Non è da tanto che Sarah Beth Tomberlin vive a New York, eppure sembra che ci stia da sempre. L’artista, che si esibisce col nome d’arte Tomberlin, ha una Honda Civic che lascia parcheggiata vicino al suo appartamento a Brooklyn. Preferisce girare il quartiere a piedi, facendosi 15 o anche 20 chilometri al giorno con la musica in cuffia.
«Sono super soddisfatta», dice la cantautrice, 26 anni, nata in Florida e cresciuta tra Kentucky e Illinois. «Il che è assurdo, abitare qui non era nei miei piani».
Per Tomberlin ci sono state un sacco di prime volte a New York. Ha suonato uno dei primi concerti all’Union Pool di Brooklyn, era agosto 2018 e festeggiava l’uscita del suo debutto At Weddings. Quando aveva 19 anni ha bevuto per la prima volta qualcosa di alcolico (non le avevano chiesto i documenti), una birra IPA amara («È disgustosa», ha detto agli amici, «siete tutti dei disturbati!»). Ed è qui, in una caffetteria di Williamsburg, impegnata nella sua prima intervista di persona, fissata per parlare del nuovo album I Don’t Know Who Needs to Hear This…
Ha l’aspetto di una giovane Rickie Lee Jones, ma in versione anni ’90, con capelli lunghi color caramello fissati con una spilla e la felpa col cappuccio sotto la giacca di jeans. È timida di natura – conseguenza, forse, dell’aver compiuto gli studi a casa, in una famiglia battista – ma nel corso della conversazione rivela un senso dell’umorismo pungente.
I Don’t Know Who Needs to Hear This… è un disco di riflessioni sentimentali, una raccolta di canzoni folk con strumentazione densa e arrangiamenti che portano i pezzi oltre i cinque minuti di durata. Quello che apre l’album, Easy, arriva a sei. Accompagnata da piano e clarinetto, nel testo Tomberlin descrive il ruolo che di solito assume in una relazione: “Resto sempre in silenzio / In un cantuccio / Nessun desiderio da esprimere / e nego me stessa”.
«È un mio schema ricorrente», dice mentre beve un cappuccino. «Sono talmente comprensiva che finisco per annullarmi».
Questa consapevolezza torna in Tap, dove c’è un verso che in un certo senso spiega l’intero disco: “Non sono una cantante / Sono solo una persona colpevole”. Tomberlin ribalta la classica prospettiva dei cantautori, un po’ come Mitski, dove l’autore è spesso il protagonista di un pezzo. «È facile mettersi dalla parte della ragione e dire che non sei tu ad aver incasinato tutto. Gli artisti, me compresa, hanno la colpa d’incolpare gli altri. Ho sempre cercato di tenerlo a mente. Abbiamo tutti un qualche problema».
Il pezzo forte del disco è Sunstruck, un brano impressionante che parla di una relazione con un alcolista. “Non verrà niente di buono da un bicchiere che si riempie all’infinito”, canta Tomberlin con voce risoluta e accompagnata da percussioni fluttuanti.
«Ho scritto quel pezzo dalla prospettiva di una relazione piena di tira e molla, del tipo “ci si vede quando ci si vede”, per poi scoprire che quella persona era sobria da tre mesi. Ho riconsiderato la storia in modo diverso, grazie al fatto che me l’ero messa alle spalle».
Tomberlin dice che la chiusura della canzone, “Ci siamo lasciati alle spalle un po’ di dolore / Per avere un po’ di magia”, non parla della relazione, ma di lei: «La magia siamo noi che lavoriamo su noi stessi, che proviamo a trovare un po’ di pace e comprensione».
Tomberlin ha co-prodotto I Don’t Know Who Needs to Hear This… con Phil Weinrobe, noto per aver lavorato ai dischi solisti di Adrianne Lenker e Buck Meek dei Big Thief. Il disco è stato registrato dal vivo al Figure8 di Brooklyn, con pochissime sovraincisioni e senza cuffie, solo Tomberlin e la sua band che suonavano in cerchio. Entrava per la prima volta in uno studio di registrazione ed era anche la sua prima esperienza con musicisti ingaggiati per suonare le sue cose. «Phil diceva: suoniamo piano e guardiamoci», ricorda. «Io sono cresciuta cantando e suonando in chiesa, mi ha ricordato quel tipo di comunità».
Quella comunità ha radici profonde nella sua famiglia. Quando lei aveva 4 anni, il padre è diventato parroco in una chiesa cristiana. Tomberlin ha poi messo in discussione la fede. «Ti raccontano quella storia e tu pensi: “Ma sono stata io? Ho messo io Gesù sulla croce? Ovviamente mi dispiace, non voglio andare all’inferno”. È stata dura, perché la religione era per me l’unico modo per costruire un’identità».
