Cimici, soprattutto quelle verdi e tozze.
Velluto alto sotto le unghie, specialmente quello della vecchia Fiat 132 canna di fucile di mio padre.
Carciofi cotti. Il sapore, l’odore, ma non riesco neanche a guardarli.
Ma questi tre abomini diventano una gitarella nel litorale grossetano col pranzo al sacco e visita guidata alla tomba di Ildebrando di Soana con tanto di borraccia gratuita, se paragonati a un quarto e ben più paralizzante terrore. Mi riferisco al vedermi semplificata, quando non equivocata, la poetica di Claudio Baglioni, a mani basse il mio cantautore preferito di sempre, il più complesso e materico.
Ricordo le autogestioni ai tempi del Classico. Nell’aula sulla cui porta campeggiava un foglio a protocollo con la scritta “Musica!!!” si parlava regolarmente di Gaber, Faber, Guccini, Fanigliulo e Ace of Base, e quando si arrivava a Baglioni l’etichetta appiccicata in automatico era quello del miglior menestrello possibile sì, ma di canzoni d’amore. Io ogni volta alzavo il dito per dire la mia ma senza risultati sensibili, perché era già partito il coro della maglietta fina. E io, educatamente: «Per quanto anche Fammi andar via…». «FATE TACERE IL BAMBINO CON L’ALOPECIA!», berciava il Rappresentante d’Istituto. E via col Passer domesticus Linnaeus. Il fatto è che per me l’amore nella poetica baglioniana è solo la scorza più esterna, nel momento in cui le sue canzoni raccontano molto altro, che per me è sempre stato l’Alpha e l’Omega della condizione umana, l’irrisolvibile solitudine del mortale dinnanzi al caos indeterministico e al proprio destino ultimo e mi fermo qui ma potrei andare avanti. «Opinione squisitamente tua», mi disse il Preside sgranocchiando dei cracker mentre mi metteva una nota. «Certa gente il sottobanco non se lo merita», bofonchiò il bidello smontandomelo di sana pianta.
Nei decenni che sarebbero venuti, non potendo averci a che fare direttamente, ho sempre cercato conferma delle mie teorie nelle interviste che Baglioni rilasciava, ma ho sempre avuto l’impressione che le domande delle stesse fossero scritte da quelli dell’autogestione del Liceo Classico, giusto per farmi impazzire un quarto di secolo dopo, tipo Cassavetes alla Farrow in Rosemary’s Baby, tutto questo nonostante io oggi sia diventato qualcuno (sarei console).
Quando un anno fa mi fu proposto di scrivere per Rolling Stone, ho accettato di buon grado fingendo che la cosa mi facesse piacere. In realtà il mio unico scopo era arrivare a questa intervista. Per sapere la verità dovevo chiederla direttamente a Claudio Baglioni.
A mio avviso nessuno come lei ha saputo cantare la transitorietà dell’amore e i cosiddetti “sentimenti blu”. Gli amori non corrisposti, quelli finiti troppo presto o finiti semplicemente così, un giovedì mattina qualunque al tavolino di un bar. La crudele entropia del tempo che porta a non sopportare dopo una vita la persona che amiamo, mentre l’amiamo. E poi la solitudine, l’illusione e subito dopo il disincanto, lo scollinamento dei trent’anni, l’acquiescenza del vivere. Mentre la via più popolare e facile nella musica italiana pare invece essere quella di cantare di sentimenti astratti e fatti di parole che, semplicemente, stanno bene nelle canzoni. È stata difficile per lei questa scelta contraria e verista? Ed è stata una scelta?
Una scelta di linguaggio, sì. Una decisione, ogni volta. Una, evidente, è maturata al mio secondo album, in cui già combattevo per cercare di mettere insieme le due materie: quella dei suoni e delle note con quella dei fonemi e delle parole che devono formare delle frasi di senso compiuto. Fu lì che mi accorsi che non era un semplice esercizio o, peggio, una sorta di riempitivo ma che, all’interno dei testi delle canzoni, c’era la possibilità di raccontare e raccontarsi. Di trasmettere. E, allora, pensai di affrontare la lingua come se venisse su dalla strada, come se fosse già stata formata, come se già esistesse. Più guizzante, più autentica. In altre vicende professionali, ho fatto scommesse e puntate diverse. Senza essere mai certo di aver vinto. Scommettere, comunque, pur di non smettere di trasmettere.
