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Cosmo, eroe antipop: «Ho imparato a far godere la gente»

La musica come collettività, l'attivismo («mi sento come una cassa di risonanza»), i telefonini ai concerti («metterei i bollini sulle fotocamere»), il prossimo album («un misto di tradizione e ultra innovazione»). Abbiamo intervistato il musicista per l'uscita del film sulla sua vita ‘Antipop’

Foto: Nicholas Garlisi

Un po’ già lo dice il suo nome, Cosmo, una parola che indica il tutto e non il singolo, un universo e non una persona. Per sottolineare ulteriormente un’identità fatta di connessioni – in primis con le persone che lo accompagnano o l’hanno accompagnato e con la sua città – il cantautore piemontese ha appoggiato l’idea del regista Jacopo Farina di realizzare un documentario non tanto su di lui quanto su chi lo circonda e gli spazi in cui è immerso. Intitolato Antipop, il film sarà presentato in anteprima al Festival dei Popoli di Firenze il prossimo 8 novembre. L’avevamo lasciato un paio di settimane fa felicemente prosciugato da un dj set di sei ore a Roma e lo ritroviamo in un film.

Cavalcare l’onda del progetto Cosmo per portare luce su realtà meno note non è una novità per te. Tutti i tuoi live vengono aperti da qualche dj del collettivo Ivreatronic e sempre con loro hai organizzato molti eventi che andavano al di là della tua musica. Allo stesso modo nel film i protagonisti sono la tua famiglia, la tua tribù e la tua città. C’è molto noi e poco io.
È un’idea che è emersa con Jacopo, il regista. Invece di parlare di me da bambino, per esempio, abbiamo reputato più interessante vedere da che tipo di persone sono nato e che ambiente ho vissuto. Parliamo di parenti, amici, compagni di un viaggio personale e musicale.

Antipop è anche il titolo di un brano de La terza estate dell’amore, il tuo ultimo album pubblicato. Mentre nel testo della canzone parli di te, nel corso del film hai invece ribadito più volte che si tratta di qualcosa di più. Chi o cosa è antipop quindi?
Prende il titolo da quel brano ed è anche l’Srl che ho aperto. Antipop è il pop ma con dinamiche in realtà opposte al pop. Nel film per esempio c’è sì la narrazione dell’eroe che supera le difficoltà, che ce la fa, ma l’obiettivo era dare più spazio a tutti gli aspetti collaterali che in genere vengono proposti come contorno. Ai miei genitori non viene mai chiesto com’ero da bambino, se ci fai caso. Vedi mia madre che fa body building e mio padre che racconta senza problemi il suo passato turbolento. Queste cose ti dicono tanto anche di me, ti portano nella mia vita vedendo chi mi sta vicino.

Questo mi fa pensare alle tue scelte di esporti per i diritti dei professionisti dello spettacolo durante la pandemia e successivamente contro il decreto anti rave. Anche questo fa parte della tua idea di voler mettere da parte il sé – o come in questi casi di farlo magari portavoce della comunità – in favore di qualcosa di più grande e più importante?
Mi penso un po’ come un mezzo a volte, una cassa di risonanza di idee che so di condividere con tante persone. Si tratta di qualcosa che sento mio ma che sento appartenere anche a tanti altri. Quando mi batto per qualcosa lo faccio con l’obiettivo di muovere un altro passo verso qualche forma di felicità maggiore. Ci sono un sacco di blocchi energetici nel modo in cui viviamo la vita quotidiana, le relazioni, anche la musica stessa. Negli anni ho scoperto quanto i riti che si possono costruire intorno alla musica abbiano il potere di scardinare questi blocchi e che quando raduni tante persone intorno alla tua musica puoi anche veicolare dei messaggi. Ci sono cose più importanti di me come singolo. La musica non è un circolo vizioso e autoreferenziale, è un’apertura di possibilità collettive.

