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Com’è essere il braccio destro di Paul McCartney?

Intervista a Rusty Anderson, chitarrista di Macca da oltre vent’anni: le prove, i grandi eventi, i concerti di fronte a Putin e Clinton, le richieste degli amici, lo shock e l’emozione di lavorare con un Beatle

Foto: Kevin Mazur/Getty Images

Sono 22 anni che Rusty Anderson fa musica con Paul McCartney. Non è soltanto il chitarrista principale della sua touring band, ma ha suonato in tutti gli album incisi da Macca dall’inizio del millennio, con l’eccezione della raccolta di standard jazz Kisses on the Bottom del 2012. Tanto per fare un confronto numerico, la partnership creativa di McCartney con John Lennon è durata 14 anni, i Wings si sono sciolti dopo un decennio.

Con McCartney, Anderson ha suonato centinaia di volte canzoni come Helter Skelter, Yesterday, Hey Jude e Let It Be che i quattro Beatles hanno suonato assieme, in alcuni casi, solo quando le hanno incise in studio. «Cerco di non pensarci troppo», dice Anderson parlando dal suo studio di registrazione di Malibu, California. «Provo solo a essere grato per la fortuna che ho avuto».

Negli ultimi vent’anni Anderson è stato in tour con McCartney e ha suonato nei suoi dischi, ma ha lavorato anche con Stevie Nicks, Elton John, Miley Cyrus, Lana Del Rey e tanti altri. La sua chitarra si sente anche in Livin’ la Vida Loca di Ricky Martin, Walk Like an Egyptian delle Bangles, You Get What You Give dei New Radicals e nella versione originale di Torn di Natalie Imbruglia, incisa per la prima volta dagli Ednaswap, la band di Anderson degli anni ’90.

Molto prima di sentire la sua chitarra uscire dalle autoradio negli anni ’80 e ’90 o dagli altoparlanti degli stadi di calcio negli anni 2000, Anderson era un ragazzino di La Habra, California, che adorava i Beatles. «Da bambino facevo un sogno ricorrente: i Beatles si presentavano alla porta di casa mia coi loro strumenti. Suonavano il campanello e mi dicevano: “Ehi, ti va di suonare con noi?”».

Raccontami del tuo primo incontro con Paul McCartney.
David [Kahne] mi ha detto che avrebbe lavorato al nuovo disco di Paul McCartney. Io: «Fantastico, se hai bisogno di qualcuno che suoni la chitarra, fammi un fischio». E lui: «Stavo pensando la stessa cosa». Non l’ho detto a nessuno, ma due mesi dopo ero agli Henson Studios [a Los Angeles] dove nel giro di mezz’ora ho cominciato a jammare con Paul e i suoi. Oh, siamo parlando Paul McCartney! Lui è affabile e amichevole, ma mi ci sono voluti un po’ di giorni per abituarmi alla sua presenza, una figura quasi mitica con cui potevo chiacchierare. La cosa bella della musica è che si può comunicare suonando e ci si concentra su quello.

Pensavi che sarebbe stato un impegno sporadico, come con Elton John o Neil Diamond?
Credo che l’idea fosse da subito quella di suonare anche dal vivo. Mai però dare qualcosa per scontato, si sentono tante cose che poi non si concretizzano. Non saprei dirti quante volte, soprattutto quando ero adolescente o avevo vent’anni, sembrava che fosse fatta, e invece la gente diceva cazzate o cambiava idea. Cerco di non dare nulla per scontato. C’è voluto un po’ di tempo. E prima di andare in tour abbiamo fatto il Concert for New York City.