Quanto all’amore, è transitorio per natura. La nostra, però, non la sua. Siamo volubili. E un po’ troppo superficiali. E confondiamo quasi sempre amare con possedere. Io lo vedo più blu che rosso. Più struggimento che gioia, intendo. Credo che ci inganni il fatto che, per definirlo, abbiamo una parola sola. Greci e latini ne avevano molte di più. Una grande ricchezza persa per strada. Non crede anche lei che questo impoverimento del linguaggio denunci un certo squilibrio di valori? Viviamo qualcosa che conosciamo e capiamo pochissimo. E, così, la parola amore finisce coll’assomigliare a uno di quei bauli che gli attori usano per portare in tournée, e talvolta persino sul palco, i propri abiti di scena. Una sorta di medley di passioni molto dissimili, spesso contrastanti e quasi sempre laceranti. Non c’è una via facile per cantare l’amore. Cerchiamo di avvicinarci per approssimazioni successive, senza mai arrivare a coglierne davvero il senso. E il suo cuore più nascosto.
Forse questo impoverimento linguistico denuncia semplicemente una pigrizia, una tendenza ad appiattire ciò che è troppo complesso e non si vuole o non si hanno gli strumenti per spiegare. Per esempio, lei è un cantautore di grande successo, ma a volte trovo venga equivocato. Chi non ha approfondito la sua poetica la racconta in una maniera diversa, spesso opposta a quello che in effetti è, quasi sempre semplificata. Ha mai sofferto di essere a volte appiattito ad un cliché?
Penso che qualsiasi autore, prima o poi, soffra il fatto di essere non capito o venire equivocato, scambiato per qualcun altro, analizzato poco, male o in maniera non esauriente. Semplificazioni e generalizzazioni accadono in qualsiasi ambito e feriscono qualunque storia, e il fatto di essere riconosciuti o riconoscibili solamente e parzialmente per qualcosa o per sentito dire è, certamente, una sofferenza. I cliché appiattiscono. Tutto e tutti. Oggi, che ci siamo ridotti a un vocabolario di cento parole per usarne dieci, i luoghi comuni soffocano più di ieri. C’è stato un tempo – mi riferisco, in particolare, alla seconda parte degli anni ’70 – nel quale i cliché avevano radici ideologiche. Il conflitto – duro, violento, spesso drammatico – era conflitto di culture. Si scontravano due visioni della Storia, del mondo, del futuro. Oggi mi sembra che il conflitto sia ancora più assurdo, in quanto figlio soprattutto dalla mancanza di cultura e della pretesa che le nostre convinzioni personali siano verità assolute alle quali tutti gli altri si devono uniformare. E, il più delle volte, si finisce per tracciare commenti, pareri, giudizi su persone e cose che si conoscono appena o per niente. Sugli artisti, in particolare, pesa il fatto, inevitabile, di essere oggetto di definizione. Non vorremmo mai essere finiti e definiti ma essere infiniti. E, dunque, abbiamo fastidio e insofferenza per qualsiasi didascalia che, in quanto definitiva, è un po’ come una sentenza, un epitaffio e quindi una morte.
Io penso che il suo raccontare le dinamiche dei rapporti d’amore sia in realtà una scorciatoia per arrivare a raccontare la condizione di noi mortali, la solitudine dell’Uomo mentre galleggia nello spazio profondo di Gagarin, senza appigli né soprattutto la certezza di un finale lieto. Penso ad esempio a una canzone come Io non sono lì, dal suo ultimo disco In questa storia che è la mia, che racconta attraverso brevi diapositive il distacco fra due amanti e la vita percepita e immaginata dell’altra persona ormai lontana. Penso che quello che rende dolorosa la fine di un amore non sia tanto la fine in sé, quanto la consapevolezza che non abbiamo tutto il tempo del mondo per ritrovarci e stare insieme. Per me quella canzone parla anche, senza citarlo mai, del tempo che passa impietoso mentre aspettiamo certi allineamenti astrali per ritrovarci. Sono fuori strada?
