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Cristiano Godano: «Tornare sul palco è come una rinascita»

Il rocker sta presentando il suo disco solista con dei concerti dall’atmosfera intima. Qui racconta come vive la ripartenza, la tecnologia che trasforma la musica, il successo dei Måneskin, il futuro dei Marlene Kuntz

Foto: Michele Piazza

Canzoni delicate, ma coraggiose. Cristiano Godano descrive così le 13 tracce del suo esordio solista Mi ero perso il cuore, uscito un anno fa e ora entrato nella cinquina dei finalisti delle Targa Tenco 2020 nella sezione “Opera prima”. I vincitori saranno annunciati entro la fine di luglio, nel frattempo il frontman dei Marlene Kuntz sta presentando il disco in giro per l’Italia con una serie di concerti intimi e confidenziali, in sintonia con le atmosfere dell’album, accompagnato dalla chitarrista Roberta Finocchiaro: il 9 luglio l’appuntamento sarà all’Hiroshima Sound Garden di Torino, l’11 al SEI – Sud Est Indipendente di Corigliano d’Otranto (LE), il 12 al Mercato Nuovo di Taranto, il 23 a Roddino (CN), il 24 all’Officina Giovani di Prato, il 27 al Parco Tittoni di Desio (MB), il 30 all’Anfiteatro del Venda di Padova. E naturalmente l’entusiasmo è grande: «Salire sul palco dopo un lungo stop è a tutti gli effetti una rinascita», dice Godano, classe 1966.

Partiamo da questo: che cosa ha significato per te rinunciare alla dimensione live per un lungo periodo e che cosa significa oggi poter suonare di nuovo dal vivo, ma con le restrizioni che tutti conosciamo?
Per la maggior parte dei musicisti, e per me di sicuro, tornare sui palchi è un’occasione per ritrovare se stessi all’ennesima potenza: il palco ci rigenera, ci dà una botta di energia e adrenalina insostituibile e impagabile. Immagino sia come per uno sportivo fare la sua performance in una competizione. Quanto all’esserne privati, è una violenza, perché ci viene meno una ragione di vita importante: salire sul palco vuol dire essere al centro di un’attenzione, essere coccolato da chi ti vuole bene, da un pubblico che ti segue e che non vede l’ora di emozionarsi con te, di stabilire questo cortocircuito emotivo che unisce. Senza contare il lato economico: i musicisti sono stati i primi a fermarsi e saranno gli ultimi a ripartire, visto che date le norme anti-Covid la nostra ripartenza adesso è monca.

Capienze contingentate, pubblico seduto, distanziamento tra i “non congiunti”…
Esatto. In realtà personalmente non ho nulla da recriminare, a me avere davanti la gente seduta piace tanto quanto averla in piedi.

In effetti ricordo il tuo entusiasmo per il primo tour nei teatri dei Marlene Kuntz, credo fosse il 2008.
Già, perché è un modo diverso di fare concerti e di ascoltarli, in cui io, però, intercetto altrettanta intensità. Se la gente sta in piedi c’è anche, volendo, meno attenzione, perché c’è confusione: la folla, i piedi pestati, il parapiglia, le sgomitate, tutto questo attenua il gradiente di attenzione. Mentre il pubblico seduto ti ascolta, in teoria, con maggiore concentrazione, quindi se sei bravo a creare le giuste atmosfere l’ascoltatore se ne esce con un appagamento mica male. Io tutte le volte che ho assistito a concerti da seduto, fossero jazz o fosse il grande Leonard Cohen, mi sono emozionato molto.

Sei in tour con la chitarrista Roberta Finocchiaro. È un caso, che sia una donna, o si tratta di una risposta voluta alle proteste per la scarsa presenza femminile nei cartelloni dei festival musicali? Ci hai pensato, al dibattito in corso?
Sì, ci ho pensato e ho voluto contribuire al controbilanciamento di questa cosa. Perché ritengo che in fondo sia vero quello che si denuncia: personalmente in Italia di chitarriste donne ne conosco ben poche, sia nei gruppi, sia soliste. Potrebbe essere una semplice casualità, ma sono sicuro che ce ne siano di più, quindi il problema della disparità a livello di visibilità e di rappresentanza è reale ed è bene che se ne parli. Tra l’altro Roberta, oltre a possedere perizia tecnica, è brava anche alla voce, dunque è un valore aggiunto importante. E siamo in sintonia da un punto di vista musicale, il che non era scontato: lei è più giovane, le mie fascinazioni sono per ragioni anagrafiche più radicate, ma abbiamo molti ascolti in comune.

