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Colapesce e Dimartino a Sanremo 2023 per «riattualizzare il cantautorato senza sembrare De Gregori nel ’74»

Vanno al festival con ‘Splash’, un pezzo tratto dal loro film ‘La primavera della mia vita’. Non è una ‘Musica leggerissima 2’ perché «diventare la copia di se stessi è imbarazzante». E comunque «a Sanremo rischi solo se hai una canzone di merda». E loro non ce l'hanno

Foto press

Con Lorenzo (Colapesce) ed Antonio (Dimartino) un po’ ci si conosce, e sapendo che persone siano ci si può insomma anche permettere di essere un po’ diretti: ragazzi, sinceramente, non è che tornare a Sanremo possa essere un errore? Glielo chiediamo, sì. E subito. Senza girarci attorno. Perché Musica leggerissima era stata un’operazione perfetta: perfetta la canzone, perfetto il loro modo lunare di presentarsi, perfetto il modo in cui hanno giocato-non-giocato con tutto ciò che è Sanremo, considerando le loro intenzioni e – questione non secondaria – il loro background realmente e fieramente indie. Tornare sul luogo del delitto non è per caso un rischio? Il rischio di sporcare un’operazione che, appunto, due anni fa è stata perfetta? E che ora invece chissà che esito avrà, chissà se sarà altrettanto a fuoco?

«Rischi solo se hai una canzone di merda. Se la canzone non è di merda, secondo me non rischi mai», risponde sornione Colapesce. E prosegue: «Noi di Splash, il pezzo che portiamo quest’anno, siamo molto convinti. Al cento per cento. Se poi sarà un qualcosa in cui si identificheranno in sei o in centomila, a un certo punto esce dai nostri compiti e dalle nostre responsabilità. Il nostro compito è fare canzoni. Possibilmente belle. Il resto, non lo decidiamo noi».

Brillante e diplomatica risposta, ma forse non basta ad esaurire l’argomento. Insistiamo: ma quindi presentarsi a Sanremo è diventata una cosa da fare fra tante, senza pensarci o preoccuparsi troppo, o resta una scelta con un peso specifico particolare? Dimartino prende in mano la conversazione: «Una cosa da fare fra tante no, quello no. Anzi: se per molto tempo Sanremo è stata snobbata da una non piccola parte della scena musicale nel suo insieme, oggi forse si può dire che è l’unica manifestazione davvero importante in cui possa essere messa un po’ di luce sopra le canzoni, sopra l’arte di scriverle. Io e Lorenzo siamo convinti che Splash sia una bella canzone e, soprattutto, che ci rappresenti. Esattamente come due anni fa sentivamo che ci rappresentasse Musica leggerissima. Anche in questo caso, è una traccia con diversi possibili livelli di lettura. E abbiamo l’impressione che possa “parlare” a molte persone. Molte delle persone a cui l’abbiamo fatta sentire ci hanno infatti detto “È come se mi parlasse, se parlasse di me…”. Penso sia un buon segno».

E fin dall’inizio avevate capito che era una canzone speciale, particolarmente forte e rappresentativa? «No, è una sensazione che ci ha messo un po’ di tempo a maturare», spiega Colapesce. «Come forse già sai, il 20 febbraio esce il nostro film e Splash ne faceva già parte, l’avevamo messa nei titoli di coda e ne avevamo usato pure alcuni temi in un po’ di scene e, in generale, è una traccia molto coerente rispetto all’immaginario appunto del film stesso. E allora, senza fare troppo i romantici: il 20 febbraio esce il film, due settimane prima c’è Sanremo, abbiamo questa canzone che ci piace e che ci rappresenta: come non mettere insieme le cose? Era una occasione forse irripetibile. Anche perché, chissà, può essere che un film non lo faremo mai più. Però ecco: avevamo l’occasione di essere su uno dei palchi più importanti d’Italia, con qualcosa che sentiamo molto nostro e che al tempo stesso introduce perfettamente ciò che sta per uscire nelle sale. E riguardo al fatto dell’essere paragonabile a Musica leggerissimaMusica leggerissima, guarda, non è più nostra. Ormai è una canzone che ha vita propria. Fa quello che vuole. È adulta, vaccinata. Oddio: vaccinata non so, di questi tempi…», e parte la risata, ovviamente. Per poi concludere tornando serio: «Vivere perennemente attaccati a qualcosa che in passato ti è riuscito bene è, artisticamente parlando, la cosa peggiore che tu possa fare».

Rincara la dose Dimartino: «È la prima cosa che ci siamo detti quando abbiamo iniziato a scrivere: non facciamo una Musica leggerissima 2. Io odio tutti quelli che fanno una cosa buona, e poi cercando di ripeterla finché continua a funzionare. Diventare la copia di se stessi trovo sia una delle cose più imbarazzanti in assoluto». «Ed è una cosa molto italiana», salta su Colapesce, «Una cosa funziona? Bene, la reiteri all’infinito. Fino a quando la gente non ti manda a cagare. Dopodiché, scrivi una canzone amara sul fatto che la gente ti ha mandato a cagare…». Una pausa, per poi aggiungere: «Non mi ricordo chi l’ha detto, ma in effetti è vero che un artista, qualsiasi artista, alla fine nella vita riesce a fare solo due o tre cose al massimo per cui viene ricordato. Sì, solo due o tre. Ma anche un Lou Reed, eh!, per dirti uno che amo tanto. È tristissimo da dire, ma è così. Il che non significa che tu non ti sbatti in ogni singola cosa che fai, ovviamente. So quanto per Antonio sia importante il suo primo disco, o per me lo sia Un meraviglioso declino, e sempre pensando a me, una traccia come Bogotà è importante tanto quanto Musica leggerissima, io le metto come minimo sullo stesso piano, capisci?, eppure è quest’ultima ad aver lasciato molto più il segno. Però vedi: queste sono dinamiche che vanno al di là del controllo di un artista, completamente al di là. Soprattutto se l’artista in questione non è pop».