È così. L’ansia, che sfocia perfino in angoscia, più che nella sospensione di una relazione amorosa e nella solitudine che ci torna accanto, come consorte di sempre, sta nel sospetto che non ci sarà un’altra occasione, mai più un nuovo appuntamento. E quasi sarebbe meglio non trovarsi mai per non perdersi poi. Molte delle cose che ho scritto, se non tutte, parlano del tempo, perché è il compagno di viaggio di tutta la vita. E anche quello che ritorna, attraverso i ricordi e i quadri del passato. E, tutto sommato, è quello che si prefigura e si paventa nelle scene dell’avvenire: un orizzonte che si accorcia ogni giorno di più. Un tempo che è così presente ma altrettanto assente; che non si riesce mai ad afferrare e non ha contabilità. Un tempo che non tornerà mai più in quel modo in cui è arrivato ed è stato. E chissà se noi saremo ancora abbastanza giovani per un altro tempo di amore, per le cose, per le persone, per noi stessi?
Questa riflessione sul tempo mi fa pensare che nelle sue canzoni io non avverto mai una comunione del tutto pacificata fra l’Uomo e la Natura. È appunto più spesso una Natura crudele che ci fa invecchiare “con una piccola busta della spesa” in mano, che ci rende coscienti della nostra soccombenza e non ci risparmia dolore e umiliazione, mentre noi cerchiamo di restare a galla strappando attimi di felicità mentre ci consumiamo come cerini. “L’unica paura del futuro è di non esserci”. Credo che questo verso sia molto eloquente.
Temo che siano l’usura dei giorni e la perenne lotteria dell’aspettativa di gioie e felicità a scoraggiarci la speranza. “L’unica paura del futuro è di non esserci” è una frase che si scrive a un certo punto della vita, in una fase anagrafica più matura. Perché misura l’ingiustizia del futuro, la non eternità dell’avvenire, il limite, la data di scadenza. E, naturalmente l’età. Una condizione che ci fa assistere allo spettacolo dell’Universo e vivere il confronto con quello che c’è intorno – tutto quello che possiamo chiamare Natura, scenario e svolgimento naturale degli eventi – a volte senza capacità, in maniera imbelle ma, soprattutto, inermi di fronte a tanto accadere; un accadere che è assolutamente superiore alle nostre forze, per quanto grandi possano essere. Ma non più grande delle nostre illusioni quando chiediamo tempo al tempo.
A un certo punto della sua carriera ha deciso di spostare lo sguardo dall’uomo visto a ridosso, all’umanità vista da più lontano, a volte anche per astrazione, con saltuari ritorni al diorama del qui ed ora, come in certe canzoni dell’ultimo disco. E non c’è mai misantropia nel suo sguardo, ma sempre umana pìetas. Che ne pensa dell’Uomo?
La marcia e il traguardo di un artista – timido o esibizionista che sia – sono quelli di vincere, eventualmente esistesse, la sua misantropia, quel distacco che non lascia dubbi e sofferenze, che non ti fa mischiare con il resto. Andare incontro a qualcun altro è un cammino continuo, un percorso zigzagante. Il tentativo è quello di cercare di essere qualcuno per qualcun altro, di essere, in ogni modo, speciali, di offrire qualche momento di sorpresa, meraviglia e stupore in questa clamorosa avventura dell’esistenza. Cosa pensare dell’Uomo? Strugge, soprattutto, il nostro commovente e quotidiano sforzo del vivere, cercando un senso nei gesti, nelle azioni, nelle aspirazioni, nella commissione di dare compimento e compiutezza all’impresa di ogni giorno. E osservare, da fuori, quei processi di annientamento autodistruttivo che rasentiamo e in cui cadiamo per poi risorgere, passando dal sentiero verso il nulla ad un riscatto e un colpo di reni per un’ascensione in volo.