Era la prima volta che suonavi su un palco con Paul?
La seconda. La prima è stata per una piccola serata di beneficenza in cui abbiamo fatto solo qualche canzone. Il concerto per New York è stato pazzesco. Eccomi all’improvviso nella sua orbita e per di più a un evento come quello. In quel momenti tutti avevano paura di volare. Drew Barrymore non voleva nemmeno salirci, su un aereo. Anzi, nessuno voleva salire su un aereo, neppure io. Ma poi ho pensato: «Se lo fa Paul, posso farlo anch’io». Così ho preso l’aereo e, arrivato là, all’improvviso mi sono sentito dire: «Ecco Pete Townshend. C’è Eric Clapton. Gli Stones sono qui», un vero e proprio who’s who. C’era anche il presidente Clinton. Cioè, in carica c’era Bush, ma era presidente da poco. Insomma, erano tutti lì.

Paul non andava in tournée da quasi dieci anni. Come vi siete preparati per il tour del 2002?
La preparazione è stata dura, anche se conoscevo bene molte delle canzoni dei Beatles e le più importanti di Paul McCartney. Poi una volta che inizi a ingranare…

Chi ti ha detto che ci sarebbe stato un tour e che avresti partecipato?
Probabilmente è stato [il promoter] Barrie Marshall. Lavora con Paul da sempre. È un tipo straordinario, ha anche ricevuto una qualche onorificenza inglese. È meraviglioso, è Mister Dettagli ed è sempre sul pezzo. La cosa era nell’aria, all’improvviso si è creata una squadra e la macchina è partita. In un tour piccolo ti tocca gestire tante cose in prima persona, ma quando c’è una macchina organizzativa del genere non devi più preoccuparti di nulla.

Il tour del 2002 è stato emozionante visto che lui mancava da tanto tempo. Sono sicuro che hai sentito una grande energia sul palco.
Mai visto niente di simile. Fare concerti con Paul e raccogliere tutti quegli apprezzamenti, guardare il pubblico, vedere la gente piangere… è roba intensa. Devi distogliere lo sguardo o rischi di farti travolgere.

Imparare tutti quei pezzi ha cambiato il tuo giudizio su George e John come chitarristi?
È incredibile, ancora oggi, vedere l’evoluzione di George alla chitarra, le sue capacità, le sue influenze… anche Paul ha scritto molte parti di chitarra. Si aiutavano a vicenda. Era incredibile. E Ringo ha inventato per caso dei versi chiave dei testi o dei titoli di canzoni. È così che lavoravano insieme.
I Beatles erano una gang. Erano una band. Erano amici. Anche se poi si sente dire: «Oh, John e Paul hanno scritto la maggior parte delle canzoni». Ciò che mi ha rincuorato, nel vedere Get Back, è stato il rispetto reciproco che avevano, quanto si volevano bene, si stimavano ed erano molto attenti gli uni agli altri. Era bellissimo. Questa è stata la cosa che ho capito da bambino, a cinque anni, insieme alle loro canzoni incredibili e al loro sound. Sono loro che mi hanno fatto apprezzare la musica.

Hotel a cinque stelle, jet privati, grandi palasport: era roba nuova per te, nel 2002.
Assolutamente sì. Era una situazione molto più di alto profilo rispetto a qualsiasi altra cosa avessi fatto prima. Se mi fosse capitato a 20 anni, sarebbe stato quasi un problema. Mi sento male a pensare alle star che hanno iniziato da bambini, tipo Michael Jackson, perché non possono mettere le cose nella giusta prospettiva e apprezzarle.

Chissà quante persone ti chiedono biglietti dei concerto o di fare un selfie con Paul, di venire nel backstage o di passare a Paul un messaggio da parte loro. Deve essere estenuante.
Anche qui, devi imparare a gestire le situazioni. Al primo concerto che ho fatto c’era gente che mi diceva: «Ho questo vecchio album dei Beatles firmato dalla band. Mi manca solo l’autografo di Paul!». All’improvviso ti fai degli “amici” che in realtà vogliono qualcosa da te. Ho sempre cercato di essere gentile, poi mi sono reso conto che non andava bene e che dovevo proteggere il mio spazio, lo spazio di Paul e quello di tutti. Lui convive con queste cose da una vita, eppure riesce ancora a essere fantastico e incredibilmente generoso. Notevole. Ecco un’altra cosa che ho imparato: ci sono ruoli in cui uno deve sapersi calare, in queste situazioni. Un momento sei al centro di un palasport o di uno stadio e stai suonando, il giorno dopo sei  solo, nel tuo salotto e se ne sono andati tutti. Mi ci sono abituato. Mi piace. Fa parte del gioco. Ma ci ho messo anni per metabolizzarlo.

