Qualcosa di capovolgente per forza dev’essere accaduto tra i deliri alcalinici di onnipotenza di Padre, Figlio e Spirito della FSK Satellite e il nuovo Chiello di Scarabocchi. Qualcosa deve aver per forza innescato il bagno di umiltà necessario per resettare tutto, anche a costo di rinunciare a un progetto che, numeri alla mano, macinava dischi di platino. Ma che a Rocco Modello, nato a Venosa (Potenza) il 9 aprile ‘99, tutta sta storia della trap ha cominciato ben presto a stare veramente troppo stretta.
Ormai il ragazzo dai capelli ossigenati e la farfalla tatuata sulla guancia può dirsi solista dal 2021, ma qualcosa nel nuovo disco è cambiato radicalmente anche rispetto al precedente Mela marcia. Anziché rinchiudersi in un eremo mentale, lontano persino da famiglia e amici, nell’atto catartico della scrittura, stavolta ha deciso di condividere con i musicisti che sono anche una piccola nuova famiglia i suoi pensieri e le sue idee. Scarabocchi è come sempre un disco notturno, melancolico, imbevuto di un onirismo simbolista che sembra quasi arrivare da quel periodo tra la fine dell’800 e gli inizi del ‘900 in cui per la prima volta si parlava di subconscio e di “Dio è morto”.
Scarabocchi è un’altalena dopaminica di alti e bassi, di momenti euforici e buche di potenziale dove lo spleen raggiunge il livello del “uno di questi giorni mi ammazzerò”. Come nei sogni, però, tutto alla fine non è davvero reale e prima o poi ti risvegli con tanti piccoli indizi di un viaggio che potrebbero essere significativi, oppure no. Scarabocchi, appunto.
Hai deciso tu i singoli e quando farli uscire?
Sì, quasi tutti. Ho sicuramente scelto Pirati. Amici stretti non era in programma come singolo ma, siccome Pirati non l’ho mandato alle radio, il mio discografico mi ha consigliato anche Amici stretti. Io sicuramente ci tenevo molto a far uscire Pirati, infatti abbiamo fatto anche il video. Rappresenta molto il disco e il suo concept. Forse non sarà un pezzo adatto al circuito radiofonico, ma ci tenevamo a spingerlo come si deve.
Come mai Pirati è così affine al concept di Scarabocchi?
Perché c’è sempre quel tema del riconoscere se stessi attraverso il proprio passato. E comunque cercare di rimanere innocenti e bambini, avere una visione bambinesca nonostante la vita adulta ci metta di fronte delle sfide costanti da superare. Per forza di cose ci fa crescere. Io però cerco di non fare come fanno gli adulti, che cercano di controllare la propria vita, di organizzarla al millimetro. A me non piace, sono amante del caso.
Eppure in Amici stretti dici che “La strada dietro di me / Sta andando a pezzi / Non mi resta che / Andare avanti”. È difficile ancorarsi al Chiello bambino, se il passato va in pezzi.
È una metafora per dire che il passato è qualcosa di ormai distante da noi, che non puoi controllare, che è passato. Quindi non ci rimane che viverci il presente e pensare al futuro. Sto semplicemente rimanendo bambino nel presente.
Scarabocchi comunque è una parola che dai a cose di poco valore. È ormai distantissimo quel passato in cui il trio di FSK vi autoproclamavate “Padre, Figlio e Spirito”.
Sì, Scarabocchi sembra quasi una brutta parola. Mi sento molto lontano ora dalla trap, dalle cose fisiche e materiali. Sono molto più vicino a quello che faccio, al cantautorato e alla musica più introspettiva. Per forza di cose sono semplicemente cambiato, sono cresciuto un pochino. Siamo tutti in costante mutamento, no?
Il disco è una giostra di emozioni. Nel primo pezzo parli di volerti ammazzare, nel secondo invece parte uno swing tutto allegro alla Fred Buscaglione.
