«Per me è un esperimento artistico. Per Rob Gretton serve a dare un’alternativa alla gente. Per Alan Erasmus è un modo per non annoiarsi. Ognuno di noi ha i propri motivi». Rispondeva così Tony Wilson a chi gli domandava perché un anchorman televisivo si fosse messo in testa di fondare una casa discografica. Esperimento riuscito piuttosto bene, se è vero che con il suo mix di musica, tecnologia e design la Factory si è ritagliata un ruolo di primissimo piano nella storia del rock inglese e non solo, pubblicando gli album di band come Joy Division, New Order, Happy Mondays e Durutti Column.
I primi anni di vita dell’etichetta, quelli che vanno dal 1978 al 1982, sono al centro di Use Hearing Protection, mostra appena inaugurata al Museo della Scienza e dell’Industria di Manchester, dove rimarrà aperta al pubblico fino al 3 gennaio 2022. In esposizione, oltre a copertine di dischi, poster di concerti, fotografie e lettere originali, anche oggetti che negli ultimi trent’anni non era mai stato possibile ammirare, come la chitarra Vox Phantom suonata da Ian Curtis nel video di Love Will Tear Us Apart. Molti degli oggetti in mostra provengono dalla collezione di memorabilia dei Joy Division di Jon Savage, uno dei più autorevoli giornalisti musicali britannici in materia di punk (basti pensare a una bibbia come Il sogno inglese) e post punk (sua, per esempio, la “storia orale” dei Joy Division pubblicata in Italia da Rizzoli Lizard).
Impegnato negli ultimi ritocchi prima dell’apertura, Savage ci parla con entusiasmo da Manchester. «La mostra è molto ben progettata» dice. «Ben Kelly, il designer dell’Haçienda, ha fatto un ottimo lavoro. Io ho dato consigli sui materiali da esporre e sui concept delle varie sezioni. Oltre a esserci molto materiale che non era mai stato esposto in precedenza, la mostra presenta chiavi di lettura inedite rispetto alla storia della Factory: penso alla sezione sulla tecnologia e soprattutto a quella sul ruolo della donna».
Come detto, Use Hearing Protection si concentra sui primi anni di vita del progetto messo in piedi da Tony Wilson e Alan Erasmus, attore di seconda fila con al suo attivo la partecipazione a un film per la tv diretto da Mike Leigh. Quelli tra il 1978 e il 1982 furono decisamente anni intensi, basti pensare alla parabola dei Joy Division e all’apertura dell’Haçienda, un club destinato a fare la storia. «La Factory dei primi anni era speciale» dice ancora Savage. «Peter Saville una volta ha detto che tutti, all’interno o attorno a essa, erano satelliti di Tony Wilson. Lui era il sole attorno al quale tutti giravano. Era molto bravo a individuare il talento e a dare a chi ce l’aveva l’opportunità di esercitarlo. A modo suo era un impresario [in italiano]. Rob Gretton, il manager dei Joy Division, fu altrettanto importante: vide il genio nei Joy Division e poi sviluppò l’etica dell’indipendenza che caratterizzò tutto il progetto. Alan Erasmus fornì l’ispirazione e il sostegno pratico, Martin Hannett portò il Suono, con la S maiuscola, e Peter Saville il Look. Tutte queste cose hanno avuto un’importanza incalcolabile nella storia della Factory».
Oggi Peter Saville è forse il designer britannico più famoso, uno che nella sua carriera ha persino disegnato la maglia della nazionale di calcio e il logo di Burberry, ma dal suo studio di Clerkenwell a Londra ci dice che nulla è stato come lavorare per la Factory. «Era qualcosa di completamente diverso da qualsiasi situazione io mi sia trovato a vivere in seguito. Il ruolo di cofondatore del progetto mi permetteva di essere autonomo nell’utilizzare i miei artwork come mezzo per esprimere le mie emozioni e le mie intenzioni all’interno della cultura pop del tempo. Nel campo del design della comunicazione è praticamente impossibile essere così liberi, perché si tratta di un campo che per sua natura richiede di esercitare la propria professionalità al servizio degli altri. Il mio lavoro alla Factory, invece, era quasi interamente personale. Chiaramente ho sempre fatto del mio meglio per tenere conto delle opinioni degli altri, per esempio dei membri della band per cui progettavo una copertina, ma non sempre ci sono riuscito. A volte, con il senno di poi, ci sono state un po’ di critiche, fatte però solitamente in modo scherzoso e mai fini a se stesse. In definitiva il tempo ha giocato a favore della percezione del mio lavoro per la Factory, e penso che questo valga anche per i musicisti per i quali ho lavorato».