Ci sono canzoni come Being for the Benefit of Mr. Kite che non sono state concepite per essere suonate dal vivo e infatti non è mai successo al tempo dei Beatles. Come si fa ad adattare un pezzo del genere alla dimensione live?
Paul va il premio di artista più eclettico della storia. Nel White Album c’erano sia Blackbird che Helter Skelter. Il senso del tour è proprio questo e io ho lo stesso approccio alla musica. Del resto, se prendi le playlist della maggior parte delle persone, non ci sono solo reggae o solo heavy metal o solo pop, c’è un mix. È un approccio artisticamente più sano ed è una cosa che mi ha sempre entusiasmato.

Prendi She’s Leaving Home. È stato interessante rifarla perché ci sono tante parti d’arpa e orchestrali. Brian e io abbiamo trascritto quelle d’arpa. Ho preso quelle nella tonalità alta e Brian quella nella bassa e abbiamo messo tutto insieme. Wix ha suonato molto del materiale orchestrale e qualche partitura d’arpa. Abbiamo aggiunto un po’ di effetto delay sulle chitarre acustiche e, all’improvviso, abbiamo iniziato ad avvicinarci alla versione in studio. Nell’originale non c’è la batteria, ma in qualche modo ha funzionato. La gente ha apprezzato. È stato divertente. In un certo senso è stato come reimmaginare la canzone.

Un pezzo come Love Me Do è decisamente diverso, è più semplice e lo facevano anche dal vivo, ai tempi.
È questo il punto. Dagli anni ’60 la musica si è evoluta, sono successe tantissime cose in poco tempo. È stato come se nel breve arco di quel decennio fosse stata applicata la legge di Moore. Era un periodo di grandi novità: all’improvviso, tutti volevano il fuzz, la gente usava il tremolo e il Leslie e tecniche che prima non esistevano. I Beatles e Jimi Hendrix sono stati all’avanguardia in questo campo. Ed è davvero bello passare da Love Me Do ai brani di Sgt. Pepper.

Hai suonato troppi concerti per poterli analizzare in questa sede, ma voglio citartene qualcuno e sentire i tuoi ricordi. Cominciamo con l’Halftime Show del Super Bowl, nel 2005.
Il Super Bowl è una situazione a sé: hai pochissimo tempo a disposizione. I costi di produzione e i prezzi delle pubblicità sono alle stelle e quindi le canzoni devono essere tagliate e non ci devono essere pause tra un pezzo e l’altro. Hanno creato dal nulla un palco intero. Noi eravamo in piedi su dei pannelli luminosi. E tutto questo in mezzo al campo di gioco. È stato tutto incredibilmente rapido. Siamo corsi sul palco, abbiamo suonato. C’era un pubblico di figuranti, proprio davanti a noi. Hanno detto a queste persone: «Indossate tutti magliette di colori diversi». Era tutto programmato. Siamo scesi dal palco, ci siamo detto «è stato fantastico!», siamo andati a sederci ai nostri posti per vedere la partita e… il palco era già sparito. È stata un’esperienza surreale.

Deve essere strano sapere che ci sono milioni di persone che ti guardano suonare.
Sì, anche se suonare per una sola persona è più difficile. Con il pubblico c’è una sorta di patto, di fronte a una telecamera è un’altra cosa. Non puoi suscitare reazioni in una telecamera, non hai idea di chi stia guardando, non hai il controllo della situazione.

