«Un racconto intimo, fatto di sentimenti potenti». Cristiano Godano descrive così un paio di pezzi del suo primo album solista, Mi ero perso il cuore, ma sono parole che inquadrano nitidamente l’intero disco: 13 magnifiche canzoni tra folk e alt country. Dunque ballate acustiche di matrice americana con giusto un paio di virate “soniche” alla Marlene Kuntz e i testi sempre profondi, poetici, di Godano, accompagnato in questo viaggio in solitaria dal vecchio amico Gianni Maroccolo insieme a Luca Rossi e Simone Filippi degli Üstmamò.
Mi ero perso il cuore è il tuo album solista dopo oltre 30 anni di Marlene Kuntz. Perché ci hai impiegato così tanto a farlo?
È la stessa domanda che mi ha fatto in modo molto diretto Gianni Maroccolo, bassista su questo disco e mio sodale da anni. Da un po’ di tempo sperava che sciogliessi le mie remore personali e lo facessi. Remore connesse con il fatto che sono il cantante e, con Riccardo e Luca, il fondatore dei Marlene Kuntz: un progetto per me vitale. Dovevo trovare un periodo in cui potevo fare tutto ciò senza infastidire troppo i Marlene Kuntz. Altre remore erano forse in connessione con la mia necessità di sentirmi tranquillo nel fare un primo passo di questo tipo, che ha una sua circoscritta rilevanza.
Considerato che sei sempre tu l’autore dei pezzi, perché queste canzoni sono su un tuo disco solista e non su un album dei Marlene Kuntz?
Perché qui le canzoni prendono una direzione esplicita che si può definire intima, acustica, più connessa con un certo mood musicale che, forse, per certe categorizzazioni si potrebbe definire folk-alternative. Mood musicale e atmosfere che non potevo e non volevo pretendere dai Marlene Kuntz, che su queste frequenze non sono sintonizzati, non perché non gli piacciano, ma perché non sono nelle loro corde e nelle loro dita quando suonano.
Suoni quindi in modo diverso, influenzato forse da ascolti diversi.
È comunque un modo di suonare che mi appartiene da tanto tempo quanto mi appartiene il modo “sonico”. In realtà, il mio primo eroe musicale rock fu Neil Young. Ricordo a 15-16 anni gli ascolti di Rust Never Sleeps, che ha una parte acustica, e gli ascolti di Comes a Time, che è un disco che adoro per quanto non è considerato tra i suoi vertici artistici, ma per me è un album del cuore, tanto quanto Harvest e altre cose. Quindi è veramente un mood che è connaturato in me, parlando di rock. Poi, quando ho cominciato a suonare, l’irruenza giovanile mi ha subito condotto verso cose più elettriche, contemporanee al me ventenne di allora. Però, prima o poi, questa mia indole sarebbe dovuta venir fuori.
Nelle note che accompagnano Mi ero perso il cuore scrivi che le canzoni hanno un ordine di narrazione. Raccontaci allora la trama del disco.
Non è un plot che ha un vero inizio e una vera fine con canzoni che si susseguono in maniera rigorosa, ma l’ordine scelto può suggerire un tipo di escalation, non tanto di episodi, quanto di mood e punti di vista dai quali osservo l’oggetto descritto dalle mie canzoni. Il disco si apre con un pezzo potenzialmente ottimistico, La mia vincita: dico che ho sconfitto un problema, ma dalla seconda canzone alla penultima vengono in luce alcune problematiche che smentiscono la vittoria dichiarata all’inizio. L’ultimo pezzo, Ma il cuore batte, chiude con una specie di salvacondotto per riapprodare alla dimensione della salvezza: si prende atto che, nonostante le difficoltà, la vita procede e questa pulsione, rappresentata dal battito del cuore, è insopprimibile.
Ma nella versione in LP c’è una canzone in più, Per sempre mi avrai. L’hai messa solo su vinile per un determinato motivo o è un caso?