Il suo ultimo disco è, a distanza di trent’anni da Oltre, un doppio album. È percepibile la sua urgenza comunicativa. Lo dicono le canzoni piene di parole e sempre nuove da strofa a strofa. Lo dicono i suoi dischi pieni di musica fino all’ultimo minuto di capienza. Credo che questo rappresenti quasi un unicum nel cantautorato italiano, spesso invece molto snob e reticente. Da cosa nasce questa urgenza?
Credo che, se i miei concerti sono così lunghi da mettere a dura prova la resistenza di spettatori e musicisti, lo si debba al fatto che io considero sempre miracoloso che qualcuno decida di privarsi del suo tempo per regalarlo a te, spendendolo per le cose che tu gli stai proponendo. E, quindi, anche l’abitudine di mettere negli album tutto quello che hai, facendoli diventare i più contenenti e rappresentativi possibile, probabilmente deriva dal fatto che il successo mi è venuto a prendere nel momento nel quale avevo cominciato a pensare che non sarebbe mai arrivato: che il successo non sarebbe successo. Ho la sensazione che tutto quello che è avvenuto dopo, nella mia carriera di musicista e nella vita, corrisponda al bisogno di fare tutto il possibile per meritare tutto questo successo: avere una sorta di certificazione del merito, il riconoscimento di aver costruito delle cose buone, di aver dato il massimo e il meglio. Un po’ come sperare di prendere sempre un voto alto dopo ogni interrogazione. Un bell’elogio a fine recita.
In questa storia che è la mia è un disco molto suonato. Acustico, tridimensionale, dal suono palpabile e molecolare. Mi chiedo quanto questa scelta nasca per un ritorno al passato e quanto come contrapposizione a molta musica contemporanea che scala le classifiche, spesso contraddistinta da una composizione e da un sound piatti, asfittici, quasi sbrigati di fretta perché totalmente ininfluenti alla resa mediatica del disco, che sempre meno nasce dalle sue proprie qualità.
È un disco che ho definito “un album fatto a mano”, nel quale il senso del suono, il sound, è fisico non solo nelle timbriche degli strumenti ma anche nella cura delle parole: quasi un’orchestra ulteriore di fonemi che possano dare, oltre al significato che portano in dote, anche un significante, vale a dire un’emozione fisica, constatabile, tangibile. Ma c’è anche la ricerca di quell’energia particolare che è racchiusa nello spirito degli inizi, quando uno comincia e scrive come un torrente in piena: tre o quattro canzoni al giorno, senza fiato, con un bisogno continuo di uscire fuori, di liberarsi di tutte le bucce nelle quali ci avvolgiamo e ci avvolgono. E poi ho pensato a questa realizzazione come a una sorta di assemblea, con unità di tempo e di luogo, nella quale ci sono altre mani, altre dita, altri occhi, altri cuori, altre menti che giocano a suonare e a creare. Ma anche per dare quella gamma dinamica che solo un’esecuzione fatta “umanamente”, alla vecchia maniera, insomma, può dare. Forse è un tentativo di recupero e pure un’opzione per domani; un biglietto per un prossimo viaggio. E, sotto sotto, una forma di piccola ribellione nei confronti di un periodo come quello in cui viviamo, nel quale l’espressione viene schiacciata in favore della comunicazione. Qualcosa che si fa e va perché esiste e basta, non perché sia frutto di un pensiero, di un lavoro, di una fatica, e di tutto l’assortimento di qualità e categorie sentimentali alle quali si attinge per tutto il tempo in cui un album viene pensato e realizzato, in assenza di pubblico. Con un dialogo sfalsato e, a volte, falsato dal gap temporale tra proposta e riscontro. Tra il «ti piace?» della domanda e il responso di chi ascolterà.
Immagino che proprio questo lavoro meticoloso e artigianale sulla canzone le abbia permesso di realizzare melodie che sono spesso bigger than life. Penso ad Avrai, che riuscirebbe a toccare corde intime e ancestrali anche con un testo che parla di tutt’altro. Quella melodia, anche senza parole, è evidente che racconta la vita in tutta la sua anche drammatica magnificenza. Domanda inevitabile: nelle sue canzoni nasce prima la musica o prima le parole?
