Di libri su faccende di musica e musicisti ce ne sono a bizzeffe, anzi, continuano ad uscire a getto continuo (e meno male: vuol dire che la musica interessa ancora). Vi assicuriamo però che pochi hanno l’intensità di Solo amore, il volume uscito qualche settimana fa per Minimux Fax in cui Simone Eleuteri (aka Danno) e Massimiliano Piluzzi (aka Masito), ovvero i Colle der Fomento, guidati dalle domande e dalle trascrizioni di Fabio Piccolino – davvero gran lavoro, il suo – si raccontano come poche altre volte degli artisti si sono raccontati in Italia. E, probabilmente, come ad oggi i rapper di casa nostra mai hanno fatto. O almeno, non con questa precisione, con questa profondità, con questa intensità.
Del resto proprio l’intensità è da sempre una delle chiavi per il Colle der Fomento; ma lo sono, non nascondiamolo, anche una certa pigrizia e la tendenza a scomparire dai radar del mercato per avvinghiarsi invece a quelli più fieramente underground. Che sono bellissimi, sia chiaro, ma rischiano di diventare una coperta di Linus dietro cui nascondersi e non crescere mai. Ecco: uno dei messaggi più belli – estrapolato con lunghi ragionamenti e bellissimi confronti – del libro è proprio questo: l’avvenuta maturazione e maturità dei due Colle, che sono decisamente molto più maturi di certi fan che li vogliono relegare ad eterna action figure del rap underground che più underground non si può, quello che insomma deve per definizione schifare ed odiare il mainstream. Niente di tutto ciò: se mai Simone e Massimiliano hanno avuto questa visione (e quando l’hanno avuta, era in un contesto diverso e aveva un suo perché), oggi le cose stanno in modo diverso.
Leggendovi il panciuto ma scorrevolissimo Solo amore lo potete capire benissimo. Ma un antipasto corposo ve lo dà già questa chiacchierata giocata con entrambi e con l’autore materiale del libro. Chiacchierata che parte dalla constatazione che, per essere sfuggenti eroi dell’underground, in realtà negli ultimi anni i Colle hanno inanellato non solo un libro ma anche un documentario su di loro, X tutto questo tempo: un’improvvisa voglia di autocelebrarsi?
Prima un documentario, ora anche un libro: com’è ‘sta storia? Vi è venuta voglia di autocelebrarvi? Vi sentite i Rolling Stones del rap italiano? Che ci starebbe anche, per lunghezza di militanza e per valore, però…
Danno: Beh, ci metterei la firma ad arrivare all’età di Keith Richards messo come sta messo lui (ride). Lui è uno dei miei punti di riferimento!
Masito: E la cosa divertente è che abbiamo fatto tutto da soli. Siamo stati noi a pensare di fare un videodocumentario e l’abbiamo fatto; siamo stati noi che abbiamo deciso – assieme a Fabio – di fare un libro. Ed eccolo qui.
Ok. Ma lo avete voluto, questo libro, perché sentite di essere importanti, ormai un pezzo di storia che meritava di essere celebrato? O per semplice e pura voglia di raccontare?
Danno: L’idea del libro nasce dall’incontro con Fabio, durante una proiezione di un altro documentario sulla scena rap italiana, Numero Zero. Ci siamo messi a parlare con lui e, insomma, ci siamo via via resi conto che potevamo davvero avere voglia di imbarcarci in questa impresa folle, ovvero raccontare e raccontarci in tutto e per tutto in un libro. Una cosa volevamo fosse messa in primi piano, in particolar modo: le nostre canzoni, le nostre rime. Io sono un grande lettore di biografie di musicisti e di rapper in particolare, ma lì capisci subito che il rapper americano ha quasi sempre una profondità di vissuto che il rapper italiano, purtroppo, non ha: un conto è nascere nel Bronx negli anni ’70 e ’80, un conto è farlo qui da noi. Però di una cosa eravamo abbastanza certi, come Colle: attorno alla nostra musica e ai nostri pezzi dell’interesse c’era. E tra l’altro, spesso capitava che certe nostre rime e certi nostri riferimenti nei testi non venissero proprio capiti… quante volte abbiamo letto interpretazioni strane, assurde. Ricordi, Max?
Masito: Una cosa importante da dire è che i musicisti italiani che piacciono a noi, penso ad esempio a Paolo Conte, a Vinicio Capossela, difficilmente spiegano cosa c’è dietro ai loro testi; e noi che li ascoltiamo passiamo anni a scervellarci quale è il significato dietro a una strofa, a un riferimento. Lì ho capito che se c’è una cosa che chi era fan nostro voleva sapere, probabilmente era prima di tutto i riferimenti che mettevamo in campo nei nostri testi, nelle nostre parole. Da lì l’idea di passare in rassegna uno per uno tutti i nostri pezzi che sono usciti, spiegandoli per bene. Un lavoraccio: perché in molti casi bisognava andare indietro con la memoria parecchio e in qualche caso non è per nulla facile ricordarti cosa avevi per la testa quando scrivevi una riferimento o un’immagine.