Per sempre mi avrai è l’unico pezzo che poteva star fuori, e tra l’altro è un pezzo che a me piace molto. Ma per certi versi era la canzone meno amalgamata con il resto del disco. Considerate che, al giorno d’oggi, non mi sembra siano tanti gli ascoltatori disposti ad ascoltare un disco molto lungo: un album che ha 13 pezzi della durata media di 3 minuti e mezzo. Quando andai in studio di registrazione pensai sarebbe stato bello fare un disco di 10, 11 canzoni, anche 9 non mi avrebbe inorridito. Ma ho sempre un problema: amo tutti i pezzi che registro e mi risulta molto difficile togliere qualcosa, purtroppo mi ci affeziono.
Una canzone si chiama Padre e figlio, quella successiva Figlio e padre. Come dialogano tra loro due pezzi del genere?
Di sicuro non è un caso che abbia scelto due titoli simili invertendo semplicemente l’ordine degli addendi. Sta al singolo ascoltatore chiedersi perché. Sono due canzoni che mettono in scena il rapporto tra padre e figlio o figlio e padre: a seconda del primo dei due addendi cambia la visione delle cose. È un racconto intimo, fatto di sentimenti potenti.
Tu sei padre?
Ho un figlio di 22 anni.
Che musica ascolta?
È partito con la trap più commerciale, era affascinato in qualche modo dalla dimensione glam del successo. Ma si sta spostando verso quella più contenutistica, quindi in questo momento è più intrippato con il rap. È stato lui a spiegarmi che la differenza tra trap e rap è connessa più con il tipo di contenuto che con lo stile, ma anche musicalmente mi sembra facile capire cosa sia rap e cosa trap.
Ma tu riesci a capire, apprezzare i trapper?
No, e non sono molto interessato. Non mi disturba, ma difficilmente questo tipo di musica riesce a farmi venire la voglia di approfondire. Non nascondo che il rap mi piace, penso che l’ultimo disco dei Run the Jewels sia molto figo.
I tuoi fan portano i figli ai tuoi concerti? Ci sono adolescenti o ventenni ai live dei Marlene?
Sono testimone oculare di bambini portati dai propri genitori ai nostri concerti. Credo che fino a 12, 13 anni un figlio è disposto a sporcarsi le mani facendosi vedere a un concerto rock accompagnato dal papà. Dopo, quando è adolescente, credo ci vada da solo. Alcuni bambini li vedo sovente, accompagnati dal padre, e due o tre sono fantastici, conoscono benissimo le canzoni dei Marlene perché sono stati costretti ad ascoltarle. Poi so anche di figli più grandicelli che vengono per conto loro e hanno conosciuto i Marlene grazie ai genitori.
Panico è il pezzo di Mi ero perso il cuore più vicino ai Marlene Kuntz, almeno per irruenza.
Lui e Lamento del depresso hanno una matrice più vicina al rock che concepiamo col gruppo. Ma nella mia testa Panico non doveva necessariamente prendere una piega rockeggiante. L’ho pensato comunque con la chitarra acustica, già dal testo ero partito con l’idea di uno spoken. Poi, quando ho deciso di far suonare nel disco Enrico Gabrielli, gli ho raccontato una mia suggestione per il finale di Panico: sentivo un sax quasi free jazz, io sarei arrivato a gradire interventi sonori alla Albert Ayler, il massimo dell’assenza di melodia, però non potevo pretenderla. Gli ho chiesto di fare più disturbo che potesse con il sax.
Suoni tutto l’album con Gianni Maroccolo e due Üstmamò, Luca Rossi e Simone Filippi. È una formazione profondamente radicata negli anni ’90. Cos’è stato per te quel periodo?
