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Coldplay, parla il bassista Guy Berryman: ritirarsi o spingersi oltre?

Il futuro della band, gli anni sballati che l’hanno quasi distrutta, l’unica volta in cui non è riuscito a salire sul palco, i mega concerti, lo stato della musica. «Oggi le case discografiche ti chiedono quanti follower hai su TikTok»

Foto: Kimberley Ross per Rolling Stone Italia

Stando alla mitologia dei Coldplay, ogni membro del gruppo ha un suo ruolo. Chris Martin è il genio creativo, il batterista Will Champion la voce della ragione, il chitarrista Jonny Buckland la bussola morale, il bassista Guy Berryman la coolness fatta persona. «Tutta la figaggine dei Coldplay deriva da lui», assicura il manager Phil Harvey.

Visto da lontano durante una tappa australiana del tour di Music of the Spheres, Berryman dà effettivamente quest’impressione: ha lo sguardo rivolto verso il basso, i capelli scuri scompigliati, il corpo ondeggia delicatamente, le dita si muovono con precisione sullo strumento. Quando lo incontro nel ristorante del suo hotel di Sydney, trovo una persona decisamente più sincera e riflessiva di quanto l’etichetta di “figo” suggerisca. Parla lentamente e con dolcezza, ricorda gli esordi dei Coldplay, ripensa alla loro evoluzione, descrive il legame che li ha tenuti assieme per tutti questi anni. «Non ci siamo mai disallineati. Condividiamo qualcosa di speciale».

Mi sa che noi due abbiamo degli amici in comune e abbiamo rischiato d’incontrarci, a New York, negli anni Zero.
Magari in una di quelle notti buie, giù al bar Black & White o in un posto del genere.

Proprio lì.
Quando abbiamo iniziato a frequentare New York, uscivamo con gli Strokes e c’era tutto un giro di musicisti underground con cui si andava a bere.

Sembra una vita fa.
Pazzesco. Penso sempre a quanto siamo stati fortunati. Siamo entrati nell’industria musicale prima dell’avvento dello streaming. Se volevi comprare un album, andavi in un negozio e pagavi 20 dollari per un CD. Le case discografiche facevano un sacco di soldi con gente come Robbie Williams, e poi quei soldi arrivavano alle varie etichette come la Parlophone, che trovavano band come noi, ci finanziavano, ci facevano crescere. C’era un’infrastruttura che permetteva di diventare artisti e fare carriera. Adesso tutti i musicisti che conosco devono fare anche un altro lavoro. Le case discografiche vogliono che ti presenti da loro con qualcosa che hai già scritto, prodotto, registrato. E poi ti chiedono: «Prima di cominciare a parlarne, dicci: quanti follower hai su TikTok?».

È anche per questo che fate aprire i concerti agli artisti locali?
Sì, perché sappiamo quant’è difficile avere una chance. Magari hai talento, ma fai schifo a gestire i social. Oppure sei bravissimo coi social e diventi una star anche se non sei granché. Sappiamo che non è scontato che le radio tradizionali dopo tanti anni continuino a passare la nostra musica. Credo sia per questo che quando Chris Martin arriva in una città, vuole incontrare gli artisti di lì che sono colleghi di etichetta e fare amicizia con loro.

Quando sei in uno stadio e suoni Yellow, per dirne una, pensi mai a quello che stava succedendo quando è stata scritta oppure le canzoni hanno una vita loro, si evolvono?
Si evolvono. La chiave è vivere nel presente e suonare sempre al meglio delle proprie capacità. Il mio lavoro, poi, è scandito dal micro time. Non devo fare spettacolo, aggiungere colore o altro, devo mettere in piedi una specie di marcia sincronizzata. Devo ascoltare Will e far cadere la mia nota sulla sua grancassa. Ma cerco di perfezionare il modo in cui suono. Ancora oggi, sistemo l’angolazione del plettro per tenere meglio il tempo in Yellow, farla suonare più compatta. La sfida è salire sul palco e suonare meglio della sera prima. È un lavoro di precisione.

In passato hai spiegato come ti sei avvicinato alla musica, ma perché proprio il basso?
Perché quando ascolto musica tendo a preferire cose che mi fanno venire voglia di muovermi. Mi piacevano molto i ritmi soul e funk, che erano l’opposto di quel che ascoltavano gli altri ragazzi a scuola, ed è musica basata sulla sezione ritmica e sul basso. Pensa alla Motown e alla sua storia incredibile. Gli autori scrivevano una canzone al pianoforte e poi la davano alla house band, i Funk Brothers, chiedendo loro ritmi e arrangiamenti da aggiungere alla canzone per adattarla a chi l’avrebbe cantata. Quei musicisti hanno fatto un lavoro incredibile per creare il sound, l’atmosfera e l’energia della Motown, ma solo negli ultimi dieci anni hanno ricevuto i riconoscimenti che meritavano.