Le mie canzoni, nella quasi totalità, sono nate prima con il loro tessuto musicale; con la melodia, che è la stella polare, la cometa da inseguire, l’oro da cercare nella miniera delle suggestioni, e tutte le altre melodie che vanno a fondersi nella parte armonica, nei contrappunti, nelle orchestrazioni, negli arrangiamenti. Considerare la musica come qualcosa di metafisico, di astratto, eppure così commovente, affascinante, trascinante, che sa rapinare il cuore e l’anima, anche senza dover raccontare per forza qualcosa. E poi, cercare nella materia delle parole, di trovare altri suoni, perché tutto contribuisca allo scopo, all’ispirazione e alle intenzioni che ci sono a monte. Il fatto curioso è che poi, spesso, dopo aver scritto la parte musicale, quando si tratta di cucire insieme quelle parole, mi trovo a vivere dei momenti di grande fatica, e spesso di autentica pena. Talvolta mi sembra di vivere quasi una condizione da schizofrenico, nella quale, prima, sono un musicista compositore e, poi, un paroliere, un autore di versi che, però, è differente dal primo, come se ci fossero due individui distinti e distanti.
Nell’album Io sono qui lei cita Dylan Dog. Nella storia breve Le vie dei colori, lei e l’Indagatore dell’Incubo vi incontrate. Il primo copertinista della serie, Claudio Villa, disegnava Dylan Dog con fattezze simili alle sue. L’albo Il lungo addio potrebbe averlo scritto lei. Ho sempre trovato l’Io narrante di molte sue canzoni molto affine alla sensibilità sclaviana. È un’impressione solo mia?
No. Molti hanno riscontrato questa assonanza con il personaggio di Dylan Dog e con il suo creatore Sclavi, che ho conosciuto anni fa, con Claudio Villa, proprio in occasione del progetto de Le vie dei colori. C’è un rapporto affine con un mondo favoloso che ho abitato da bambino. Sia, essendo figlio unico, nei tanti pomeriggi passati da solo a fantasticare mondi e storie; sia nei soggiorni dai parenti umbri, nelle campagne di ombre e di sole, preso a giocare e immedesimarmi in una specie di eroe investigatore, un ricognitore, un indagatore come è Dylan Dog e altre leggende e miti che, proprio per questa loro vocazione a cercare e perlustrare spazi e dimensioni inesplorate – reali o immaginarie, fisiche o psicologiche – non muoiono mai e continuano a vivere nei cuori e nei racconti della gente.
Questo fantasticare di mondi e storie lo rivedo anche nel modo in cui scrive le sue canzoni, che sono sempre molto visive, spesso sembrano dei cortometraggi in musica. Da Lampada Osram a Fotografie passando per Quei due, ’51 Montesacro o 21X. Quali sono i registi che ama? Io trovo tante consonanze fra la sua musica e il cinema di Pupi Avati…
In effetti, le descrizioni che uso in alcune canzoni sono state accostate spesso a uno stile visivo o, addirittura, cinematografico. Sono molti i cineasti che ammiro. C’è Pupi Avati, certo – che, tra l’altro, è anche un ottimo musicista. Ma ci sono anche altri autori italiani come Tornatore, Salvatores, Muccino, Sorrentino, Garrone e Terry Gilliam (che, anche se non è italiano, vive gran parte del suo tempo in Toscana) perché, sebbene abbiano linguaggi sensibilmente diversi, sembrano avere in comune la dimensione della cattura del sogno e della partita eterna e conflittuale tra realtà e visionarietà.
A proposito di visionarietà, quanto per lei è una forza e quanto una zavorra per affrontare il dolore della vita, per gestire le tante sfumature della parola fine? Io, figlio unico come lei, ho sempre pensato che la forza dell’immaginazione fosse quasi sempre una risorsa. Col tempo credo però che contribuisca a rendere il dolore della vita ancora più vertiginoso. C’è chi si accontenta e si sente rassicurato da sciarade tipo che vivere per sempre sarebbe una noia, che la morte rende la vita più eccitante, che se non esisti più non te ne accorgi o che la fine di un amore è una grande occasione di crescita. Penso che la forza dell’immaginazione spazzi via in un attimo questi confetti di consolazione e ci sbatta in faccia, cruda e scarnificata, la semplice immagine di come l’esistenza avrebbe potuto essere. Un mondo coi nostri genitori sempre giovani. Col pigiama della donna che amiamo per sempre sul termosifone. Uno split screen vivido, impietoso e insopportabile.