Com’è stato suonare nella Piazza Rossa, a Mosca?
Un trip. C’erano i cecchini sui tetti. Abbiamo persino incontrato Gorbaciov. È stato incredibile. Ricordo che a metà dello spettacolo, all’improvviso, è arrivato Putin. Era con i suoi uomini, le sue guardie. Ho visto del movimento, è arrivato fino al posto più centrale, si è seduto e si è messo a guardare. Ironia della sorte, stavamo suonando Calico Skies: parla proprio delle armi da guerra che disprezziamo. È la canzone di Paul che più si avvicina a un brano di protesta.

Ai Grammy del 2012 avete suonato il medley di Abbey Road, in chiusura. Eravate tu, Springsteen, Dave Grohl, Joe Walsh e Paul a fare gli assolo alla fine. Com’è stato?
Quando fai una cosa del genere, con tre chitarre, ti devi mettere bene d’accordo: «Tu vai per primo, tu per secondo…». Devi sempre tenere d’occhio l’ordine, chi ha appena suonato, a chi tocca dopo. Però ha funzionato. È stato molto divertente, una vera celebrazione. Ecco, celebrazione è una parola che uso spesso, perché suonare questi concerti con Paul lo è. È la celebrazione della sua figura, di questa musica incredibile e dei Beatles. È la celebrazione di un’epoca, della vita delle persone. Tutto insieme.

Quando dividi il microfono con Paul per la coda “love you”, alla fine, fai la parte di John.
Sì. L’ho fatto tante volte ormai. È divertente. È solo un momento, ma so bene cosa significa. Mi reputo molto, molto fortunato.

Ringo ha suonato con voi al Dodger Stadium e in un paio di altri show speciali. Dev’essere stato divertente: hai suonato con metà dei Beatles.
Sì, è stato un vero sballo. Ringo è uno in gamba. Anche quando suona una parte molto semplice, riesce a esprimersi in un modo davvero fantastico. Abe segue Ringo oppure Ringo segue Abe. Si capiscono e tutti insieme ci amalgamiamo. Quando Ringo e Paul sono insieme, tutto diventa molto alla Beatles. È elettrizzante.

Ci sono canzoni dei Beatles che non hai ancora suonato dal vivo e che speri di fare, un giorno?
Ce ne sono certe che abbiamo fatto durante le prove, ma non sono finite in scaletta. Io ho anche suggerito delle canzoni. Tutti l’abbiamo fatto. Ho proposto io Getting Better e Helter Skelter. I pezzi sono tutti lì, come frutti sull’albero che aspettano di essere colti. E dici: «Quel frutto sarebbe fantastico. Quell’altro potrebbe essere un po’ difficile da fare». Con Getting Better è accaduto tutto piuttosto in fretta ed è stato fantastico. Helter Skelter l’ho suggerita io e Paul ha detto di sì, ma abbiamo iniziato a farla più avanti. Ricordo che c’era un pre-show con dei ballerini, in una specie di atmosfera alla Cirque du Soleil. Noi stavamo provando e loro erano tra il pubblico. Abbiamo attccato Helter Skelter e tutti hanno iniziato a ballare come matti. Così Paul ha pensato: «Ah, ma allora funzionerà».

Avete fatto anche A Hard Day’s Night, che non era mai stata suonata prima dal vivo.
È stato Paul a proporla e mi ha davvero stupito che l’abbia fatto. Per qualche motivo, gli è venuto in mente che sarebbe stata una buona apertura.

Il primo accordo del pezzo è famosissimo. Per decenni si è dibattuto su chi abbia suonato cosa, per creare quell’accordo. Come avete fatto a capirlo?
È stato complicato. Ci sono molti video su YouTube che spiegano: «Ecco come hanno fatto!». E capisci: «Oh, non è un solo strumento. C’è il basso, l’acustica e non è che c’è anche un pianoforte?». Abbiamo fatto qualche ricerca e ci siamo arrivati. Poi abbiamo trovato un modo per far sì che ognuno suonasse la sua parte speciale. E infine il fonico deve mixare bene il tutto. Tutti gli elementi si devono unire per creare quell’accordo. È un momento magnifico.