E tu ne eri cosciente allora?
Non direi, mi limitavo a sentire la musica. Il mio primo interesse musicale è nato quando avevo 6 o 7 anni. Ero in camera di mia sorella e lei aveva un mangiacassette e una scatola di nastri. Ne ho messo su uno e ho premuto play. Ricordo bene quel momento. È uno dei ricordi più nitidi che ho, il suono che usciva da quell’apparecchio: era My Cherie Amour di Stevie Wonder e mi ha stregato. Mi è sempre piaciuto questo tipo di musica, è per questo che ho voluto fare il bassista, perché ero appassionato di Motown, funk, James Brown. E poi, da adolescente, ascoltavo molto jazz. C’era un jazz bar a Canterbury, dove sono cresciuto. Ci andavo col mio amico Paul, avevamo 16 anni, era l’unico locale in cui ci servivano alcolici senza fare domande. Ci mettevamo lì, bevevamo Guinness, fumavamo sigarette e ascoltavamo trii jazz.

Sei l’unico dei Coldplay che non ha finito il college, giusto?
Vero. Abbiamo formato la band, ho pensato ci fossero delle potenzialità, ci credevo davvero. Insomma, è stato un classico esempio di ingenuità totale, stupida e giovanile.

Però avevi ragione.
Ho lavorato in un bar per un anno, per potermi dedicare al meglio alla band. Ho sempre suonato in qualche gruppo quando andavo a scuola ed era bello, però era sempre roba strumentale perché nessuno voleva mai cantare. Quando ho conosciuto Chris, mi sono detto: finalmente, cazzo, questo sa cantare e vuole pure farlo. Posso stare in uno stadio a suonare il mio basso davanti a 80 mila persone e godermi ogni istante, ma se mi metti in una stanza con un microfono e devo fare un discorso o parlare a 20 persone, crollo.

Il karaoke non è roba per te.
Cazzo, no. Sono un nerd tranquillo e introverso, lo ammetto, ed è stato fantastico trovare una persona con quella carica estroversa.

I tuoi genitori non erano incazzatissimi?
Non proprio. Andavamo abbastanza bene con la band, le cose si muovevano e loro vedevano che ci mettevo tutto me stesso. Poi, quando i ragazzi hanno finito i loro corsi, è arrivato il contratto discografico.

Foto: Kimberley Ross per Rolling Stone Italia

È cambiato il modo in cui fate musica assieme, rispetto al passato?
Chris è sempre stato il leader, è lui che scrive le canzoni, porta le idee, sceglie i titoli degli album. Poi noi modifichiamo, contribuiamo, diamo forma alle cose e discutiamo su cosa tenere e cosa eliminare. Siamo una specie di centrale creativa e alla fine le canzoni sono accreditate a tutti quanti. Da nerd della musica abbiamo visto alcune delle nostre band preferite implodere perché non si erano organizzate nel modo giusto, o perché il cantante si prendeva tutti i meriti e tutti i soldi. Noi abbiamo impostato la cosa pensando al lungo periodo, per andare tutti nella stessa direzione e con la stessa forza. Ed è difficile farlo se qualcuno della band diventa ricchissimo e gli altri no. Finisce che i componenti cambiano e l’alchimia sparisce. Si perde qualcosa. Condividiamo qualcosa di speciale. L’altra sera a Melbourne, per esempio, sono stato male e per la prima volta nella nostra storia uno di noi ha saltato un concerto.

È incredibile.
Sì. Erano le 6 di sera e cercavo di riprendermi. È capitato a tutti noi di fare degli show da malatissimi, con l’influenza, il Covid o altro: è fattibile, ti imbottisci di medicine e sali sul palco. È dura, ma lo si fa. Io, però, avevo un’intossicazione alimentare e mi si è abbassata la pressione al punto che non riuscivo a stare in piedi. Ho mandato un messaggio a Chris: «Fratello, sono davvero preoccupato. Non penso di farcela». Così hanno dovuto correre ai ripari, perché lo stadio era mezzo pieno e non si può cancellare un concerto in uno stadio, cazzo. La gente era arrivata in aereo da altri Paesi. Si era organizzata, aveva prenotato gli alberghi e sborsato un sacco di soldi per i biglietti sul mercato secondario. Si sono dovuti organizzare in qualche modo. Nel momento stava iniziando il concerto ero a letto che pensavo: «Cosa si saranno inventati? Come andrà?». Ero giù, ho pianto. È stata una sensazione intensissima. Poi, all’improvviso, ho capito che, per quanto fossi triste e allettato, sentendomi di merda, doveva essere stranissimo per gli altri stare sul palco così. Credo che per loro sia stata un’esperienza bizzarra.