Scoperta, conoscenza e immaginazione ci portano verso bellezza e arricchimento ma anche dolore e sofferenza. Non c’è consolazione alla sottrazione delle vite di coloro a cui abbiamo voluto bene. La vita non è un viaggio in tram in cui si sale, si va, si scende tutti insieme dall’inizio fino al capolinea. Non si può ammettere questo asincronismo delle esistenze. Non sapremo mai quello che saremmo stati. E s’impara poco e nulla da un tormento o da un patimento. Si va avanti, provando, per quanto sia possibile, a non pensarci. Ad accontentarci del “così va per tutti e non si può altro”. Quando, invece, l’immaginazione, da semplice e ingenua fantasia, si eleva a ispirazione, aspirazione, ipotesi, convincimento e, persino, fede, allora, anche solo per un attimo, crediamo che un giorno ci ritroveremo e il bene colerà, come un unguento, su tutto il male che ci ha tagliato. Tutto tornerà dove e come era. E per sempre.
Tornando invece alla gravità del reale, nei suoi testi, specie quelli prima di Oltre, questa ci arriva attraverso una moltitudine di oggetti e feticci, come fossero mozziconi di terragna quotidianità a cui aggrapparsi. Bastano una schedina, un carillon, un triciclo o una rassegna dei film di Totò per evocare stupore e quello che era il sense of wonder. Secondo lei è possibile ancora oggi il sense of wonder?
Proprio in Oltre, nella canzone Acqua dalla luna cantavo che avrei voluto essere un grande mago, incantare le ragazze e i serpenti, dar meraviglie agli occhi dei presenti, avvitarne il collo e togliere loro il respiro. Per un artista, quella di incantare dovrebbe essere la missione di una vita. Qualcuno ritiene che, oltre a cantautori, potremmo essere anche in-cantautori. Alla ricerca di un incanto da offrire. E magari da vendere all’incanto, all’asta degli spettatori convenuti. Qualche volta, magari, non abbiamo abbastanza gambe per andarlo a stanare, ma quella di riuscire a scovarlo e farlo nostro, per poterlo fare vostro, è la speranza che ci anima ogni volta che ci mettiamo a caccia e al lavoro. Pur sapendo che il sense of wonder ha un mistero originale inarrivabile. Come si può competere con la suggestione mistica di quando hai visto per la prima volta il mare o giocato con la neve appena scesa?
Mi vengono in mente certe immagini evocate da La nevicata del ’56 di Franco Califano, che per me è l’unico, insieme a lei, che ha saputo raccontare in maniera così efficace la vita nel suo eterno making of. Un altro che ha dato la precedenza alle scene tagliate rispetto ai ciak buoni. Ha un ricordo di lui?
Più di qualcuno, in realtà. Uno di quelli ai quali sono più legato riguarda la Vigilia di Natale di alcuni anni fa. Vengo a sapere che il Califfo è a casa agli arresti domiciliari. Per dei fatti ai quali sarebbe, poi, risultato estraneo. Con un amico, decido di andarlo a trovare con una bottiglia di spumante, per quattro chiacchiere in compagnia. Suono il campanello della villa di Primavalle e si accendono una luce abbagliante e una sirena. Non sapevo che bisognasse avvertire la Polizia. Riconoscimento. Spiegazioni. Alla fine, entro. Un abbraccio, Come stai?, un brindisi, buon Natale. Qualche commento, silenzi, sguardi d’intesa, un altro cincin. «Ciao. Ci si vede presto». «Sì, ci si vede». Mi voleva bene e anche io gliene volevo. In un concerto, accanto alle sue canzoni, mise anche la mia I vecchi. Allora, ancora giovani, la cantavamo per gli altri. Il tempo va per tutti e per tutti c’è un tempo. Ma gli artisti sono esseri strani, che non vivono mai veramente così come non muoiono mai. Con queste parole l’ho salutato il giorno in cui se ne andò. E adesso lo saluto ancora, da qui. Intanto ciao Franco. Tanto prima o poi ci si vede.