Ora, dopo cinque anni di musica, i genitori ne approvano le scelte, ma non è stato facile. «La gente della chiesa di papà leggeva gli articoli su di me e gli diceva: “Non so mica se devi essere orgoglioso di lei, qui dice che non è cristiana”. È stata dura per loro. Io non capivo fino in fondo la situazione. Parlavo coi giornalisti come avrei fatto con gli amici e loro se ne sono decisamente approfittati».
Da bambina Tomberlin non poteva ascoltare molta musica e ora fa del suo meglio per recuperare. «Per una vita sono stata un passo indietro», dice ridendo. «Ho mancato alcuni momenti chiave della cultura pop. Di Britney conosco solo tre canzoni».
Sua madre, però, si è assicurata di farle scoprire i Carpenters e lei è rimasta colpita da Karen Carpenter. «L’ho vista alla batteria e ho pensato: ma è assurdo», ricorda. «Ho due sorelle, anche mia madre canta, lo facevamo sempre a casa, giocavamo con le armonizzazioni».
Da adolescente ha scoperto Bright Eyes, Dashboard Confessional e Postal Service. Il suo primo concerto è stato quello degli Arcade Fire, nel giorno del suo sedicesimo compleanno. Ha anche incontrato la band, che le ha scritto “happy birthday” su un foglio vicino agli autografi. «È stato un primo concerto pazzesco, non riuscivo a smettere di gridare».
At Weddings è la prima cosa convincente che ha scritto. L’ha pubblicato su Bandcamp in un periodo in cui lavorava in una caffetteria di Louisville. Non c’è voluto molto prima che Saddle Creek, un’etichetta che conosceva grazie alla passione per i Bright Eyes, bussasse alla sua porta. «Ho ricevuto la loro e-mail e pensavo fosse uno scherzo. Quando sono venuti a trovarmi cercavo di convincerli a non prendermi: ma siete sicuri? Manco so leggere la musica!».
Il successo è arrivato in fretta. Poco dopo l’uscita ufficiale di At Weddings, Tomberlin lavorava da Urban Outfitters e ha ricevuto un altro messaggio: era stata scelta per suonare nel late show di Jimmy Kimmel. «Avevo la sindrome dell’impostore», ricorda. «Ero scioccata, come tutti. C’era gente che diceva: ma chi è? È imposta dall’industria discografica? Assolutamente no».
È in questo periodo che è diventata amica di Busy Philipps. L’attrice aveva iniziato a seguirla su Instagram. «Non scrivo mai in privato alle persone, ma sono una super fan di Freaks and Geeks e dovevo farlo. Le ho scritto un cosa tipo: ehi, è assurdo, non so che dire… spero che tu stia passando una bella giornata».
Quell’anno, mentre era in tour con Andy Shauf, ha incontrato Philipps e il marito Marc Silverstein a Los Angeles. Quando nell’estate del 2019 si è trasferita in città, è andata a vivere con la coppia e i suoi due figli, nella stanza degli ospiti. Philipps ha anche diretto il video di Wasted, un brano dall’EP del 2020 Projections.
«Busy ha iniziato davvero giovane, ha lavorato duramente», dice Tomberlin. «Sa cosa vuol dire fare tutto da sola. Un giorno mi ha detto: devi avere del materiale per la stampa. Sono grata per la sua amicizia».
A settembre 2020, mentre gli incendi nella West Coast inquinavano l’aria, la famiglia di Phillips ha affittato una casa a Manhattan e Tomberlin si è spostata con loro. A maggio ha reso la cosa permanente prendendo un appartamento tutto suo a Brooklyn. Ma invece di vivere la sua nuova indipendenza con gioia, ha vissuto quel periodo con dolore.
«Piangevo ogni giorno, sentivo un gran peso sulle spalle. Prima vivevo con una famiglia ed ero un po’ come una tata. Mi ero finalmente trasferita in un posto tutto mio e mi sentivo sola. Pensavo: ti sei tenuta dentro un sacco di cose, ora hai finalmente uno spazio per vivere i tuoi sentimenti».
Per Tomberlin quello spazio è un altare, ma di un tipo diverso rispetto a quelli che vedeva da bambina. «Ero un po’ come una strega, avevo il mio spazio e accendevo candele. Devi ricordare di averle accese e anche di spegnerle, ed è un gesto potente. In un certo senso, questo disco viene da quell’altare».
L’ultima traccia in scaletta, la title track stilizzata con l’acronimo Idkwntht, rappresenta perfettamente questo spazio sacro. È una ninna nanna sognante con Felix Walworth ai cori. È nata come una meditazione, un addio ottimista.
«La pandemia ha creato un falso senso di comunità online», spiega. «La gente condivideva le foto del pane che aveva cucinato e così via, ma la verità è che provavamo tutti una gran solitudine e non volevamo restare soli con noi stessi. Quella canzone è il mio modo per tendere la mano. Non so dove stiamo andando, ma posso farvi rialzare e portarvi dove sono arrivata io. Sono seduta qui e osservo».
Questo articolo è stato tradotto da Rolling Stone US.