So che vi portate dietro uno studio mobile per lavorare a nuova musica. È strano pensare a un album mentre si è in tour?
Sì e no. Non credo che abbiamo mai iniziato un disco nuovo dicendo: bene, andiamo in studio perché dobbiamo fare un album. Abbiamo sempre idee avanzate dai lavori precedenti, perché non andavano bene, perché non le abbiamo finite, perché non le abbiamo sviluppate. A volte non si riesce a trovare la chiave giusta e possono volerci degli anni prima di poter dire che il ritmo era sbagliato o un accordo non andava bene o chissà che altro.

A volte si deve gettare la spugna.
Succede.

Quando decidete che è ora di arrendervi?
Dopo avere torturato un pezzo senza pietà, fino alla morte, per anni. Ci è successo un sacco di volte. Penso che un giorno potremmo fare qualcosa per presentare questi scarti in modo interessante.

Chris ha detto che i Coldplay pubblicheranno soltanto altri due album. Sono contento di sapere che è una delle idee che sta maturando, in vista del pensionamento.
Sì, lo so, ma Chris è una forza della natura a livello creativo, quindi vedremo che cosa accadrà. Mi sono passate per la testa tante cose, tipo che l’ultimo album potrebbe essere diviso in cinque parti o roba del genere.

Ma veramente?
Non lo so. Suppongo che l’idea di arrivare un po’ di paura la faccia. Come fai a sapere come ti sentirai davvero quando arriverà quel giorno?

Sei preoccupato?
Non so, davvero. A un certo punto la questione diventa: quanta roba pensi di dover fare uscire? C’è gente che vuole ascoltare solo i nostri primi due album e tutto quello che abbiamo fatto dopo non è considerato valido. Ma c’è anche chi non conosce i nostri primi due dischi e ci ha scoperti solo grazie al pezzo che abbiamo fatto coi BTS. Non credo che smetteremo mai di andare in tour. Penso che sia più una questione tipo: cos’è un album? Chi ascolta ancora gli album? Il panorama è cambiato totalmente. Non contano nemmeno più le canzoni: parliamo di 20 secondi che finiscono su TikTok di un brano che qualcuno ha accelerato a doppia velocità o roba del genere. Noi siamo delle specie di dinosauri per come ci approcciamo ancora alla creazione degli album, facciamo musica che deve essere ascoltata dall’inizio alla fine, come un viaggio. Ormai non c’è più molta gente che sente musica in questo modo. Ci piace il fatto che ogni grande storia abbia un inizio, una parte centrale e una fine. Quindi direi che l’idea è avere il controllo sulla nostra fine piuttosto che svanire o non crederci più o trascinarci troppo a lungo. Credo che l’obiettivo sia fermarci prima che le cose cambino in un modo o nell’altro.

Per fare un tour come questo bisogna essere un po’ degli atleti. È una maratona. A Sydney sei riuscito a uscire e rilassarti un po’?
La cosa più bella per me, ora come ora, è che da qualche anno ho un marchio di moda che ha sede ad Amsterdam. Non sono mai stato uno che va a fare shopping nei negozi di lusso, dalle grandi marche o roba così. Ma mi piace andare nei negozi dell’usato che trattano vintage.

Hai scovato qualcosa a Sydney?
Una montagna di roba. Ho già spedito cinque valigie piene di cose vintage.

A dicembre sarete in pausa per un po’. Cosa farai?
Tornerò a casa e avrò un paio di settimane di tempo per stare con la famiglia. Ho una figlia di 18 anni, un bambino di 6 e una bimba di 3, che è nella fase in cui fa i capricci. Ho sempre pensato che succedesse verso i 2 anni, no? Parlano tutti dei terrible two, ma lei si è fissata su questo comportamento e non c’è modo di ragionarci.

Per quanto tempo stai senza vedere la tua famiglia?
Al massimo tre settimane. Facciamo questo lavoro da tanto tempo, quindi sappiamo come funziona. Ricordo che agli inizi, credo in occasione del terzo album, abbiamo fatto un tour di nove settimane negli Stati Uniti in autobus.

