A un certo punto Christine and the Queens ha deciso che voleva Madonna come voce narrante della sua nuova ambiziosissima opera pop in tre atti intitolata Paranoïa, Angels, True Love. Per riuscirci, ha dovuto muoversi velocemente. Mike Dean, collaboratore di entrambi, ha contattato Madonna via FaceTime. A Chris toccava fare una presentazione molto convincente. «Era il momento di dimostrare che potevo spiegare in 20 secondi la trama di un disco che nemmeno io avevo capito del tutto», spiega Chris ridendo collegata da Parigi via Zoom. «Perciò le ho detto: “Senti, sto facendo un’opera rock sugli angeli. Il tuo personaggio sarebbe mia madre… o un grande robot, non sono ancora sicuro”». Fa la faccia di una persona in ansia, come doveva esserlo mentre aspettava la risposta di Madonna. Che è arrivata: «Tu sei pazzo. Lo faccio».
Quando si tratta di avventurarsi in terreni inesplorati nel pop, Chris si è sempre affidato all’intuito. Ha pubblicato il primo album nel 2014 e già allora era ovvio che ci si trovava di fronte a un maestro nell’arte del pop a presa rapida. Da allora, ha ampliato il suo vocabolario musicale includendo alcune deviazioni sperimentali e perfezionando i testi, trasformandoli in confessioni emozionanti e schiette sul tema del suo percorso di transizione di genere e sulla ricerca di un senso nella vita. Mentre scavava sempre più a fondo in se stesso, la sua musica si faceva più intensa ed entusiasmante, posizionandolo fra le fila dell’avanguardia della nuova grande ondata pop. Ha passato un mese e mezzo a scrivere la musica di Paranoïa, Angels, True Love, ha registrato le parti vocali improvvisandole in una sola take, spesso sorprendendosi da sé per le performance. E le ha lasciate tali, fidandosi dell’ispirazione iniziale e sopprimendo l’impulso a reinciderle.
Questo approccio coraggioso ha contribuito a mantenere viva l’emozione e fresca la musica. In lutto per la morte della madre e ossessionato dalla natura degli angeli, si è fatto ispirare dall’opera teatrale di Tony Kushner Angels in America e ha composto 90 minuti di musica che spaziano dalle canzoni pop tradizionali (Flowery Days e True Love, che è un duetto allegro con 070 Shake) a R&B (We Have to Be Friends) a jam psichedeliche (Track 10, Let Me Touch You Once). È un disco complesso, ma mai noioso.
L’anno scorso ha anche pubblicato una sorta di prequel, Redcar Les Adorables Étoiles. Scritto dopo aver terminato Paranoïa, esplora il tema della sua transizione di genere e quello della natura dell’amore. All’epoca ha scelto di lavorare a Redcar e di rimandare il compito di trovare il senso di tutto ciò che aveva messo dentro Paranoïa… fino ad oggi. Ora che l’opera magna è finalmente uscita (è finita la sua «ricerca», dice lui, utilizzando un termine che gli è caro), Chris racconta a Rolling Stone che sta imparando solo ora a capire cosa significhi Paranoïa, Angels, True Love. Spiega anche come la creazione di un’opera drammatica tanto ampia abbia influenzato la sua visione del futuro.
Come hai proceduto per creare qualcosa di nuovo con Paranoïa, Angels, True Love?
In pratica mi sono sottoposto ad autoipnosi. Ero interessato ai momenti di abbandono, quelli in cui l’artista sembra solo un tramite. La sfida è stata entrare dentro la musica.
Il disco è un’opera in tre attic: cosa attrae di questa forma?
Quando si parla di opera, inevitabilmente si sa che c’è bisogno di una struttura: una trama, un punto A, un punto B, alcuni personaggi, uno sviluppo narrativo. La mia invece è un’opera frammentata, una sequenza di visioni. Mi interessava questa dimensione allucinatoria. Come in Angels in America, quando Prior sta morendo e vede gli angeli: è come se il tessuto di cui sono fatti spazio e tempo si lacerasse. Ero alla ricerca di sensazioni del genere. Ho riflettuto molto su artisti che, per me, erano forti in termini di presenza scenica, come Nick Cave e i Led Zeppelin. Pensavo alla catarsi dei pezzi Led Zeppelin, che sono viaggi a sé. Ero affamato di sensazioni che fossero concrete e presenti. Volevo essere in grado di esaltarmi, di raggiungere uno stato di trascendenza.
Hai registrato le voci lavorando la mattina presto e improvvisando i testi. Com’è stato? Difficile?
Lavoro così fin dall’inizio. La grande differenza fra questo disco e gli altri è che mi sono imposto di non fare mai più di una take, cosa che non avevo mai fatto in modo così categorico prima d’ora. Ogni mattina portavo una nuova canzone.
Hai chiesto a Madonna di partecipare come voce narrante dell’album, Big Eye, senza però cantare. Perché hai cercato proprio lei?