Oggi “iconico” è una parola decisamente abusata, anche a proposito dei dischi e delle loro copertine. Ma per quelle di Unknown Pleasures e Blue Monday, entrambe opera di Saville, è difficile trovare aggettivi più appropriati, anche pensando alla musica per la quale sono state concepite.
Quella della Factory è però anche una storia di uscite di culto, di oggetti d’arte conosciuti a pochi ma in grado di ispirare colori i quali li hanno tenuti tra le mani, oltre che ascoltati. «Nei primi anni mi piacque davvero tanto All Night Party, il primo singolo degli A Certain Ratio», dice ancora Jon Savage, «sia per la musica sia per la copertina, ma la vera chicca era l’adesivo appiccicato sopra, dove c’era scritto “Edizione speciale limitata di 1000 copie su vinile di bassa qualità”. Peter Saville ci fece anche una maglietta. La storia di quella copertina è particolare. Gli A Certain Ratio avevano dato a Peter un’immagine del cadavere di Lenny Bruce, morto per overdose. Erano suoi fan e pensavano che una foto del genere fosse adatta, anche perché il testo della canzone parlava di una persona che conduce una vita sregolata. Un po’ per l’argomento e un po’ per problemi tecnici, la Factory decise ripiegare su un’immagine di Andy Warhol della sua serie Death and Disaster, in cui immagini molto forti venivano usate per mostrare gli effetti della violenza nei mass media. Sul retro della copertina e sull’etichetta, invece, c’è un’immagine di Anthony Perkins in Psycho di Hitchcock».
Peter Saville ha idee molto chiare sul processo che rende iconica una copertina, ma nella storia della Factory ci sono anche interessanti anomalie. «Ovviamente, nella maggior parte dei casi, migliore è il disco e più la copertina diventa iconica. Un album che fa eccezione è Always Now, l’esordio dei Section 25, uscito nel 1981. Si tratta di una delle copertine più elaborate di tutto il catalogo Factory. La parte esterna della copertina era come una grande busta gialla per lettere, rivestita all’interno di carta marmorizzata e chiusa all’esterno da un sigillo rosso. Quest’ultimo rappresentava l’Oriente giustapposto all’Europa, rappresentata invece dalla carta marmorizzata e dall’uso del carattere tipografico Bembo, inventato alla fine del Quattrocento dal tipografo Francesco da Bologna. In quel caso la copertina ha suscitato aspettative fuori misura per quello che dopotutto era il debutto di una band non ancora adulta».
Per Jon Savage proprio i Section 25 sono la band più sottovalutata dei primi anni della Factory. «Non hanno avuto il successo che meritavano e non sono stati apprezzati abbastanza. Credo che questo sia evidente se si pensa a un pezzo come Sutra, che chiude il loro secondo album, o alla versione 12 pollici di Looking From a Hilltop, che fu prodotta da Bernard Sumner dei New Order e in effetti ebbe un certo successo nei club. I miei album Factory preferiti invece sono Unknown Pleasures e Closer, che per me sono due facce della stessa medaglia, mentre Dead Souls, Autosuggestion e These Days sono i miei brani preferiti dei Joy Division fra quelli non contenuti negli album in studio».
Posto che scindere l’aspetto musicale da quello grafico è fare un torto alla storia della Factory e dello stesso designer, New Order e Joy Division sono i nomi che tornano anche nelle preferenze di Peter Saville. «Quando mi chiedono qual è la mia copertina Factory preferita rispondo sempre d’istinto: Power, Corruption & Lies. Possiede qualità di cui non mi ero reso conto mentre ci lavoravo ma che mi sono diventate molto chiare negli anni successivi. Per quanto riguarda i miei album Factory preferiti dal punto di vista musicale, mi sono invece accorto subito del profondo significato di un disco come Unknown Pleasures, così come del fatto che con Technique i New Order erano arrivati al compimento del loro percorso di band. A lungo, invece, ho pensato che i Durutti Column e Vini Reilly non venissero apprezzati come meritavano. Ci è voluto del tempo ma mi pare che ora finalmente sia successo».