Dormendo nelle cuccette del bus?
Sì. Ti svegli davanti al locale, entri, ti butti in doccia e fai quello che devi fare. L’America è enorme. Per una band inglese arrivare là e girare dappertutto è come toccare 50 Paesi diversi, dove devi stringere la mano a tutti, accontentare tutte le stazioni radio e fare di tutto. A metà strada ho pensato: «Non so come faremo, non so come facciamo a essere vivi». All’epoca non sapevamo come prenderci cura di noi. Non avevamo la minima idea di cosa fosse la salute mentale: semplicemente, salivamo sul bus e trovavamo pile di cartoni di pizza, frigo pieni di birra, erba da fumare e tutti gli altri cliché. E andavanmo avanti così. È stato tosto. Ci è voluto del tempo per imparare che tre settimane sono il massimo che possiamo reggere prima di prenderci qualche settimana di riposo. E anche in queste tre settimane, sappiamo quanti show possiamo fare e quanti giorni di riposo ci devono essere. Abbiamo finalmente capito come funziona.

Quando avete iniziato a comprendere come dovevate organizzarvi per restare in buona salute?
Non saprei di preciso. Per un po’ le cose mi sono sfuggite di mano. Quello stile di vita fatto di feste e uscite fino a tardi, senza prendermi cura di me stesso, era diventato un problema per me.

Verso quale album, secondo te, le cose andavano così?
X&Y è stato quello che ci ha portato tantissima pressione, per vari motivi. Il primo album è andato bene, ma era molto tranquillo e acustico. Facevamo i concerti e venivano tante persone, quindi ci siamo detti che ci servivano canzoni con più energia. Il secondo è andato alla grande, superando ogni aspettativa, così quando siamo arrivati al terzo e facevamo concerti piuttosto grandi non sapevamo più chi eravamo. Ci siamo un po’ persi. E abbiamo perso anche il nostro manager, Phil, che se n’è andato. Quindi non avevamo più il suo sostegno e la sua guida. È buffo: penso che siamo sempre un po’ troppo severi con quel disco, per me è un album magico sotto molti punti di vista, ma le canzoni sono lunghe cinque, sei, sette minuti. Sono pompose. Chris dice sempre che gli piacerebbe tornare a lavorarci su, perché basterebbe un po’ di editing, qualche taglio qua e là, per tirarci fuori il meglio. Io però sono scettico a riguardo di operazioni di questo tipo, perché ci sarà sempre qualcuno che ti dice che X&Y è il suo album preferito, così com’è.

A me piace molto.
A me piace di più ora. L’altro giorno ho ascoltato un pezzo e ho pensato che era inventivo, ma effettivamente poteva durare tre minuti e mezzo, non sette.

Quando dici che vi siete approcciati alla musica in modo diverso, cosa intendi?
Eravamo disposti ad accettare una guida e degli input da una fonte esterna, invece di dire: siamo noi ad avere il controllo, dobbiamo fare tutto da soli.

Immagino sia stato un sollievo lasciarsi guidare.
Non sarebbe successo senza Brian Eno, ci voleva uno che stimavamo tanto. È come se avessimo detto: «Tu sei Brian Eno, ci hai consigliato di fare questa cosa e noi la faremo». È stato interessante lavorare con lui, ci ha spinti a sperimentare, anche se non sempre quegli esperimenti hanno avuto uno sbocco.

Qual è la cosa più sperimentale che vi ha fatto fare?
Credo che la più importante sia che ci ha fatto cantare tutti. A Brian piace il canto. Ancora oggi, ogni settimana, ospita un gruppo a cappella nel suo studio.

Ho visto dei video in cui cantavate con lui in chiesa.
Sì, ci ha fatto cantare tutti e ha sempre detto che eravamo la band che lavorava più sodo senza concludere niente.

In che senso?
Passavamo intere settimane in studio senza combinare nulla. Poi arrivava lui e diceva: «Allora, ho questa idea. Proviamo così. Suoneremo sei battute di questo accordo, tre battute di quell’altro. Aggiungeremo una battuta di questo accordo e poi ripeteremo tutto. A ogni ripetizione, voglio che facciate qualcosa di diverso». Ci faceva fare questi esercizi. A volte ci chiedevamo: «Ma che cazzo è?». Altre suonavamo e dicevamo: «C’è stato un momento, quattro minuti in questa cosa orribile di un’ora che abbiamo appena fatto, in cui è successo qualcosa». Ci ha fatti uscire dalla mentalità in cui eravamo rimasti bloccati.

So che c’erano parecchie discussioni. Adesso, quando arriva una buona canzone, ve ne accorgete subito?
Oh, no.

