Roma, una soleggiata domenica, ora di pranzo. Non c’è anima viva, per strada, all’ombra delle immense balconate di un quartiere residenziale che ti immagini incollato al divano, pronto per il fischi d’inizio dell’imperdibile partita di campionato. Prima di arrivare a destinazione, chiedo al tassista, di esibite origini romane, se gli piacciono le canzoni di Francesco De Gregori. «Ma che ne so io di ’sto Degregorio, ma chi è? Il cantante? Io ascolto solo Claudio Villa». Ad aprire la porta arriva lui, altissimo, magrissimo, vestito di un nero che accentua la sua figura sottile. Gentile, accogliente, mi invita a seguirlo in un seminterrato dove di solito si ritira per scrivere, rispondere alle interviste, suonare. Sul muro di una stanza campeggiano almeno quattro chitarre, al centro svetta un pianoforte a coda. Gli scaffali della biblioteca sono pieni di volumi d’arte, romanzi e guide viaggi. È iniziata a Lucca la parte estiva del tour ispirato all’ultimo album Vivavoce, nel quale ha riarrangiato 28 canzoni del passato, coinvolgendo anche Luciano Ligabue (in Alice) e Nicola Piovani (in La donna cannone).
Le continue rivisitazioni dei grandi classici, ai concerti, spesso deludono i fan…
Lo so. Io sono convinto, però, che se paghi il biglietto per andare a vedere un concerto non puoi aspettarti di sentire suonare le canzoni proprio come su disco. Non lo trovo corretto e non è quello che cerco nemmeno io quando, per esempio, vado a sentire un concerto di Dylan. Però mi rendo anche conto di aver esagerato a volte, in passato. Tutto sta nella quantità di modifiche che apporti a un tuo pezzo. Uno non può aspettarsi di ascoltare oggi Alice come nel 1990 e questo è il motivo per cui è nato Vivavoce: vedere come canto adesso i miei pezzi storici.
Dopo tanti anni, hai ancora l’entusiasmo necessario per salire sul palco?
Mi diverto molto di più, mi sembra di dominare meglio la materia, di farmi meno problemi di un tempo. Abbiamo accelerato troppo un pezzo? Non importa, ora. Poi, quando inizia il concerto, scompaiono anche tutti i fastidi legati a spostamenti, ristoranti, letti scomodi non tuoi. Forse il brivido non è più così forte come in passato, in fondo io e i miei musicisti abbiamo già suonato praticamente ovunque in Italia. Nel breve tour di sette concerti all’estero, l’anno scorso abbiamo assaporato la novità: altre lingue, altri volti e altre reazioni.
Perché non ci hai mai creduto davvero nei tour all’estero?
Perché non l’ho mai chiesto con la determinazione necessaria al mio agente. Ora è tutto diverso e ho fatto presente che voglio tornarci anche nel 2015. Anche se è costoso spostare tutta la mia band, siamo in 11, più la parte ritmica. Dal punto di vista economico è stato un salto nel vuoto, ma a Stoccarda, Londra, i club erano pieni. Certo, per il 70% di italiani immigrati e il 30% di locali. E la sorpresa è che sono stati proprio questi ultimi ad apprezzare una musica italiana diversa rispetto a quella a cui erano abituati.
Per un Ligabue, che ha basi più rock, è più semplice provare a suonare all’estero, ora?
Non credo, o almeno, anche lui mi racconta che quando è all’estero suona in posti piccoli e ha molta paura che non vada a sentirlo nessuno. Però non ho mai capito se me lo dica per modestia oppure no.
Si è creato un buon rapporto tra te e Liga dopo aver registrato insieme Alice?
Abbiamo trovato la stessa intimità che io ho con i miei musicisti e che non ho con nessun’altra persona al mondo, e che si crea nel momento preciso in cui cerchi insieme quel particolare accordo. Non c’entra niente con il desiderio di continuare a frequentarsi, di andare a farsi una pizza insieme, per esempio. Può capitare certo, ma non è quello che cerchi. Ora, per dire, ho invitato Ligabue a qualche data, vedremo se riuscirà a raggiungerci.
Ti piace suonare nei palazzetti?
Preferisco i club, perché il pubblico può stare in piedi e sbevazzare. Quindi farò sicuramente anche delle date di quel tipo, quest’anno. Non mi piace quando nei Palasport vengono messe le sedie nella platea davanti. I teatri mi piacciono di più, in Italia ne abbiamo di meravigliosi. Però devi adattare un po’ la scaletta, perché lì l’acustica è molto diversa.