È stato chiaramente inebriante e, per certi versi, è più facile storicizzarlo ora, non solo perché l’ho vissuto, ma perché vivo la contemporaneità e sono in grado di comprendere le differenze. Non sono sicuro che all’epoca fossi consapevole di ciò che stava accadendo, ma nelle interviste esternavo stupore: era qualcosa di potente il successo che questo tipo di rock stava avendo in Italia, eravamo abituati a suonare davanti a duemila, tremila, quattromila paganti, numeri che non si fanno più ormai. Mi sembrava ci fosse in atto un cambio nel modo di ascoltare la musica da parte degli italiani, la nostra generazione sembrava inaugurare una nuova via di ascolto per le generazioni a venire. Sapevo però che tutto ciò accadeva anche grazie al grunge e ai Nirvana, seminali ovunque nel mondo. Adesso mi rendo conto che fu per certi versi anche una moda. E a posteriori posso dire di essere dispiaciuto che le cose non siano più così, ma sono consapevole che il rock ha ovunque problemi di appeal.
Perché?
Potrebbe essere un ciclo: in questo momento ha esaurito la sua forza propulsiva, e ci sta. E credo ci sia qualche connessione con la tecnologia e con internet. Internet ha sparigliato le carte, ci ha devastati tutti. Io non ho mai lesinato il mio dispiacere per l’avvento di internet da questo punto di vista: è un luogo miracoloso, un prodigio del percorso dell’umanità, ma da musicista devo rivendicare la possibilità di dire che mi ha danneggiato molto. Ha danneggiato tutta la nostra generazione che non ha saputo adeguarsi in maniera costruttiva al nuovo mezzo, come invece sanno fare le nuove generazioni. Per parlare in maniera proficua con la rete si devono adottare strategie di comunicazione improponibili per la nostra generazione: al ribasso, prive di contenuto, fondate su uno shock emotivo impattante, meno sono complicate e meglio è, e questo porta a una specie di volgarità. Io detesto la piega che ha preso la musica remunerata, ma in questo momento è difficile andare su una piattaforma digitale e ricavare tremila euro dai propri dischi. A parte pochi giovani eroi che fanno ancora rock, le nuove generazioni fanno musica come facessero marketing e questo, per un appassionato di musica, è un dato di fatto un po’ spiacevole. Senza fare i retrogradi, nostalgici o rincoglioniti.
Comunque non ti sottrai alle dirette Instagram, ai video messaggi postati sui social.
Credo che tutti debbano fare i conti con la rete. Rifiutarla a priori significherebbe scavarsi la fossa con le proprie mani. Poi c’è chi ci riesce di più, chi meno. Ci ho impiegato due o tre anni per prendere le misure e non credo di aver raggiunto una efficienza indiscutibile. C’è molto ancora da fare, ma non posso scendere sotto una certa soglia e fare qualcosa che non mi appartiene pur di avere più follower. Solo parlare di follower e like, per uno come me nato nel 1966, è un po’ spiazzante, anche se è il pane quotidiano dei giovani di adesso.
Parliamo allora della masterizzazione del tuo disco. Perché hai scelto Greg Calbi e lo studio Sterling Sound in New Jersey?
Calbi ha fatto alcuni dischi che hanno nutrito il mio immaginario, per esempio i Sonic Youth. Forse è un’affermazione da provinciale, ma gli americani hanno una marcia in più. Comunque, mettiamola così: volevo togliermi uno sfizio e farmi masterizzare un disco da un americano. Io ho gusti da americanofilo, in modo radicale. I miei amori sono americani o, nel caso di Nick Cave, australiani. Non ho grossi amori inglesi. Questa del mastering è forse una visione leggermente nostalgica, qualcosa che è legato all’idea di un oggetto. Sono almeno cinque o sei anni, forse di più, che considero amichevolmente patetico il cd: è un oggetto che si fa perché non ci sono alternative. Se ci fosse un’alternativa per remunerare la propria musica meglio di quanto fanno le piattaforme digitali credo che il cd lo si abbandonerebbe all’istante. Ma è bello anche perché ci sono persone che desiderano averlo per creare continuità con la loro collezione.
Tu inviti i tuoi fan a comprare i supporti fisici anche per leggere i testi sul booklet.
Cerco di dare dei motivi validi per fare una cosa in disuso. Comprare un cd è un sostegno migliore rispetto a un clic su una piattaforma digitale.
Considerato il presunto ritorno del vinile, pensi davvero che venderai più cd che vinili?
Boh! Direi più sì che no.