L’hai scovata da solo o te l’hanno suggerita?
Il suo nome è uscito durante alcune chiacchierate con il mio team, ho raddrizzato l’antenna e poi l’ho ascoltata sui social. È stata una scommessa non indifferente, perché sapevo di avere solo tre giorni di prove prima della prima data del tour, non potevo fare un vero e proprio check con lei per capire se potevamo funzionare assieme. Per cui mi prendo il merito di aver voluto azzardare sulla base di una visione e in tal senso posso spezzare una lancia a favore di Internet, di cui parlo sempre molto male (ride).

Cristiano Godano e Roberta Finocchiaro. Foto: Michele Piazza

In effetti ultimamente ti vedo lanciato sui social, ma prima di parlarne vorrei chiederti: tutte le musiciste e cantautrici che ho intervistato finora mi hanno parlato di un maschilismo diffuso nel mondo della musica; tu puoi dire di averlo effettivamente notato, questo maschilismo, e magari hai dovuto anche fare ammenda per certi atteggiamenti che a posteriori hai ritenuto sbagliati, oppure no?
Ma che io ricordi… nella mia scena negli anni ’90 ricordo una bella presenza femminile. Ho fatto tante cose in compagnia degli Üstmamò, e c’era una cantante donna (Mara Redeghieri, nda). Ho fatto tante cose con i Disciplinatha, e c’erano una bassista e una cantante (Roberta Vicinelli e Valeria Cevolani, nda). Parlo di una scena in cui c’era Carmen Consoli e c’erano gli Scisma, il gruppo di Paolo Benvegnù, messo su da lui con una formazione che includeva tre donne. Gli stessi C.S.I. avevano una cantante di rilievo e anzi, azzardo a dire che forse senza Ginevra Di Marco non sarebbero stati la stessa cosa, e questo pur riconoscendo che lei al suo fianco aveva un’icona come Giovanni Lindo Ferretti. Il che vale anche per i 99 Posse con Meg. Quindi a me sembra che quella scena musicale fosse sufficientemente equilibrata, ma è pur vero che in generale le cose sono più complesse. Sai, il fatto è che i social esasperano ogni discussione, amplificano le contrapposizioni, c’è sempre una diatriba che sfocia subito in rabbia, in canea, e a me questo piace molto poco, però tutto ciò non deve portarci a dire che non sia fondato quello che dicono le artiste donne: lo è e va bene parlarne sempre, finché ce ne sarà bisogno. Tra l’altro questo è un argomento che s’intreccia con il dibattito sul Ddl Zan.

E cosa ne pensi, di questo dibattito?
Settimana scorsa ho visto un calciatore della Germania fischiato per tutto il tempo durante la partita contro l’Ungheria perché si era espresso a favore dell’arcobaleno nello stadio: mi sembra chiaro che stiamo vivendo un’esasperazione, questa sì, allucinante, intorno a temi che non dovrebbero essere nemmeno in discussione, visto che sembrava avessimo raggiunto un certo progresso dal punto di vista sociale. Purtroppo l’onda lunga che gira in Italia, che parte dai sovranismi e dilaga in tutte queste manifestazioni, porta a contrapposizioni che non dovrebbero più esistere.

Tra l’altro di recente hai posato per Flewid, rivista che “promuove la fluidità di genere come stile di vita radicale e alternativo che sfida le strutture patriarcali e i rigidi confini sociali e culturali”.
Una gran bella rivista, molto particolare e dal piglio artistico. E sì, in effetti quando era già nell’aria la discussione pubblica attorno a questo fenomeno, ma non era ancora esplosa, ho partecipato a questa cosa e giocato con lo stilista Antonio Marras, accettando di posare per delle foto trasformato dal punto di vista estetico. Ho fatto quasi tutto il servizio senza pantaloni, ovviamente con i boxer indosso. Ma insomma, mi sono prestato, è stato un gioco che ho deciso di giocare.