Come ai tempi del Folkstudio, il locale del tuo debutto negli anni ’70…
Certo, era così bello girare per Roma in quel periodo! Forse perché ero più giovane o forse perché era una città che definirei più dolce. Comunque il Folkstudio, soprattutto nella sua prima sede di via Garibaldi e grazie al suo gestore Giancarlo Cesaroni, era un locale super vivo, dove potevi ascoltare di tutto, dal jazz alla canzone d’autore con Giovanna Marini, Matteo Salvatore, Mimmo Locasciulli, Antonello Venditti, Rino Gaetano e Gianni Togni. Ero molto affascinato dal lavoro di Ivan Della Mea, anche se avevo difficoltà a capire il suo milanese e me lo facevo tradurre da una compagna di classe di Milano. Poi, io cercavo di scrivere in modo più letterario e meno a “pugno chiuso” rispetto a lui. In quegli anni, comunque, il punto vero era un altro: o eri troppo di sinistra o troppo di destra e io non ero mai abbastanza allineato, perché tutti pensavano avessi una scrittura “borghese”. Io brancolavo, a volte scrivevo un brano che faceva ridere, altre volte uno che faceva riflettere. Ero come un bambino in un negozio di giocattoli, che non sa quanto vale lui stesso.
Ho imparato tanto solo leggendo o ascoltando,
da De André a Jannacci,
a Endrigo oppure Art Tatum
E al Folkstudio hai incontrato anche Bob Dylan?
Dylan era in vacanza a Perugia e arrivò lì una sera perché era venuto a sapere che si sarebbe esibita la cantante gospel Odetta. Comunque non suonò al Folkstudio e io non lo incontrai. In realtà, tantissime persone in seguito mi raccontarono di averlo visto… Molte più di quelle che potevano essere contenute in quel luogo.
Ma se oggi Dylan capitasse a Roma, che probabilità avresti di beccarlo per caso?
Non esco molto in effetti. Mi piacerebbe andare ad ascoltare artisti emergenti, ma non lo faccio mai. Mi piace stare in casa, oggi guardo la partita della Roma da solo, per esempio. Poi mi piacciono le serie tv. Se non ho impegni fissi, mi faccio prendere la mano e guardo anche cinque puntate di seguito, da solo o con mia moglie, di True Detective e Fargo.
Che ti piaccia o no, tu sei un maestro: che rapporto hai con l’insegnamento?
Io sento di non poter insegnare niente agli altri. Se mi chiedono come nasce un accordo io non so proprio rispondere. Nasce e basta. Così è capitato a me, ho imparato tanto solo leggendo o ascoltando, da De André a Jannacci, a Endrigo oppure Art Tatum, pianista di musica classica. Ho cercato di capire davvero il segreto grazie al quale mi commuovevano o divertivano così tanto, riascoltandoli centinaia di volte.
Fedez ha postato su Twitter un bigliettino che gli hai mandato a Natale: che cosa gli avevi scritto?
Dopo la mia esibizione a X Factor, Fedez mi aveva fatto sapere di averla apprezzata molto e nelle puntate seguenti ha speso parole molto belle nei miei confronti. Poi quando avrebbe dovuto tenere una data al Forum si è accorto che sarebbe coincisa con un mio concerto e ha detto che non solo non avrebbe voluto sovrapporsi a me, ma invitava i suoi fan a non perdersi il mio live. Non mi è mai capitato che un collega consigliasse di andare a vedere un mio concerto. Così ho deciso di mandargli una bottiglia di vino e un biglietto per ringraziarlo.
Sembra tramontata la tua immagine di uomo scorbutico, schivo, persino arrogante, di cantante che rifiuta le interviste. Ti sei rilassato?
I giornalisti l’hanno messa un po’ sul personale in questi anni. Non mi è mai andato giù che le persone possano giudicare me come persona da quel che faccio come artista. In tanti hanno pensato di conoscermi da un brano che avevo scritto, sia che li avesse fatti incazzare sia che li avesse emozionati. Poi, in effetti, ultimamente in molti mi hanno detto: com’è che sei simpatico?
Vuol dire che non te la prendi nemmeno con i fan che ti chiedono i selfie?
No, e per questo devo ringraziare solo una persona: Lucio Dalla. Quando ho fatto l’ultima tournée con lui, ho potuto vedere quanto fosse affabile con le persone, come si prestasse a qualsiasi richiesta anche quando era stanchissimo. Lui mi disse: a te non costa niente, ma magari a loro cambi la giornata. Mi aprì la mente, pensai: se lo fa Lucio, perché non posso farlo io?
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