In un momento in cui nel nuovo pop italiano latita chi prende posizione, e la malinconia si compra al supermercato, Cimini è un’eccezione. «Ci sono temi, ovvero le grandi battaglie di prima della pandemia, sui quali non posso restare zitto», ci dice parlando delle canzoni di Pubblicità, il suo nuovo disco uscito oggi. Chiaro: il filtro è la citazione, il ritornello catchy, l’autoironia; ma siamo lì, questa è musica «di società». Tradotto: «Parità di genere, ecologia, immigrazione. Mi spiace che purtroppo si debba combattere ancora in merito, vorrei non ce ne fosse bisogno». E poi, appunto, una tristezza intima e sincera, che coincide coi bilanci dei 30 anni, di quando «ti chiedi se fare l’artista, con tutti i dubbi e il precariato del caso, sia la scelta giusta», e la nostalgia di casa.
Cimini è Federico Cimini, calabrese di marca provinciale da dove «non c’è niente», che a 18 anni se ne è andato in direzione Bologna «e non perché avessi voglia di studiare, ma perché sentivo il bisogno di scappare». In città dopo album di rodaggio e il cattivo pensiero di smetterla con la musica, è entrato in contatto con Garrincha Dischi, l’etichetta di Ex-Otago e soprattutto de Lo Stato Sociale. Che nel 2018 gli ha prodotto Ancora meglio – «un lavoro fondamentale per farmi capire che ho anch’io un pubblico, un pubblico che mi capisce» – e ora fa il bis con Pubblicità. Meno elettro-pop, sempre in zona nuovo pop italiano ma guardandosi bene indietro: sintetizzatori in bella vista, na-na-na al posto giusto, ritornelli ariosi e micidiali, ammiccamenti alla tradizione da Battisti a Rino Gaetano, dal primo Vasco a Cremonini. Ammette: «Non voglio fare quello che ascolta solo questa roba: sento pure i Phoenix o i Vampire Weekend, per dirti due nomi; ma è innegabile che queste canzoni sono una grande madre, perfetta per la lingua che usiamo. C’è sempre quell’amico che ne sa in fissa con gruppi super di nicchia, internazionali. Io sono stato ascritto alla corrente indie italiana. Non mi importa di niente, vado per la mia strada».
E va detto che questo nuovo capitolo – preprodotto, tra l’altro, da Carota dello Stato Sociale – sa farsi gli affari propri, sottraendosi al gioco delle somiglianze. Da una parte i temi sociali, «che in parte avevo già affrontato, ma sui quali stavolta ho voluto aprirmi davvero», per onestà e per arricchire il discorso precedente. Prendere scuse, che ironica descrive una scena disinteressata al mondo circostante, fra qualunquismi e luoghi comuni, e che sembra una Deviazioni 2.0. Canta: “Parto da Itaca e trovo i porti chiusi”. «Ma non so da dove nasca il disimpegno dei nuovi. Forse dalla voglia di contrapporsi ai padri, che erano schierati». Dall’altra parte, Karaoke, un brano che mostra una scrittura interessante, zeppa di citazioni appunto da karaoke, ma con prospettiva da film. O meglio: «Mi sono immaginato una storia impossibile, con lui che cerca di conquistarla facendosi notare al karaoke. E dire che parte dell’ispirazione mi è venuta vedendo i post di una ragazza che conosco, che la sera andava a cantare». E le frasi tagliate e incollate dalle varie Cuccurucucù, Gianna e Piange il telefono? Ride: «Erano il contorno perfetto alla storia. E poi mi piace parlare per citazioni, che siano canzoni o film».
Film, appunto, come The Truman Show, che invece ispira Hey Truman, sostanzialmente un power pop sulle nostre vite di plastica tutte file al supermercato, fedina “che resta pulita” e in cui “il centro sociale più vicino è la Snai”. Spiega: «Viviamo con l’ossessione consumistica del benessere, dentro un’enorme pubblicità. Ci sentiamo osservati da questo Grande Fratello; ma al contempo vorremmo vincerlo, il Grande Fratello», riflette. Ma come se ne esce? Con gli amori impossibili, «che finiscono male, ci fanno lottare e non annoiano»; e con il bello della sfiga, che è «l’autoironia» di sorta.
Però la malinconia – in un Pubblicità che già al titolo rimanda «ai momenti d’attesa, che mi mettono ansia come gli intermezzi-spot in tv» – alla fine ritorna sempre. Per esempio, Domenica mattina con i suoi quadretti si inserisce nella tradizione delle canzoni italiane sulla domenica, tutte ovviamente devastanti. Cimini come la vive? «È il momento dei postumi, e spero sarà così a lungo. Il contrasto che preferisco è quello fra lo svegliarsi coi mattoni in testa e la messa in tv».
Per Innamorato, invece, ha pensato a una “Tirreno session” (vedi qui sopra), un live invernale sul Tirreno, «nel posto in Calabria in cui sono sempre andato al mare, in cui torno ogni anno e in cui sono cresciuto». L’idea, ci spiega, gli «è venuta da notte», e forse è un modo per riunire la sua musica nata a Bologna con le radici. La ballata Tirreno, in questo senso, è pura distopia metropolitana da fuorisede: sul telefono, le stories degli amici rimasti in provincia, che vanno in spiaggia e si divertono; intorno, una stanza fredda a Bologna, il buio alla finestra, i rider, la desolazione. «Ogni età ha la sua malinconia. Questa è una ragazza di 19 anni che si chiede se ne è valsa la pena, ad andarsene da casa. La risposta è sì: perché doveva per forza scappare». E perché con la nostalgia, poi, ci ha scritto questo disco qui.