Fabio: Massimo e Simone mi hanno confessato che moltissime volte restavano delusi dalle interviste che gli venivano fatte. Loro non vedevano l’ora di approfondire certi riferimenti che mettevano in campo nelle loro tracce, invece si restava quasi sempre sul canovaccio standard dell’intervista al rapper. Non vedevano l’ora di fare un lavoro di racconto e di analisi molto approfondito sul loro materiale: forse anche per questo hanno accettato subito con entusiasmo di buttarsi in questa impresa.
Ma non è solo questione di raccontare e spiegare i pezzi. Qui c’è tantissima biografia, tantissima vita, con passaggi anche davvero personali: è stato facile aprirsi così tanto o c’è stato bisogno, come dire, di carburare un po’ prima di aprirsi così tanto?
Masito: Adversus, il nostro ultimo album, ha segnato una linea. È da quel disco che abbiamo iniziato a ragionare più come persone che come personaggi. Ed è da quel disco che è nata l’esigenza viscerale di raccontare, raccontare tutto, raccontare le cose come stanno.
Danno: Non che avessimo mai giocato a fare i personaggi, pensando a questo e solo a questo. Non abbiamo mai avuto delle maschere, ecco. È che con Adversus avevamo evidentemente raggiunto l’età per riflettere finalmente su tutta la nostra storia, e per raccontarla nella sua interezza, in modo maturo e consapevole.
Masito: Tutto questo magari anche a discapito nostro, attenzione. Nel libro ad esempio racconto anche delle fasi più complicate della mia vita, quelle in cui per sopravvivere dovevo fare dei lavori umili: per qualcuno questo è un pregio, per altri magari può invece la dimostrazione che sono un mezzo sfigato, in una narrazione odierna che sembra invece privilegiare i vincenti. Ma alla lunga dire la verità e raccontare le cose come stanno, paga. Poi guarda, può anche essere divertente: in un mondo come quello del rap dove sembrano appunto esserci solo dei supereroi, raccontare delle fasi meno splendenti e scintillanti della propria vita spiazza parecchio.
Danno: Ma in realtà se uno guarda bene le ultime evoluzioni sulla letteratura dei supereroi in generale si rende conto che oggi più ti metti a nudo e mostri anche le tue debolezze, più in realtà ti si apprezza. Tipo: più sai quanto è fragile Peter Parker, più apprezzi l’Uomo Ragno. Adesso funziona molto di più così.
Fabio: Non credo che comunque nasca tutto col libro che abbiamo fatto assieme o con Adversus: loro hanno sempre avuto una attitudine molto vera, molto sincera, poco artefatta.
Danno: Vero, e in effetti si è instaurata fin dall’inizio una grande sintonia umana con chi ci segue – non voglio usare la parola fan, mi pare fuori luogo – ma è da Adversus e dal documentario che abbiamo imparato davvero ad aprirci, a raccontarci anche negli aspetti più personali. E peraltro entrambi, sia disco che documentario, sono usciti quando già avevamo iniziato a lavorare al libro.
Ah, quindi è durata ben abbastanza, la lavorazione…
Fabio: Ti dico solo che quando abbiamo iniziato a lavorarci, con Simone e Massimo, mia moglie era incinta. Ora mio figlio ha 5 anni.
Danno: Ma tornando al discorso della sintonia con chi ci segue spesso non è l’artista che fa il suo pubblico, ma è il pubblico che dopo un po’ arriva a plasmare l’artista. Se tutti ti mitizzano, beh, dopo un po’ tu per primo inizi a sentirti un mito. Ci siamo passati anche noi, guarda: non su grandissima scala, ovviamente, ma nel nostro ci siamo passati un po’ anche noi. Ma a fare la differenza è sempre la capacità di essere veri, di essere sinceri in quello che si sta dicendo. E la sincerità può significare anche iniziare a raccontare il proprio passato e i propri punti deboli. Ha iniziato Eminem con 8 Mile – un rapper bianco in un mondo di neri, uno che viveva in una roulotte, che si è separato male dalla moglie… E poi, in Italia, Fabri Fibra: ascoltando Mr. Simpatia capivi che nasceva da una rabbia vera, da una frustrazione autentica, c’era molta umanità in quel disco, credo sia soprattutto per questo che abbia funzionato. Così come credo che gli americani funzionino perché fin dall’inizio hanno messo tutta la loro vita nel rap, dalla A alla Z, senza inventarsi cose che non fossero vere.