Potremmo quasi dire che Cosmo non è quasi più un progetto solista?
Sì, anche se in realtà a livello artistico e musicale ho sempre avuto molto controllo sulle cose. Sto iniziando adesso a mollare un po’ e a essere più rilassato nel fidarmi delle persone con cui collaboro. Addirittura adesso sono in studio a fare roba nuova con un’altra persona, siamo in due a lavorare, stiamo scrivendo le cose in due. Quindi sì, io come Cosmo e come persona in generale mi ritengo un intreccio, un incrocio di tante altre persone e visioni che ho vissuto, anche se artisticamente ho sempre avuto le idee abbastanza chiare e fino all’ultimo all’album ho sempre fatto da solo.

E adesso invece?
Adesso mi sto avventurando in un territorio nuovo, anche se coerente con il mio passato. Stiamo lavorando con violini e pianoforti, per esempio, suoni che in realtà ho introdotto per la prima volta in La verità e già all’epoca era stato merito di Alessio Natalizia, in arte Not Waving, la persona che adesso è diventata la seconda testa di Cosmo. Alessio è un mio amico, produttore e musicista, un artista molto fico che sta a Londra da tantissimi anni. Con lui per la prima volta ho aperto un disco a un’altra persona. Scriviamo insieme e produciamo insieme. È una roba incredibile, c’è una sintonia pazzesca.

Cosa sta venendo fuori?
È un misto di tradizione e ultra innovazione, uscirà un bel disco. Sto facendo questo doppio percorso di tuffarmi all’indietro verso la tradizione italiana e allo stesso momento andare sempre più avanti, in modo spregiudicato, con la produzione.

Dal vivo invece cosa ti piacerebbe sperimentare? Nel film parli spesso, come voce narrante, del desiderio di pensare a nuove forme di fruizione della musica, nuove modalità di stare insieme.
Magari mettere i bollini sulle telecamere dei cellulari. Senza stare lì a sorvegliare ovviamente, ma intanto potrebbe scoraggiare l’utilizzo dei telefoni. Quest’anno per fortuna a volte in tour c’erano pochissimi telefoni e un’energia pazzesca. Ti parlavo di blocchi energetici, ecco quello è un blocco energetico. I ragazzi e le ragazze non si accorgono che bloccano quel punto di energia perché per usare il telefono, magari per fare un video, spesso devi stare fermo. In quel momento il tuo corpo sta perdendo la connessione e quello crea intorno a te un punto intorno dove due o tre persone sentono un’energia inferiore.

Ricordo un concerto in cui quando ti sei lanciato dal palco stavano quasi per farti cadere perché tutti tenevano i telefoni in mano invece di tenere te.
Sì, è un classico quello.

Hai mai la sensazione di vedere cose che gli altri non vedono?
A volte sì, questi blocchi di energia che ti dicevo per esempio io li visualizzo proprio. Ma più spesso ho la sensazione di aver intuito qualcosa ma di non averlo ancora focalizzato del tutto io stesso. Allora mi metto a sperimentare per capirlo meglio, magari anche con Ivreatronic. Però sì a volte ho delle intuizioni, sono simili a quando fai un massaggio senza saperlo fare. A un certo punto trovi qualcosa che ti sembra il punto giusto dove andare ad agire. È simile anche a stare in equilibrio surfando, devi avere una sorta di intuizione corporale.

Dal film emerge che gli anni di Disordine ma anche de L’ultima festa, prima che avesse il successo che poi ha avuto, sono stati cupi, con la costante paura di dover abbandonare la musica come professione, di non farcela. Ora che hai superato quello scoglio, che la sai già la fine di quella storia, ti manca mai quel periodo?
Da un certo punto di vista lavorare a un disco nuovo era relativamente più semplice perché non c’era un pubblico a cui fare riferimento mentalmente. Sei molto più immerso in quello che fai. Invece quando inizi ad avere successo sai che ci sono delle persone che stanno aspettando il disco ed entri in un loop strano. Però quando la gente inizia ad apprezzarti molti problemi materiali vengono risolti come banalmente il fatto di tirare su lo stipendio.