Con Mike abbiamo trovato una poesia recitata da una voce sintetica che sembrava modellata su quella di Madonna. Mi sono detto che probabilmente è perché è presente nel subconscio di tutti, una scelta rassicurante e al tempo stesso terrificante. Ricordo di aver detto che avrebbe potuto interpretare un personaggio di Broadway da urlo, una creatura ambivalente chiamata Big Eye. Mike si è attivato subito e ha organizzato una call su FaceTime. Lei ha accettato e ha poi inciso tutto rapidamente. Mike è andato un po’ nel panico perché le avevo mandato tante battute da recitare: «Ma cosa hai fatto?». E io: «Be’, è un personaggio». Ha registrato tutte le battute, un momento memorabile.
Quali altri musicisti ammiri?
Penso spesso a Prince e a come non si fermasse mai. Lo capisco. Lo rispetto. Penso che sia il minimo che possiamo fare, se ci viene dato il privilegio di essere dei cacciatori di musica. Voglio rendermi utile.
Secondo te, chi è l’artista che avrà un ruolo fondamentale nel plasmare il futuro della musica?
Deve ancora nascere. Avrà una mente folle, molto sinfonica, e creerà la sinfonia del futuro. Sarà in grado di collaborare al meglio coi computer, cosa che probabilmente ora non avviene.
Cosa ti dà più speranza per il futuro della musica?
La musica stessa. A volte mi sento esausto per tutta questa enfasi sui contenuti, i cazzo di algoritmi, i mi piace, i commenti e… bleah!
C’è qualcosa, invece, che ti preoccupa nel futuro della musica?
Sì, il capitalismo come forza che nessuno mette in discussione e la cultura della fama. La cultura della notorietà portata all’estremo e la pretesa del riconoscimento immediato mi annoiano, non hanno senso. Un certo tipo di arte può richiedere del tempo e la musica non può essere digerita in 10 secondi. Alcune performance sono brutte e bisogna farci i conti. È come se non volessimo più nulla di imperfetto e questo perché lavoriamo con troppe persone che pensano molto ai soldi e non si curano delle emozioni.
Ora c’è anche tanta musica in circolazione, fra cui scegliere. L’arte sembra un prodotto.
Esattamente. Gli artisti hanno l’obbligo di produrre contenuti, ma io, in quanto artista responsabile, preferisco concentrarmi sulle performance. Mi pare che avere a disponsizione troppa musica tutta insieme ci stia soffocando, il che rende difficile anche essere ricettivi nei confronti delle cose nuove. È per questo che sono ossessionato dall’idea di esibirmi e basta, lo concepisco come una specie di appuntamento, ci si incontra da qualche parte, si sa cosa si vuole condividere e lo si condivide. Ed è fantastico: a volte è un po’ meno sorprendente, ma si sta davvero insieme.
Che cosa deve cambiare nei tour degli artisti, in modo che diventino più sostenibili e vivibili, per non dire più accessibili per i fan?
Sono cresciuto andando a vedere grandi opere teatrali e questa cosa mi ha segnato. Ma ricordo che già allora i biglietti erano abbastanza costosi. In realtà ho smesso di fare teatro quando ero più giovane, perché pensavo che fosse troppo elitario, troppo costoso e che non tutti potessero andarci. A volte si presenta lo stesso problema coi concerti (ride). Però credo che si possa trasporre il proprio intento nel lavoro che si fa. Se vuoi organizzare un tour più abbordabile, dovrai pensare a una produzione che tenga conto dei costi, delle spese e di ciò che vuoi raccontare.
È dura però, perché come artista devi anche guadagnare, per poter continuare.
Nel periodo di Redcar volevo fare dei concerti per strada. Pensa a Prince: suonava uno show principale e poi non si fermava, ne faceva subito un altro, in un locale più piccolo. Mi piacerebbe aumentare il ventaglio delle modalità di esibirmi, piuttosto che cadere nella trappola dei contenuti e dei selfie e non interagire mai più con delle persone reali. Quindi, probabilmente, dovremmo fare più performance gratuite. Inoltre, mi pare che come artisti siamo molto isolati. Per cui, forse, la risposta dovrebbe arrivare da un collettivo di artisti che discutono ad alto livello su come rendere tutta la situazione più sana: non credo che sarei in grado di trovare delle soluzioni da solo.
Redcar era incentrato sulla tua transizione di genere. In che modo questo tuo percorso ha stimolato la tua creatività?
Adesso canto in modo più completo, perché mi sento a mio agio. Ho iniziato a esprimere la mia vera natura molto presto, nel mio lavoro. La seconda canzone che ho scritto è stata iT (in cui canta: “Ora lei è un uomo / E non possiamo fare nulla / Per farle cambiare idea”, nda). Sento di voler essere meno cerebrale riguardo al mio genere e di volerlo semplicemente accettare. Voglio diventare un grande produttore, un grande poeta, un performer folle, ma senza farmi troppo male, mi sono già rotto una gamba.
Dichiarare la tua identità di genere ha cambiato il tuo modo di cantare?
Il mio registro si è molto ampliato. È più aperto. Quando ero giovane, ero molto meticoloso quando cantavo, avevo il terrore di rovinarmi la voce. Non ero felice ed era solo un risultato della tensione che provavo. Ora vado semplicemente in alto e in basso, deciso, come un cavallo al galoppo. È una bella sensazione. È bello cantare, essere se stessi. Pensa a Freddie Mercury: lui cantava senza limiti. Ci manca tanto. Il futuro della musica è Freddie Mercury che torna sulla Terra (ride).
Da Rolling Stone US.