale, ma mi piace come l’intervento dell’orchestra ha arricchito ed espanso le atmosfere del disco», commenta la musicista originaria del Missouri, classe 1987. E su quel gioiellino che è il singolo Lark, con i violini che si rincorrono fino a esplodere in un climax che sa di catarsi, ma anche di dramma: «È un pezzo con una lunga storia, il primissimo abbozzo risale a 4 o 5 anni fa, all’epoca stavo per lasciare Chicago».
C’è una magniloquenza che non esclude la visceralità, in queste nuove tracce della Olsen in cui echi di Kate Bush si sovrappongono a rimandi a Scott Walker e Serge Gainsbourg, al mondo delle colonne sonore, a David Lynch. Anche a Il cielo in una stanza di Gino Paoli, i cui accordi vibrano in Chance («Me ne sono resa conto in un secondo momento, di quel brano adoro la versione di Mina», confida Olsen). Poi ci sono i testi: parole e versi che delineano un coraggioso viaggio nel lato più scuro di sé, che parlano di un ex che ha perso di vista i sogni della donna che sosteneva di amare, che abbracciano la possibilità di una crescita e di un cambiamento non senza passare per il sentimento della rabbia.
«Ho capito quanto sia importante perseguire ciò in cui si crede, non avere paura», dichiara Olsen, che di recente si è comprata una casa ad Asheville, North Carolina. «E non ho dovuto sposarmi per riuscirci!», sottolinea prima di scoppiare a ridere. Ma il discorso è serio e ha a che fare con la scoperta di una nuova determinazione: «Sono arrivata al punto in cui mi piaccio e amo la mia indipendenza. L’altro giorno un amico mi ha detto: “Vedrai che troverai qualcuno che ti comprende, devi solo riflettere e capire se lo vuoi”; ho risposto che non voglio trovare nessuno. In futuro cambierà, ma adesso è così. Tanti pensano che se non si ha qualcuno accanto non si possa essere felici, ma la felicità non consiste solo nell’avere una famiglia o un partner. E onestamente credo sia più triste chi rinuncia a se stesso per una relazione».
La sua dimora ad Asheville è «un sogno che si è realizzato», così la descrive: «Rispetto a quando stavo a Chicago ora vivo in una cittadina, ma ci sono molti bar e ristoranti carini e io sono spesso in tour, è bello tornare ogni tanto in una dimensione tranquilla. Abito vicina all’ospedale psichiatrico dove la scrittrice Zelda Fitzgerald trascorse gli ultimi anni della sua vita, è un posto bello, affascinante, ci organizzano anche dei tour turistici». Per la cronaca, Zelda Fitzgerald, moglie di Francis Scott, è considerata una femminista ante litteram. «Ma personalmente più che di femminismo preferisco parlare di parità di diritti», chiosa la Olsen, cresciuta a St. Louis e adottata all’età di tre anni. «Sono stata un’adolescente molto creativa, ma depressa. La fase più difficile è stata quella dei 17 anni, in quel periodo morì mia nonna, mia madre si ammalò e un mio caro amico pure».
Il primo ep Strange Cacti è del 2010. Prima c’era stato un gruppo punk-rock, i Goodfight, dopo i concerti in piccoli club nella succitata Chicago, dove Angel si è trasferita a 20 anni e dove ha avuto l’occasione di cantare con Bonnie Prince Billy. Ai tempi del debutto discografico tanti la consideravano fautrice di canzoni tristi, strappalacrime, ma ora siamo altrove: in All Mirrors l’introspezione è ben presente e non si può dire che non ci sia una cupezza di fondo, ma l’evoluzione stilistica – l’ennesima per la 32enne – è evidente e ci mostra l’innegabile bravura di un’artista decisa a conquistare un pubblico più ampio. Senza snobismi di sorta. «Se si tratta di promuovere il mio lavoro vanno bene anche i social», afferma Olsen. «Ogni tanto mi sento a disagio nell’utilizzarli, ma cerco di minimizzare, di scherzarci su. Perché il punto è che sto cercando di far sentire i miei pezzi al maggior numero di persone possibile: è questo che conta, la mia musica. Ed è una musica in cui credo».