A proposito di realtà ma tornando a casa nostra, qual è la differenza tra i ventenni italiani che oggi ascoltano ed amano il rap e voi quando avevate vent’anni?
Danno: Non conosco così bene i ventenni, venticinquenni di oggi, ma con le pinze penso di poter dire una cosa: noi, quando ci siamo buttati sul rap e sulla cultura hip hop in Italia, stavamo letteralmente inventando qualcosa. Partivamo da zero. Da noi non c’era quasi nulla: potevi provare, inventare, creare, costruire. Potevi, e dovevi. La conseguenza? Avevi più possibilità sia di riuscire che di fallire – le due cose contemporaneamente.
Masito: E poi c’è la questione della credibilità. Quella che oggi hanno i rapper e i trapper, che sono subito visti come personaggi potenzialmente importanti nello scenario, noi invece ce la sognavamo. Addetti ai lavori, giornalisti, tv: oggi chiunque intervisti anche un ragazzino di 16 anni lo tratta comunque con un minimo di rispetto, perché sa che potrebbe essere rilevante per una vasta fetta di pubblico. Di conseguenza, gli stessi ragazzini sedicenni hanno un modo di porsi molto più maturo, molto più sgamato nei confronti dei media e dell’industria discografica. Sento certe interviste – e ne sento molte – e penso che io mai sarei riuscito a rispondere così bene, con così tanta sicurezza. Chi arriva da una generazione precedente, invece… Non so, guarda Fibra: lo capisci che per lui andare in televisione è comunque una sofferenza, non è il suo elemento. Alla fine lo fa, e lo fa bene, perché riesce sempre a far emergere la sua grande umanità, ma lo vedi che comunque per lui è uno sforzo. Quelli della nuova generazione invece in tutto questo navigano benissimo, con una naturalezza totale.
Danno: C’è da dire comunque un’altra cosa. Almeno all’inizio, chi abbracciava il rap e la cultura hip hop lo faceva per un sano spirito di ribellione. Ribellione contro cosa, beh, spesso nemmeno lo si sapeva: c’era chi voleva ribellarsi contro la famiglia, chi contro il sistema, chi contro il mainstream musicale… Ciascuno aveva la sua. Ma oggi il rap e l’hip hop non sono ribellione, sono diventati il mainstream. Un tempo se sceglievi appassionarti al rap eri un disadattato, un alieno; oggi se lo fai sei quello che segue la cosa che funziona di più. Non è una differenza da poco. Io posso solo dire che quando ho scelto il rap l’ho scelto proprio perché volevo essere diverso, volevo essere sfigato, volevo essere l’alieno, volevo essere quello che andava lì dove gli altri mai avrebbero pensato di andare, tra quelli che facevano il liceo con me. Ecco, mi pare che oggi questa cosa si sia un po’ perso e, devo dirlo, mi dispiace: il rap era un modo per andare contro l’omologazione, un tempo, oggi invece è un po’ il suo contrario. Oggi il rap spesso e volentieri significa fare quello che stanno già facendo gli altri nel caso funzioni; un tempo era fare esattamente quello che non funzionava, quello che nel pop proprio non esisteva. Non per forza è un male. Il vero giudice unico e inappellabile è il pubblico sotto il palco. Se a lui va bene, tu sei a posto. È il pubblico a decidere: non qualche collega saccente che vuole spiegare come va il mondo, o qualche addetto ai lavori. In ultima analisi ciò che conta è l’entusiasmo di chi ti segue, qualsiasi cosa tu faccia.
Masito: Sarebbe stato bello se la credibilità che oggi i rapper hanno nel sistema dell’industria dell’intrattenimento fosse stata anche un po’ portata da noi, dal nostro lavoro iniziale per costruire la scena – e intendo quindi un noi collettivo, non mi riferisco nello specifico al Colle. Ma siamo sinceri: non è così. L’unico vero biglietto da visita per chi si affaccia al rap oggi sono i numeri, punto. Non il lavoro dei Sangue Misto. E nemmeno tanto quello di Fibra, dei Club Dogo, di Marracash, per arrivare alla generazione successiva (che già a sua volta è dovuta ripartire da zero). No: sono stati i numeri. Che si sono guadagnati avvicinandosi di più al pop o alla musica dance (perché da noi il gusto delle persone è stato formato parecchio dalle discoteche più commerciali), non facendosi forti delle radici, della importanza e della rilevanza di una cultura. Questo, forse, è un rimpianto.