Come molti collaboratori di Prince, Levi Seacer Jr. parla del suo capo al presente, come se fosse ancora qui. Seacer era il bassista della touring band di Prince dopo la separazione dai Revolution: è arrivato poco prima dell’uscita di Sign O’ the Times, nel 1987, ed è rimasto nella formazione fino a quando la band non si è trasformata nei New Power Generation, dove è passato alla chitarra. In occasione della nuova gigantesca versione di Sign O’ the Times – ne abbiamo parlato qui –, il bassista ci ha raccontato com’era lavorare con Prince, che ha conosciuto grazie a Sheila E.
Com’è stato il vostro primo incontro?
Non ho mai raccontato prima questa storia, ma sarei dovuto entrare a far parte del suo gruppo di protégé, la Family. Facevo fusion con Sheila E. nei club della Bay Area. Nella Family c’erano problemi col chitarrista. Sheila ha fatto il mio nome e sono andato in Minnesota. Ho fatto l’audizione con Jerome Benton e Jellybean Johnson e ho avuto il posto.
La mattina dopo mi hanno detto che Prince voleva parlarmi. Mi ha detto che suonavo benissimo, ma che doveva rimandarmi indietro e che mi avrebbe presto spiegato tutto. Prince è poi venuto nella Bay Area e ha suonato con Sheila in un club, dove mi avevano invitato. Mi ha detto che gli era piaciuto il mio modo di suonare, che era sicuro che saebbe venuto fuori qualcosa anche per me. Ma che doveva impartire una lezione a qualcuno che pensava di non essere rimpiazzabile. «Io stesso non ero sicuro di poterlo rimpiazzare», mi disse. Era la tipica mossa alla James Brown, che aveva sempre due o tre band a disposizione.
Nel 1985, quando Sheila ha fatto l’album Romance 1600 (co-prodotto da Prince, ndr), ha fatto delle audizioni per il posto di bassista. L’ho avuto io. Prince si ricordava di me. Gli ho detto che ora suonavo il basso per Sheila e si è messo a ridere, perché anche lui suona tanti strumenti diversi. Insomma, il nostro primo incontro è stato dolceamaro.
Prima di entrare nella band post Revolution avevi già passato del tempo con lui, vero?
Prince veniva spesso alle prove di Sheila, quindi lo conoscevo bene. Passava del tempo con noi. Avevamo una buona idea di come sarebbe stato suonare insieme, almeno all’80%.
Quando sei entrato ufficialmente nella sua band, le registrazioni di Sign O’ the Times erano già finite?
Era al 90%. Ci ha dato una copia e ci ha detto: «Qui le cose funzionano così. Prendo le prove molto sul serio. Ogni sera vi darò due o tre canzoni da imparare, e con imparare intendo che il giorno dopo dovranno suonare come sul disco». Ci ha anche spiegato che le prove non servivano per studiare le canzoni: «Imparate i pezzi da qualche altra parte. Io uso le prove per cambiare le canzoni. E non posso farlo finché non le conoscete da cima a fondo». Insomma, in dieci giorni avevamo pronti i brani di tre album, dall’inizio alla fine. A quel punto ha fatto dei cambiamenti pesanti. Lui toglieva intere sezioni e noi pensavamo: oh cavolo, ho appena passato due ore a studiare quella parte.
Che cosa c’era di diverso rispetto alle serate che passavate con Sheila?
Puoi vederlo con i tuoi occhi: basta guardare la foto di quel periodo in cui indossa il completo arancione e ha gli occhiali da lettura. Studiava quei brani mentre li produceva. Era il professore del suo college privato. Attraversava una fase molto sperimentale, si avvicinava a limiti che non aveva mai toccato. Tutti gli artisti arrivano al picco con un album. Sign O’ the Times è il suo Songs in the Key of Life.
Com’era suonare il basso e poi la chitarra per un musicista così abile come Prince?
Se non riuscivi a suonare come lui, perdevi il posto. Non ci sono molti artisti che riescono a sentire una cosa e risuonarla subito. Michael Jackson convocava un sacco di bassisti famosi e dava loro piccole idee. Ma non poteva prendere in mano lo strumento e fargli vedere la parte. Senza nulla togliere a Michael. James Brown canticchiava le parti. Prince le suonava esattamente com’erano sul disco, e oltre. Il suo obiettivo era sempre avvicinarsi il più possibile alla registrazione. Se non gli stavi dietro, finivi sul primo aereo verso casa (ride).
Il cofanetto è pieno di inediti fantastici. Tu hai capito come sceglieva i pezzi da pubblicare?
Una volta ha detto: «È difficile, ma bisogna fare scelte spirituali. L’ego cerca le hit, lo spirito riconosce i brani che pur non diventando hit hanno uno scopo e devono entrare nel disco». Non è facile. Anche con le hit. Una volta mi ha detto che voleva farmi sentire una cosa e il suo fonico ha messo su When Doves Cry suonata con un’orchestra di 100 elementi. Gli ho chiesto come avesse fatto a togliere tutto e lasciare solo voce e batteria. Mi ha risposto: «Levi, è stata una delle decisioni più difficili di tutta la mia vita».
Com’è stato vivere al suo incredibile ritmo produttivo?
Te lo spiego con una storia. Avevamo appena finito Diamond and Pearls, il disco del 1991, e alla Warner Bros pensavano che non ci fosse un singolo di lancio. In quel periodo prendevo parte a quelle riunioni al posto di Prince. Un giorno gli ho detto quello che pensava Warner. Mi ha risposto: «Cosa? È impossibile!», e poi: «Ok, ci vediamo domani». Mi ha telefonato sei ore dopo. Aveva scritto Cream. Non solo, aveva anche registrato il 70% degli strumenti. Al che mi ha chiesto: «Pensi che gli possa piacere?» Beh, sì.
Questo articolo è stato tradotto da Rolling Stone US.