Perché alla fine la vita stessa è un rollercoaster di emozioni. Alti e bassi continui come spiegava Schopenhauer con la metafora del pendolo: oscilla dalla noia alla tristezza passando per un attimo fugace di felicità. Io credo in queste parole. I miei momenti di fugace felicità sono quando sto con i miei amici, quando creo e siamo in studio. Il mio team è una famiglia. E poi c’è il live, perché le persone che mi porto in studio sono poi le stesse che mi porto sul palco. Fausto Cigarini ai violini e al basso, Matteo Pigoni alla chitarra, Giulia Formica alla batteria. Poi c’è Tommaso che non mi segue in live ma che ha suonato tutte le chitarre del disco e addirittura abbiamo scritto canzoni a quattro mani. È cambiato un po’ il mio approccio rispetto ai dischi precedenti. Ho condiviso molto di più: prima invece rimanevo chiuso in casa per mesi e mesi. Uscivo solo per fare la spesa. Scrivevo da solo per mesi senza sentire nessuno o confrontarmi con qualcuno, nemmeno la mia famiglia. Invece ora molti testi e idee sono nati a casa mia ma poi mi sono confrontato anche con altre persone.
Uscivi davvero solo per fare la spesa?
Sì, ho avuto periodi un po’ così. Non mi sentivo per niente sociale. Volevo staccare. Ma lo rifarei e penso lo rifarò. A volte lo faccio e penso mi faccia bene nel momento in cui dovrò di nuovo scrivere. È una cosa molto personale.
Beh, le prime parole del disco sono letteralmente “Uno di questi giorni mi ammazzerò / Vorrei che fossi tu a trovarmi / Nudo sopra il parquet”. Mi sembra un inizio non solo molto personale, ma anche d’impatto.
Era decisamente voluto. Era la mia intenzione smuovere qualcosa nell’ascoltatore, così dall’inizio. Come se fosse un avviso: questo disco è così, se ti va di ascoltare ascoltalo. Se no, non farlo.
Juice WRLD, Nirvana, XXXTentacion, Lil Peep, i Joy Division: tutti artisti che ami e che condividono più o meno la stessa fine tragica. Coincidenze?
Sì, avevo anche fatto una canzone che si chiama Tutti i miei idoli sono morti. Ma in generale io sono affascinato dalla morte, così come lo sono dalla vita. La morte è davvero l’unica cosa certa della vita e sicuramente arriverà. Io prima voglio godermi ogni sfaccettatura possibile della mia esistenza, anche quelle brutte. In questo momento preciso mi sento abbastanza bene, sarà anche la primavera. Anche l’uscita del disco è molto liberatoria. Sono anni che ci lavoro ed è bello vederlo finito, finalmente. Festeggerò con i miei amici.
La transizione da FSK al cantautorato non è stata automatica? C’è voluto uno studio di tecnica e storia della musica?
È stata abbastanza naturale. Io non ho iniziato con la trap. Il mio primo EP si chiama Non troverò un tesoro e lo feci prima del progetto FSK. Era un disco introspettivo. Anche mentre usciva La prova del cuoco io subito dopo ho fatto uscire Acqua salata. Quindi di base non è mai stata una transizione netta. Sono sempre stato appassionato di entrambi i mondi. Prima ovviamente la trap, poi è arrivato un momento in cui non riuscivo a esprimermi più bene con la trap. Avevo bisogno di una chitarra. Ho comprato una Gibson acustica e ho iniziato a suonarla. Ora ne ho anche di elettriche. Poi, ovvio, ho anche ascoltato un sacco di musica nuova, ho studiato. Ma l’ho fatto sempre in maniera naturale.
Scelta comunque coraggiosa: con Sapobully e Taxi B avevate messo su un progetto di successo.
Verissimo. Però il successo è relativo. Per me può esserlo e per te no. E i numeri non contano un cazzo. Non è che una cosa è bella solo perché l’ascolta un botto di gente. Quando ho sentito che non mi dava più niente quella cosa, ho semplicemente fatto altro. Non ho pensato al coraggio o alle conseguenze. Non mi ricordo nemmeno quando è successo. Con gli altri di FSK comunque sono amico, ci vediamo spesso. Ho comunque avuto il timore a volte che la mia muova musica non venisse capita. C’era molta aspettativa attorno a me, su di me. Ho avuto paura di deludere le persone a me care, anche i miei genitori stessi. Per fortuna ora ho capito. Quel periodo non è stato bello perché quasi sentivo di aver perso il mio essere. Ora sono cosciente: non voglio arrivare a più persone di quante ne ho adesso. Mi piacerebbe, ma sono grato immensamente per i fan che ho adesso. La mia musica è per pochi, l’ho capito. E quasi ne vado fiero.