Una curiosità: si trovano pochissime informazioni in Rete su Pompeo De Angelis, il copertinista del disco Questo piccolo grande amore. C’è uno scrittore e storico ternano con lo stesso nome, ma chissà se è lui. Lo chiedo a lei. Magari c’è una storia bella dietro…
Pompeo De Angelis è una persona rara e speciale. Una di quelle che, all’inizio della mia carriera, ha dato il giusto indirizzo ad alcuni miei progetti importanti. Scrittore, sceneggiatore, regista, disegnatore, uomo poliedrico con tanti talenti da spendere. E molti ne ha spesi, infatti. Abbiamo scritto insieme un libretto di un musical che poi non vide mai la luce, perché tutti i temi diventarono le canzoni che sono contenute nell’album E tu. Ha disegnato, in tempi rapidissimi, la seconda copertina – quella che poi sarebbe diventata ufficiale – di Questo piccolo grande amore. È stato l’ideatore di una trasmissione tv, Speciale 3 Milioni, che si teneva in giro per l’Italia, con musicisti, cantanti, filosofi, scrittori. In ognuna delle tappe, si sceglieva un tema e se ne discuteva, ognuno portando il contributo della propria sensibilità, musicalità, cultura. Con Pompeo, girammo un lungometraggio, anche quello mai pubblicato, che raccontava la storia di Gira che ti rigira amore bello, con scene ambientate in gran parte a bordo della Camilla – la mia due cavalli – e girate tra le strade e le campagne della bassa Umbria, della quale lui era originario, come anche parte della mia famiglia. Una sorta di Easy Rider all’italiana; un viaggio on the road, che poi era il tema dell’album, al termine del quale ci fu il gesto abbastanza sensazionale dell’incendio della Camilla, in una radura di campagna, come a simboleggiare la fine di un’epoca avventurosa e spensierata. E poi rammento mille viaggi con lui, a parlare, inventare, conoscere, scoprire: era un uomo ancora giovane eppure sembrava che avesse vissuto tantissime vite e possedesse tanti saperi.
Domanda squisitamente egoistica: c’è speranza per una ristampa su CD suo raro triplo disco Incanto tra Pianoforte e Voce?
Da un concerto molto “singolare” – anche per il fatto che ero da solo su un palco, davanti a un pianoforte, che fu il co-protagonista di settanta rappresentazioni in altrettanti teatri di tradizione, teatri all’italiana – venne fuori un album, chiamato Incanto tra Pianoforte e Voce, che immagino sia ancora nelle disponibilità ma sarà mia cura vedere se fosse possibile ottenerne una ristampa. Sarebbe l’occasione anche per me di riascoltarlo. Non l’ho più fatto da allora. Come per tante delle mie registrazioni.
Se oggi prova a immaginare il suo prossimo disco (che magari è in fieri), che colori pensa che avrà?
Non è facile immaginare e dare forma a un prossimo disco, perché, con il tempo, la frequenza delle pubblicazioni comincia a diradarsi. Questo mio ultimo album è uscito a sette anni di distanza dal precedente, forse perché si ha un po’ meno da dire o forse perché, quello che si ha da dire, si cerca di dirlo nel miglior modo possibile. Prevedere, addirittura, che colore possa avere è difficilissimo. Ogni volta si parte dal bianco, dal vuoto, da quello che non c’è; il foglio dello scrittore, la tela di un pittore, la pietra di uno scultore, il silenzio di un compositore. Se potessi, mi augurerei di avere vicino, a disposizione, quello che, quando ero bambino, era uno dei miei regali preferiti: una scatola di matite colorate. Più era grande, più sapevo che per mio padre era stato un sacrificio, perché costava di più, e più progettavo disegni fantastici, per ricambiarlo. Ecco, mi piacerebbe che il prossimo album avesse tanti colori. Tutti i colori, magari. Per potermi vantare di avere scritto, suonato e cantato note e parole di mille tinte, vernici, policromie. Di averne fatte di tutti i colori.