E voi, voi non lo siete? Non lo siete diventati? Colapesce, subito: «No». No? Davvero? Sicuri sicuri? Pausa. «Cioè, boh, se succede… Però di sicuro non ci vedrai mai andare in palestra per poter diventare più pop». Mai? «Mai». Dimartino prende la parola, approfondendo il concetto: «Quando decidi tu consapevolmente di voler andare verso il pop, anche se arrivi da altrove, è alto il rischio di diventare ridicolo. Come un vecchio che prova a vestirsi ed a parlare da giovane, non so se mi spiego. Cioè, vedi il pop, improvvisamente lo vuoi, e fai di tutto per inseguirlo, assecondarlo. Io però credo che di tutto questo la gente se ne accorga. Non è vero che il pubblico non sia in grado di distinguere ciò che è autentico». Qui Dimartino si ferma un attimo, per poi riprendere con ancora maggior convinzione: «Noi sempre più spesso lo sottovalutiamo, il pubblico, perché magari ora che grazie ai social è sovraesposto da un punto di vista mediatico – chiunque può esprimere una opinione e farla circolare, no? – ci siamo fatti l’idea che sia sostanzialmente stupido. Ma io non credo che sia così. Non credo sia così ottuso o condizionabile. O almeno, in maniera magari anche solo quasi inconscia credo che ancora adesso le persone riescano a distinguere piuttosto bene ciò che è autentico da ciò che non lo è: premiando il primo, bocciando il secondo». Chiosa importante di Colapesce su questo discorso, con Dimartino che annuisce subito vigorosamente: «Attenzione, però: autenticità non vuol dire qualità. Sono due componenti indipendenti fra loro».

Torniamo nello specifico a Splash. Come è stata costruita? Da cosa siete partiti? Dimartino: «Siamo partiti dalla frase “Ma io lavoro per non stare con te”. È stata lei il nucleo iniziale della canzone. È una frase talmente potente… Credo rappresenti davvero l’essere umano in questo momento storico, nella nostra società. Ad ogni modo Splash, come spesso ci succede, ha avuto una gestazione piuttosto lunga. È una canzone molto ragionata. Molto discussa fra noi. Sai, noi due siamo un po’ come Camera e Senato, prima di promulgare una legge devi trovare un accordo e passare da infinite discussioni. Di sicuro siamo molto contenti di aver costruito qualcosa che, ci sembra, racconta molto bene l’attuale periodo storico. Che è quello che dovrebbero fare i cantautori. Solo che…». Solo che? «Mi sa che con te ne avevamo già parlato in passato, sbaglio? Pare quasi che oggi i rapper siano gli unici titolati a rappresentare la realtà. Ma non vedo perché debba essere lasciata a loro e solo a loro questa funzione. I cantautori, oggi, dovrebbero avere l’obbligo di raccontare la realtà: facendolo attraverso i propri occhi da persona quarantenne, e con un certo tipo di background musicale. Mentre invece cosa succede? Succede che ci ritroviamo ad aver delegato il racconto della realtà ad un genere musicale che ha un chiarissimo background americano e che nasce, quindi, da un tipo di società molto diverso da quello italiano. Il cantautore potrebbe raccontare il mondo attraverso il proprio essere nato qui, il proprio aver attraversato anche gli anni ’80 e ’90, il proprio aver vissuto e capito tutta una serie di cose di politica, di società. Noi, quando scriviamo, mettiamo dentro tutto noi stessi e tutte le nostre esperienze. Questo te l’assicuro».

Aggiusta un po’ il tiro Colapesce: «Sia chiaro, non è che una cosa escluda l’altra, non è che ora si debbano abolire i rapper per riportare al centro della scena i cantautori. Oggi chi fa rap è legittimamente uno che racconta il mondo che lo circonda: esattamente come facevano i cantautori negli anni ’70. Ovviamente, lo fanno in un altro modo – e parlando di un altro mondo, in buona parte. Ci mancherebbe. E sono contento sia così. Sono contento che i rapper ci siano. Mi danno la possibilità di capire e vedere delle cose che, altrimenti, non capirei o non vedrei. Il problema non è la presenza dei rapper, il problema è che da noi il cantautorato si è un po’ accartocciato su se stesso, su modelli elaborati ancora negli anni ’70: lo stereotipo del cantautore con la giacca sgualcita, che fa narrazione su cose che in realtà non ha manco vissuto… hai presente? Tutti a tentare di sembrare De Gregori. Scegliendo argomenti che paiono uscire da una lettura al bar del Corriere della Sera. È questo che ha causato la morte momentanea del genere, sì. Non ci si è saputi agganciare alla contemporaneità: si è parlato ai nostalgici, e basta. Credo che la nostra sfida nasca anche qua: riattualizzare un genere, non facendolo però un sembrare un disco di De Gregori del 1974».

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