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Chi ha paura di morire? Non Sting

"57th & 9th" è il suo album più rock da anni. Nonostante un periodo di ansia e la scomparsa dei suoi idoli, dice: «Faccio davvero quel cazzo che mi pare»
Crediti: Kevin Mazur/Wireimage

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È un sabato mattina perfetto, ma Sting è sdraiato su un divano al buio, in uno studio di New York, a fare un pisolino prima di iniziare la sua giornata. Si sta ancora riprendendo dal concerto di ieri al Jones Beach Theater, in compagnia di Peter Gabriel. «Un bell’allenamento», dice. «Sono in piedi dalle 5.30. Sono figlio di un lattaio». Sting sta facendo gli straordinari per finire 57th & 9th (chiamato come l’incrocio che attraversa per andare allo studio, ndr), che l’ha fatto tornare al rock dopo decenni. «Non è un album di liuti», dice con un sorriso, un riferimento a Songs from the Labyrinth del 2006. «Non facevo una cosa così rock da tanto. È una sorta di antologia di tutto quello che sono, ma principalmente sembra aver tirato fuori un lato molto energico. Sono felice di aver issato la vela e averlo lasciato andare».

Le analogie con le barche gli vengono facili, ha passato gli ultimi anni a scrivere e recitare The Last Ship, un musical del 2014 ispirato alla sua infanzia nell’Inghilterra del Dopoguerra. Questo nuovo progetto è nato dopo una decade produttiva, a ruota libera, con un LP di canzoni natalizie, l’orchestrale Symphonicities e un tour maratona con i Police tra il 2007 e il 2008 che, dice, non ha influenzato questo album. «Quella reunion è stato un esercizio di nostalgia, puro e semplice», dice. «Un esercizio di grande successo, ma nessuno voleva che avesse sbocchi successivi». The Last Ship è riuscito ad arrivare a Broadway, ma è stato cancellato dopo tre mesi. «È stato molto gratificante vederlo arrivare fino a lì», dice. «Sono stati i cinque anni più soddisfacenti della mia vita». Dopo la chiusura dello spettacolo, Sting si è trovato con del tempo libero, una cosa molto rara per lui. «Camminavo per il parco e non vedevo molta differenza tra me e le persone senza lavoro. Certo, avevo una casa dove andare. Ma iniziavo a sentirmi in ansia».

Quindi ha deciso di seguire il consiglio del suo nuovo manager, Martin Kierszenbaum (che prima lavorava come A&R per Sting), e ha prenotato uno studio con un piccolo gruppo: il batterista e il chitarrista che lo seguono in tour, Vinnie Colaiuta e Dominic Miller, oltre a Jerry Fuentes e Diego Navaira dei Last Bandoleros, un gruppo tex-mex di San Antonio, gestiti da Kierszenbaum. Sting arrivava tutti i giorni in studio senza aver preparato niente e scriveva tutto sul momento assieme agli altri. «Alzava la tensione, ogni cosa aveva un costo», dice Sting. «Gran parte dell’album è stata fatta in maniera impulsiva», spiega Kierszenbaum, che ha prodotto l’LP. «Uno o due take. Non penso si sia dedicato così tanto al rock dai tempi di Synchronicity».

La maggior parte dell’album, dice Sting, è «sull’emigrare». Inshallah racconta la storia dei rifugiati che viaggiano verso l’Europa. One Fine Day tratta degli scetticismi riguardo al climate change. «Il più grande incentivo per le migrazioni future sarà il clima», dice: «Milioni di persone si sposteranno verso luoghi sicuri. Sono ancora triste per la Brexit, una scelta che non ha nessuna ragione sensata. Almeno l’Unione Europea ha un programma contro il cambiamento climatico». Una delle canzoni principali è 50,000, una ballad che ha scritto la settimana dopo la scomparsa di Prince. «La mortalità diventa un problema da affrontare, in particolare alla mia età – ho 64 anni», spiega. «È una mia dichiarazione che parla di quanto siamo colpiti dalla morte delle nostre icone culturali: Prince, David (Bowie, ndr), Glenn Frey, Lemmy (Kilmister, ndr). Sono delle divinità, in qualche modo. Quando muoiono mettiamo in dubbio la nostra stessa sopravvivenza. Anche io devo mettere in dubbio la mia. E alla fine c’è una rivelazione agrodolce: l’arroganza e la superbia non portano a niente».

Sting ha avuto il suo ultimo grande successo a 48 anni, con Brand New Day, con il quale ha vinto due Grammy. Questa volta, tiene a bada le aspettative: «L’industria è in uno stato di caos e di flusso continuo. Non so cosa aspettarmi. Non è come ai vecchi tempi. Il rock&roll fa parte della tradizione. Non è socialmente coesivo come un tempo». Ma proprio per questo crede che sia il momento giusto per tornare a questo genere. Spiega: «Per me, la cosa più importante nella musica è la sorpresa. Continuo a sorprendere le persone. È il mio percorso, chi vuole condividerlo con me è il benvenuto». Ride. «Faccio davvero quel cazzo che mi pare».

Questa recensione è stata pubblicata su Rolling Stone di ottobre.
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