No?
Assolutamente no. A volte è palese, Chris porta qualcosa e noi diciamo: wow. Il nostro compito diventa quello di non rovinare tutto. Altre volte è più una cosa tipo: ok, qui abbiamo qualcosa. Cosa manca? Come possiamo completare il puzzle? Oppure capita che Chris ci porti una cosa che io non capisco, ma mi fido del suo giudizio. All’inizio litigavamo e discutevamo tanto, adesso siamo più vicini che mai. Sento anche che stiamo iniziando ad avventurarci in un territorio inesplorato a livello di show, di emozioni e di servizio che forniamo alle persone. Sento che è qualcosa di molto più grande di me e di tutti noi come band, e abbiamo il dovere, soprattutto al giorno d’oggi, di offrire alle persone l’opportunità di trovarsi insieme e di godersi un momento di gioia in cui dimenticare tutto per un paio d’ore. Credo che ormai sia diventato qualcosa che sfugge al nostro controllo.

Quando hai iniziato a sentirlo?
Durante questo tour, credo.

La notte in cui Trump è stato eletto io ero in volo. Che atmosfera c’era, quella sera?
Non molto diversa dal solito, tra il pubblico. Mentre salivamo al palco ho pensato che era ancora più importante suonare, che dovevamo continuare a farlo.

Hai una parte preferita dello show?
L’inizio è sempre speciale. Non ci si stanca mai di entrare nello stadio, sentire il boato e l’attacco della batteria.

I Coldplay a San Siro. Foto: Kimberley Ross per Rolling Stone Italia

Parlami un po’ delle misure che avete preso per rendere sostenibile il tour.
Alcuni elementi sono lì più che altro per far conoscere certe tecnologie, come la copertura su cui la gente salta, generando energia. Ci siamo chiesti: e se qualcuno volesse aprire un club o un centro commerciale o qualsiasi altra cosa e vedesse che si possono mettere a terra dei pannelli che sfruttano i movimenti delle persone? Poi ci sono le batterie ricaricabili che alimentano lo show. Non c’è una cosa unica che si può fare per cambiare radicalmente le cose, si inizia ad avere un certo impatto quando si mettono insieme più accorgimenti. Abbiamo questo materiale fantastico, a pannelli solari, che viene piazzato dietro le poltroncine.

L’ho visto l’altra sera.
È un’evoluzione, no? Ma non abbiamo mai detto: bene così, siamo a posto. Se qualcuno ci dice che ha un’invenzione adatta al vostro show, la prendiamo in considerazione. Se è una buona idea, la usiamo. Continuiamo ad aggiungere nuove cose.

Tua figlia diciottenne è conscia del fatto che suo padre è una rockstar?
Oh certo, sì. È molto creativa, ama la musica, l’arte, i concerti. E i più piccoli cominciano a farsene un’idea. Hanno visto le mie foto mentre sono sul palco. A volte vengono ai concerti: vedono un paio di canzoni, poi si stancano e li riportano in albergo. Iniziano capire che io faccio un lavoro un po’ insolito, o forse per loro è normale.

È proprio quello che volevo dire, credo che diventi normale.
Sì. Ma io vivo ad Amsterdam ed è un posto bellissimo dove stare, perché sento che gli olandesi sono molto concreti e coi piedi per terra. L’Olanda mi sembra un Paese in cui regnano la normalità e il buon senso. Mi piace molto vivere lì.

Vorrei tornare alla questione del pensionamento. Hai detto che un po’ fa paura. Questo sentimento, in qualche modo, trapela da ciò che state facendo?
Non è un pensiero o una preoccupazione dominante, non per me almeno. Sento che abbiamo ancora tanto da fare, con questo tour e coi progetti che ci sono in ballo. Penso che siamo ancora lontani da qualsiasi tipo di pensionamento. Ma bisogna sempre avere un piano. Se stai facendo una maratona, hai ben chiaro che devi percorrere 42 chilometri, ma se qualcuno ti dice di iniziare a correre senza mai fermarti, diventa difficile trovare la giusta motivazione.

Avete detto di essere giunti a un punto in cui non vi sentite più in dovere di essere perfetti e che è più importante creare uno spazio in cui le persone possono godersi un’esperienza.
Ci stiamo muovendo in un territorio inesplorato. Stiamo facendo qualcosa che non penso qualcuno abbia mai fatto prima, in termini di durata della nostra carriera, di dimensioni di questo tour, di amore e di sensazioni che si generano negli stadi… Non voglio sembrare un pallone gonfiato, ma mi sembra una cosa nuova. Ed è interessante. Parliamo tanto di pensionamento e di fine carriera, ma c’è anche una parte di me che si chiede: fin dove potremmo spingerci?

Da Rolling Stone US.

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