«Quando una cosa mi piace, voglio condividerla il più possibile: sono fatto così. È successo anche col vaporizzatore per l’erba, dopo erano tutti presi bene». È la prima intervista della mattinata, ma Marco Jacopo Bianchi è già bello carico. Meno di due anni fa, del tutto inaspettato, trovava il successo con L’ultima festa, eletto disco del 2016 da Rolling Stone. «Ho solo azzeccato delle canzoni: il mio non è mai stato il suono del momento, forse ho colmato un vuoto di elettronica in Italia».
Ora è seduto su un divanetto, nel retro di uno storico negozio di impianti musicali del centro di Milano, e non vede l’ora di raccontare la sua nuova creatura, Cosmotronic, un doppio album in cui spinge «ancora più in là le sonorità da club». La seconda parte, quasi interamente strumentale, «è quella più forte, dove abbandono la forma canzone per abbracciare una nuova mentalità: sono tutti pezzi provati durante i dj set, pensati per essere mixati». Appena agguantata la fama, pare già determinato a farne a meno. «Avrei potuto andare a caccia di hit, ma l’unico modo per fare pace con me stesso è non lasciare fuori nulla di ciò che sono». Si sente «prima di tutto un produttore», e non può fare a meno di sperimentare. «Non voglio fare l’alternativo, è che sto in fissa con il clubbing e vorrei che la gente si avvicinasse a questa cultura. In Italia è sempre un po’ relegata, ma attorno a Torino qualcosa si muove». Durante il precedente tour aveva notato che alcuni brani scatenavano «picchi di delirio in pista». «Oggi siamo tutti un po’ scissi. Quando balli riprendi il possesso del tuo corpo: è un atto quasi politico, e il feedback più bello che un musicista possa ricevere».
Cosmo ricorda l’epoca dei rave, il loro «tribalismo»: «La musica deve tornare a essere un viaggio: quando metto su dischi, vado come in ipnosi. Il massimo sarebbe riuscire a scrivere canzoni che spaccano, con una matrice “clubbing”. Pensate a Born Slippy e Around the World, oppure ai Prodigy, estremi e pop allo stesso tempo». Il percorso che lo ha portato fin qui è stato lungo. «Cresciuto con trance e progressive negli anni ’90», è diventato «alternativo» con i Drink to me, band post-punk di cui è stato leader per più di 10 anni. «Ma rimanevo folgorato dai Neu! e dal krautrock, dai suoni ripetitivi. Per due anni ho ascoltato solo Steve Reich». Al compositore ha persino dedicato la tesi in filosofia a Torino, in cui argomentava che «il suo minimalismo va inserito nelle pratiche culturali della società iper-consumista». È un attimo intavolare il simposio. «I miei riferimenti filosofici sono Marx e Nietzsche. Anche se poi mi rompevo i coglioni quando i miei compagni parlavano di Schopenhauer alla fermata del bus. Ero in classe con Diego Fusaro, ora so che è scivolato su posizioni un po’ ambigue», dice Cosmo, che fino a poco tempo fa insegnava Storia in un istituto professionale.
Una simile formazione gli è utile anche per rispondere alla domanda successiva. Come si tengono assieme il padre di famiglia e il clubber indefesso, Adorno e Gigi Dag? «Non c’è contraddizione, perché l’identità è un’invenzione sociale. Siamo tante cose assieme, solo che le rimuoviamo. Io amo anche la parte marcia di me, la lascio esplodere con la musica». Queste riflessioni ritornano in Cosmotronic. Da Tu non sei tu a “ho lottato contro me stesso e ho vinto”. Poi c’è Turbo, il secondo singolo, «un intellettuale travestito da scemo, un pezzo ambiguo che cercava il cortocircuito e l’ha trovato». «I testi seguono sempre la musica, nascono dopo aver ascoltato una base in loop anche cento volte». Come avvenuto con Tristan Zarra, brano «dadaista e anarchico. L’ho scritto sotto effetto di erba, come molti altri, ma poi da lucido funzionava uguale. È una roba folle: dico “Festival” – cit. Paola e Chiara –, “pizzeria”, “polizia”, ci sono le voci della Michielin e della mia babysitter. Ho coinvolto anche la doppiatrice di The Crown: avevo provato a contattare la De Filippi, la voce del potere, ma non ha mai risposto». Quando sente che l’idea giusta gli bussa al cervelletto, scoppia letteralmente a piangere. «Ho chiuso i lavori in Valchiusella, in una baita in mezzo al bosco. Quando i gatti che avevo adottato sono scomparsi, mi sono commosso. Stavo andando giù di testa, tipo Shining».
Nel disco c’è anche un inno alla sua Ivrea, che dice “sei la mia città, ti vengo dentro”. «Ho sparato la frase a cazzo di cane. Ma potrebbe averla detta uno di quelli del movimento per la vita, oppure il Papa. Se volete posso usare espressioni tipo “accogli il mio seme”, ma giuro che i miei due figli li ho fatti proprio in quel modo». Oggi Ivrea, da cui non ha nessuna intenzione di muoversi, «è un cimitero di città»: «A parte il Carnevale. Io non ho una fazione, giro con i tamburi con un gruppo di amici e ci sbronziamo. Una volta al liceo mi sono preso un’arancia in faccia: mi hanno portato in ospedale con l’ambulanza, ci ho visto marrone per un po’». E poi c’è Ivreatronic, la serata organizzata da Cosmo e soci, che, dal prossimo maggio, richiama gente da tutto il Norditalia. «Ci fa sentire vivi, invece di lamentarci. Uso la mia popolarità per lanciare dei bravi artisti cittadini, presto creeremo un’etichetta». Alcuni di loro saranno con lui durante il tour del disco, che partirà a febbraio. «Non saranno dei semplici concerti, ma dei grandi party, dove si balla per tutta la notte».
Prima di andare, gli mostriamo la nostra classifica dei migliori dischi. Legge il nome del suo successore, scorre la lista. «Che dire: Roma vuole cantà, come nella migliore tradizione italiana. Noi ci becchiamo tra un anno, chissà dove sarà Cosmotronic».