Entrare in un loop strano vuol dire fare i conti con le aspettative?
In realtà ho raggiunto una certa tranquillità, lavoro serenamente anche con un pubblico là fuori che mi aspetta. Anzi, rispetto a prima ho abbandonato quella costante ricerca di numeri più alti. Nonostante l’ultimo album non abbia fatto l’exploit di Cosmotronic devo dire che mi è servito parecchio, ho visto che si sopravvive lo stesso. Però in effetti mi ricordo che il tour di Cosmotronic, che è stato il primo un po’ più grosso, non l’ho vissuto benissimo a un certo punto. Ero un po’ stressato, non sono riuscito a vivermelo come avrei voluto. Invece il tour de L’ultima festa, che era tutto una sorpresa, è stato bello, molto divertente. Faticoso, perché abbiamo fatto 90 concerti in 11 mesi, però era da tutta la vita che aspettavo di divertirmi così.

Considerando che sei molto vicino al mondo dei free party e del clubbing, che rapporto hai con i festival, italiani e internazionali? Con che sensazione torni a casa?
È sicuramente sempre d’ispirazione. Ogni tanto però rifletto sul fatto – ma è un problema che riguarda anche i miei concerti – che costano sempre di più. La musica sta diventando veramente costosa. Per quanto mi riguarda ho deciso che non voglio vedere più di un festival all’anno, ho tre figli. Pensavo anche che forse a questa dimensione internazionale e un po’ turistica che hai ai festival, dove ci sono un sacco di persone che arrivano da posti diversi, preferisco piuttosto, in questo momento della mia vita, andare magari in una città come Manchester e farmi una serata in un posto dove sono quasi tutti local. Anche Berlino mi interessa sempre meno per questo aspetto così internazionale. Ma è un trip mio questo.

Insieme a quello di fare dj set di cinque, sei ore. È quasi un’ossessione. Da dove nasce?
È perché mi piace divertirmi e stare bene. Pensa che in questi dj set così lunghi che ho fatto, che sono stati a Chieti, Milano e Roma, la gente si è beccata una quarantina di minuti di ambient quando entrava. Sono arrivati lì pensando di trovare uno che li faceva ballare da subito invece volevo resettare tutte le energie e ripartire da lì. È stato un viaggio in continua evoluzione e molti, soprattutto chi non frequenta serate, non avevano mai vissuto una cosa così. Appena entri non hai bisogno di qualcuno che ti dica di ballare ma di guardarti intorno, prendere una cosa da bere, di respirare. Mi piace fare questi giochi, più fai concerti e più capisci come gestire l’energia per far sì che le persone diano il meglio. Negli anni capisci come far godere di più la gente (ride). È tutto lì: voglia di stare bene e far stare bene.

Ho l’impressione che nell’ultimo periodo la tua estetica si sia molto avvicinata a quella tipica dei teknival ma anche dell’hardcore punk, anche negli shooting. Non che conti particolarmente il modo di vestirsi ma spesso racconta qualcosa, un senso d’appartenenza, un modo di vedere e di vedersi.
Sì, ho frequentato più festival e poi ho conosciuto Jessica Pan Dan che adesso suona con noi. Credo c’entri anche Enea Pascal di Ivreatronic. Credo sia proprio una questione di incontri, come ti intrippi, come ti senti a tuo agio. Probabilmente è vero, però io al look non ho mai badato tanto, anche perché per gran parte della mia vita non avevo i soldi. Magari risparmiavo per comprarmi una chitarra.

Adesso invece sei passato dai problemi materiali agli ostacoli della burocrazia. Ricordo che avevi fatto di tutto per non annullare i concerti di ottobre 2021 e poi sei stato il primo a organizzare un live dopo la pandemia senza distanziamento sociale con il concerto che hai fatto all’Alcatraz, a Milano, a novembre 2021. Anche La prima festa dell’amore è stato un esperimento insolito in Italia e immagino non sia stato semplice dal punto di vista organizzativo.
Sì, però non ero da solo, eravamo una squadra. C’era DNA e anche il mio manager Emiliano Colasanti. Si sono fatti il fegato marcio, come agenzia di booking stavano vivendo tutti i paradossi della pandemia sulla loro pelle. È stata una lotta fatta insieme. Ed è stato anche un bel saggio di quanto sia ottuso il sistema burocratico.

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