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Clap! Clap! ha messo in musica i nostri “ricordi liquidi”

In ‘Liquid Portraits’, il produttore fiorentino esplora le connessioni tra suoni e memoria. Qui racconta la sua storia, spiega perché i dj rischiano l’appropriazione culturale e ricorda la collaborazione con Paul Simon

Foto press

La scena elettronica italiana è il fiore all’occhiello della produzione musicale del nostro Paese, luogo sicuro in cui respirare un’aria internazionale e contemporanea. In questi mesi, da quel brodo culturale sono fuoriusciti lavori globalmente riconosciuti come Scacco Matto di Lorenzo Senni e W di Populous. Questo viaggio dentro l’elettronica italiana continua con un altro mirabile artista, Clap! Clap!, vero nome Cristiano Crisci. Fiorentino, conosciuto anche per il suo fortunato alias Digi G’Alessio, torna con Liquid Portraits, in uscita il 12 giugno per Black Acre, etichetta di Bristol. Liquid Portraits è un ulteriore passo nel racconto sonoro etnografico di Clap! Clap!, uno sguardo fluido su un altrove. In una mattina decisamente troppo piovosa di giugno l’ho raggiunto per una chiacchierata.

Come è cambiato il tuo lavoro di musicista in questa pandemia?
La mia quotidianità è cambiata davvero poco: sono molto nerd, passo le mie giornate in studio. Ho continuato a produrre e suonare avendo gran parte dello studio qui a casa. Ho anche la fortuna di avere un terrazzo. Ho patito non poter fare date, viaggiare è ciò che mi fa prendere aria. Il contraccolpo, come penso per il 98% della popolazione, riguarda principalmente la questione economica. In questo momento mi sto focalizzando sul publishing, sulle sincronizzazioni e sulle radio per cercare di far entrare due spiccioli mentre il mondo dei live è fermo. Ci si rimbocca le maniche, si fanno sacrifici e si spera che presto possa andare meglio.

La scena elettronica ha risposto a questa impossibilità attivandosi con dj set e party online. Come ti poni a riguardo?
Ho contribuito… non facendone parte (ride). Personalmente trovo un po’ noioso vedere un dj in cameretta che mette dischi per due ore e mezzo. Questo però non vuol dire che sono stato fermo. Ho preso parte a una compilation di beneficenza per lo Spallanzani (Distance Will Not Divide Us) con Populous, Indian Wells, Khalab, Lorenzo BITW e ho fatto dei mixati per delle radio così che la gente avesse della bella musica da ascoltarsi: le videocamere le ho tenute spente, ecco.

Hai avuto un percorso parecchio interessante che penso racconti bene la tua musica, una commistione di energia, entusiasmo, ricerca. Potresti fare un breve excursus?
Ho iniziato a 12-13 anni, a metà degli anni ’90, come rapper in una crew di Firenze. Attorno al 2000 ho cominciato a frequentare i centri sociali e la scena punk-hardcore. Mi ha aperto la mente. Poi ho studiato il sassofono e fondato il Trio Cane, una band che si addentrava in territori punk-jazz. Da lì mi sono sempre più appassionato al jazz e al soul, chiudendo quel cerchio e tornando alle origini dei sample campionati nell’hip hop. Dal 2006 mi sono dato all’elettronica e con Simone Brillarelli ho fondato gli A Smile for Timbuctù con cui ho fatto tanta musica di genere, dalla 8-bit, una scena (credo ora sia scomparsa) in cui si suonavano i Game Boy con le patch, allo Skweee. Anche lo Skweee è morto?

Credo di sì, ma la sua influenza la si trova nel future pop di Flume e Rustie e in parte anche in una certa euforia dell’EDM.
Vero. Quello era il periodo di MySpace. Con gli A Smile for Timbuctù siamo riusciti a fare i primi tour europei e, poco dopo, ho lavorato al mio primo progetto solista, Digi G’Alessio, che andò molto bene all’estero. Con Digi G’Alessio ho voluto – con molta ignoranza – fare un EP, Ivory, in cui campionavo tribù africane (uso questa terminologia proprio per spiegarti con che ignoranza lo affrontai). Andò male, ma mi piaceva tantissimo. Ci vedevo dell’originalità. Per questo ho deciso di lavorare a un progetto che avrebbe indagato specificamente quelle sonorità e quelle culture. Ho approfondito culturalmente questo concept e così è nato Clap! Clap!

Voglio proprio agganciarmi a quanto dicevi per Ivory per chiederti cosa pensi dell’appropriazione culturale.
Non credo esista una linea di demarcazione netta che se travalicata porta direttamente all’exploitation. È un tema in cui subentra la soggettività e che dipende da moltissimi fattori. Come ti ho detto, il mio approccio iniziale fu molto superficiale; campionai senza conoscere etnie e culture. Per questo mi sono fatto delle domande e ho capito che avrei dovuto approcciarmi con criterio, studio e conoscenza. Sai in quanti brani sono stati campionati preghiere e lamenti senza che lo stesso produttore ne fosse a conoscenza? Per me è molto grave. Quando ho suonato in Paesi musulmani, i promoter mi hanno sempre chiesto se avessi sample in cui veniva nominato Allah o Maometto. In passato sono successi dei disastri per la superficialità di alcuni dj. Molti non sanno quello che mettono. Per questo dico che bisogna informarsi, apprendere, capire. Un’altra cosa che reputo importante è il sample clearance, ovvero richiedere i diritti e pagare il giusto il prezzo per i campionamenti. È una questione di rispetto.