Tutto quel lavoro per un secondo circa di suono.
Esatto. Questo è un aspetto del fare musica. Quando si sale sul palco e si suona tutta questa musica insieme, passando da una canzone all’altra, non credo che il pubblico sia consapevole del fatto che ci sono parti difficili da suonare che bisogna provare più volte per far sì che le dita ci riescano. Poi ci sono parti facili e veloci, che suoni senza pensarci. L’unione di tutti questi elementi crea la magia di una buona performance dal vivo.

Mi stupisce che, a 80 anni, Paul riesca ancora a suonare per tre ore a sera. È quasi un miracolo.
Lo è per davvero. Lui sfida l’età, non ci pensa proprio. Una volta gli ho chiesto: «È strano, Paul, che tu non ti lamenti mai di nulla, della tua salute o altro». È il suo superpotere, invecchiare senza lamentarsi. Mi ha risposto: «Quando ero bambino, sentivo tutte queste persone anziane che si incontravano e si lamentavano della loro artrite reumatoide e cose del genere. Io mi dicevo: “Pendi nota: tu non diventerai mai così”». Grazie al suo DNA e alla sua mentalità, credo riesca a mantenersi sano, vitale e creativo.

Quanto tempo passi con lui giù dal palco?
Dipende. Quando si va in tournée si passa molto tempo tutti assieme, la band e Paul. Ceniamo, viaggiamo assieme in aereo, facciamo le prove nel backstage. Quando entriamo in pausa, di tanto in tanto ci mandiamo dei messaggi, ci telefoniamo, magari andiamo a cena insieme. È più o meno così che funziona. Come quando con un amico ti vedi una volta alla settimana. Quando sei in tournée con delle persone, invece, è tutto molto condensato. Vedi spessissimo questa gente, per cui, quando sei in pausa, non ti viene da uscirci insieme sempre, anche perché hai altri amici da frequentare, a casa.

Ho incontrato Paul un paio di volte e ho visto cosa accade quando te lo trovi davanti per la prima volta: anche le persone più ciniche del mondo si bloccano e rimangono imbambolate. Tu devi avere visto spesso scene simili.
Oh mio Dio, sì. Anche alcuni membri della mia famiglia gli hanno detto delle cose davvero stupide. Ho sempre pensato che sia una cosa difficilissima: come fai a parlare con Paul? Voglio dire, al massimo lo saluti. Ci sono passato anch’io. Vorresti subito fare amicizia con lui, ma se sai che lo incontrerai solo quella volta, soltanto per un istante, ti viene da provare a dirgli qualcosa di intelligente. Non è una situazione normale, devi fare i conti con anni e anni di martellamento mediatico che ti ha inondato la testa. Non riesci a separare le due cose.

Che programmi hai per i prossimi cinque anni?
Pubblicare molta musica mia: ho già qualcosa in cantiere e uscirà presto. Voglio fare più concerti con Paul e anche passare del tempo con mia figlia di 12 anni e la mia famiglia. Poi ho fatto anche delle colonne sonore. Ho appena lavorato a un cortometraggio per un amico. Un altro mio brano è finito in un documentario. Il nome del regista è Donick Cary. È un bravissimo autore che ha lavorato ai Simpson e a Parks and Recreation e ha girato un bel documentario sui nativi americani. Mi ha ispirato un brano musicale che poi lui ha utilizzato: la cosa mi ha fatto molto piacere. Mi piacerebbe fare più colonne sonore, ma non puoi prevedere esattamente cosa farai.

Non vedo perché Paul non possa continuare a fare spettacoli anche a 90 anni, no?
Vero. Ma ho smesso anni fa di cercare di fare previsioni.

Da Rolling Stone US.

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