Raccontaci del video di Com’è possibile (guarda qui l’anteprima per Rolling Stone). Chi l’ha girato e qual è il soggetto?
È stato girato con una persona preziosa che ha contribuito tanto ad aiutarmi a fare cose in emergenza durante questi due mesi di pandemia: Lorenzo Letizia. È romano, cura la parte video di lavori in teatro e sono felice di parlarne perché è stato grandioso. Ha fatto anche il video di Ti voglio dire. In Com’è possibile performo da solo, sostenuto da immagini proiettate dietro di me. La canzone cita in maniera lampante Bob Dylan, Blowin’ in the Wind, “la risposta è lassù e soffia nell’aria, quante strade dovrà di nuovo percorrere un uomo”… Sono tutte suggestioni che non hanno risposte, ma lasciano la possibilità di farsi delle domande. E nel video sottolineo questa citazione facendo la stessa cosa di Subterranean Homesick Blues con i cartelli, una sorta di divertissement. Alla fine c’è un cartello che non spoilero: credo sia un’immagine molto potente, purtroppo qualcuno borbotterà perché anche queste cose sono diventate divisive e per me sarà un grande dispiacere.
Nel testo di Com’è possibile parli anche di una bestia che ci portiamo dentro.
Già in Ti voglio dire l’amico che parla all’amico in difficoltà utilizza il termine “bestia”. Poi, subito dopo, c’è Com’è possibile dove uso il termine in un’accezione più generica rispetto al disagio esistenziale, la bestia intesa come depressione. Qui l’immagine è più allargata e rappresenta una serie di difetti che l’umanità si sta portando dietro e che stanno mettendo a dura prova il pianeta che ci accoglie.
Porterai queste canzoni in tour?
Considerato il momento, si impone un punto interrogativo. Era previsto un tour nei teatri perché questo sarebbe un concerto che ha fascino in un luogo al chiuso, e lì approderemo con la band che ha suonato nel disco. Ma mi auguro possano crearsi presto opportunità di suonarlo qua e là da solo, come ho già fatto in passato con spettacoli che mischiano chiacchiere e momenti suonati. Parlo con l’interlocutore e inframmezzo le chiacchiere con dei pezzi: non saranno pezzi del repertorio dei Marlene, ma miei. Spero possa accadere.
Il disco è uscito come previsto oppure in ritardo a causa del lockdown?
Doveva uscire a metà marzo, inizio aprile.
Sei in grado di quantificare i danni economici che hai subito a causa dalla pandemia, tra ritardo nell’uscita del disco e tour saltato?
Posso semplicemente dire che i musicisti sono stati i primi a fermarsi e gli ultimi a ripartire. E non credo che la comunità dei musicisti potrà tollerare ancora troppo a lungo visioni di assembramenti più o meno leciti mentre a noi viene impedito di fare il nostro lavoro. Siamo molto ragionevoli, ma tra un po’ sarà un problema. Come ho già detto, le piattaforme di streaming sono ridicole, non credo la gente sia davvero consapevole di quanto poco si guadagna. Il nostro lavoro remunerato è fare concerti dal vivo: se anche i concerti saltano, fino a che non me li faranno rifare sono una persona che non è messa in condizione di lavorare.
Come potrebbe essere un tuo concerto con i Marlene Kuntz rispettando il distanziamento sociale? Hai immaginato un live davanti a un pubblico con le mascherine?
Un mesetto e mezzo fa Riccardo dei Marlene ci ha girato un link a un reportage fotografico su un esperimento fatto in America, un concerto con ingressi contingentati: una visione desolante. Immaginate cento persone sparpagliate in una sala che ne può contenere mille. A parte che non funzionano le economie, a meno di non fare pagare il biglietto cinque volte di più, oppure dimezzare la produzione, e per me va bene anche un concerto più rock & roll. Ma al di là di ciò, è difficile darci dentro, sudare, scambiarsi energia con i fan, creare un cortocircuito col pubblico, se la gente è sparpagliata in sala e lontana dal palco. Sarebbe deprimente.