Arriviamo al tuo nuovo disco: qual è il concept dietro a Liquid Portraits?
Prima di Liquid Portraits, ho pubblicato due album legati alle fiabe. Tayi Bebba parla di un ritorno alle origini, mentre A Thousand Skies è un viaggio tra le stelle nelle costellazioni Tuareg e greco-romane. Liquid Portraits si discosta da quei mondi, parla del concetto dei ritratti liquidi. I ritratti liquidi hanno a che fare con ricordi e pensieri e con le connessioni che creano. Chiunque di noi ha ricordi e pensieri vividi che ritornano in superficie da luoghi che non riconosciamo. Faccio un esempio: il ricordo di un odore d’infanzia connesso all’esperienza di suonare musica con una pietra. O l’immagine di un guerriero giapponese con la sensazione di stare sdraiati davanti al fuoco. Sono unioni di immagini, ricordi, pensieri che sembrano non aver un nesso, ma che in realtà sono collegati tra loro da connessioni liquide. Sono gocce che si uniscono e creano un fiume. In questo disco ho voluto musicare questa liquidità.

Mi sembra che il concetto sia anche al centro del lavoro grafico di Ruffmercy. Com’è nata la collaborazione?
Ruff è uno dei miei artisti preferiti di sempre, ci conosciamo da tantissimo ed è da anni che volevamo lavorare assieme. Siamo riusciti a trovarci mentre stava lavorando con big come Thom Yorke e Run the Jewels. Inizialmente doveva fare solo la copertina, ma si è preso così bene che alla fine ha fatto gli artwork di tutti i singoli e i video. È una collaborazione vera e proprio piuttosto che una semplice art direction.

In Liquid Portraits mi pare ci sia anche uno spostamento da un suono più percussivo a uno più limato, educato, gentile.
Ho altri progetti in cui sfogare la mia anima più percussiva. Per questo disco ho scelto un suono più dolce proprio per rappresentare la fluidità di questi ritratti liquidi. Ho preso un anno sabbatico per studiare tutto il mondo del sound engineering, dalla conversione audio al mastering. Ho fatto miliardi di corsi e mi ci sono incaponito. Credo siano abilità fondamentali per il producer di oggi, bisogna curare il suono. Soprattutto ora che c’è l’opportunità di raggiungere certi livelli da casa. Siamo molto avvantaggiati.

Suoni il sassofono, ma ami il campionatore. In che percentuale questi due universi di incontrano nei tuoi dischi?
In Clap! Clap! l’80% dei suoni sono campionati. Il campionatore è il mio strumento. Per comporre mi preparo un loop costruito a partire da qualche sample e passo le giornate a suonarci sopra e a registrare. Faccio queste session ibride tra analogico e digitale. Dopo ore e ore di jam, passo poi giornate in post-produzione a estrapolare quello che preferisco dalla marea di suono che ho registrato. A volte invece ho fortuna di trovarmi così dentro al brano che è come se lo registrassi live.

Prima di concludere voglio tornare su è uno dei momenti più importanti della tua carriera musicale: la collaborazione con Paul Simon. Cosa ti rimane di quella esperienza?
È stata, e penso lo sarà per sempre, l’esperienza più profonda della mia carriera musicale. Pensa a che situazione surreale: un giorno mi arriva una mail di Paul Simon in cui scrive che è fan della mia musica. La mia reazione è stata: è uno scherzo (ride). Entriamo in contatto e appena lui è passato a Milano, ci siamo visti in un hotel per chiacchierare e ascoltare le demo che aveva preparato. Mi disse: «Scegline una che ti piace e prova a lavorarci». Ho scelto Street Angel. Quel giorno chiacchierammo di musica, in particolare della scena gospel di cui lui è grande fan; c’è una potenza spirituale in quella musica. Gli ho mandato quindi otto arrangiamenti differenti di Steet Angel in cui, ad ogni versione, toglievo sempre più cose registrate da lui a favore delle mie idee. Lui scelse una delle take con più interventi e mi chiese di lavorare ad altri tre brani: mi sono sciolto. A ripensarci rimane qualcosa di surreale. È stata un’esperienza unica. Mi colpì in particolare la sua umiltà: un’istituzione della musica che vive con così tanta tranquillità. Ricordo in particolare una cosa che mi ha detto: «Questo è un ponte tra la vecchia e la nuova scuola perché tutte le ricerche che ho fatto per Graceland le risento nella tua musica elettronica». Detto da Paul Simon – fanculo – è stato come ricevere una laurea.

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