E mi pare che ultimamente tu abbia voglia di giocare anche con i social, su Instagram hai addirittura ammesso che ti diverte fare le stories.
Mi diverto, però, alle mie condizioni. Fino a febbraio scorso, ed è precisa la data, non avevo mai avuto voglia di farle, le storie su Instagram. Ed è ancora così, se per storie si intendono quelle in cui fai vedere qualcosa della tua vita personale mentre ti sta accadendo. Invece mi diverte fare delle storie che abbiano un piglio vagamente artistico: faccio foto o dei brevi video ai quali poi associo canzoni connesse per qualche motivo a quelle foto e a quei video. Così facendo ogni giorno, da febbraio ad adesso, ho creato due playlist sulla mia pagina Spotify, che sono in continuo aggiornamento.

Perché tu vivi molto la musica anche da ascoltatore, da fan, un po’ come Mark Lanegan e Iggy Pop. Non è così per tutti: tanti artisti mi hanno confidato che dopo i primi anni di ascolto della musica altrui, quando si sono messi a scrivere la loro, di musica, hanno smesso quasi del tutto di seguire quella degli altri.
Mentre io, confermo, vivo la musica anche da fan, anche se oggi l’enorme frammentazione della proposta musicale mi frena e a volte non ho le energie e il tempo che avevo quando ero più giovane e ascoltavo con appetito tutto ciò che veniva fuori e che scovavo sulle riviste specializzate. Perché oggi – ed è una preoccupazione che accomuna molti di noi musicisti – ci si sbatte molto di più per ottenere la metà di quello che si otteneva una volta. E qui siamo al benvenuti nell’era tecnologica, ma è un altro discorso. Però sì, continuo a essere fan della musica e in questo sono anche molto intristito.

Per cosa?
Per come la tecnologia sta trasformando la musica. E non parlo solo del rock, ma di qualsiasi musica che sia bella e creativa, perché è questo che conta. L’ho scritto anche nel mio Elzevirus su Rolling Stone, che c’è una contrapposizione netta tra ciò che è remunerato e ciò che è gratuito: in Rete la remunerazione della musica è appannaggio, nell’ambito della comunità internazionale, di un 5% circa dei musicisti, il che significa che il restante 95% ne esce gratis. Allora è chiaro che se Paul McCartney non facesse soldi sulle piattaforme sarebbe comunque ricco, ma è altrettanto chiaro che molti musicisti sono rassegnati. E quelli della mia generazione secondo me lo stanno capendo solo ora, un po’ frastornati, che su Internet la musica è gratis; io mi pregio di averlo capito già 12 anni fa, che il web ci stava fottendo. E quindi adesso i giovani che non hanno ancora un pubblico finiscono perlopiù per fare musica per il mainstream o comunque mirando a quello, con tutto ciò che ne consegue: la musica che diventa un fattore di marketing e di comunicazione, i musicisti che cercano i like e che vogliono diventare anche influencer. Poi ci sono musicisti che per attitudine intellettuale ed estrazione culturale appartengono a un mondo che è anche il mio, fatto di musica vissuta per la musica e non per la comunicazione, i quali fanno una fatica tremenda. Per chi appartiene a questa seconda categoria suonare dal vivo è fondamentale e visto che, però, siamo in tanti e che i locali che possono accoglierci non sono infiniti, tutto diventa ancora più complicato. Il pubblico certe cose magari non le sa, ma io credo sia importante farle conoscere, queste problematiche.

Un po’ se ne parla e c’è chi cerca alternative o strade parallele, vedi Boosta dei Subsonica, appena entrato nel mondo degli NFT con una sua composizione, o altri tuoi colleghi che stanno utilizzando Patreon.
Sugli NFT so ancora poco. Quanto a Patreon, lo userei se ci fosse la possibilità di monetizzare, ma non credo stia funzionando in Italia, purtroppo la gente si è abituata alla gratuità e quest’abitudine gliel’ha data il web. Quindi si tratta di educare tutti a pagare, invece quando è esplosa la pandemia un errore – a posteriori, lo dico – che è stato commesso dai musicisti è stato quello di fare un sacco di dirette Instagram: un’esplosione di generosità che ha legittimato ancora di più il pubblico ad aspettarsi musica gratuita in Rete. Ma di che cosa viviamo noi?

Tornando a Mi ero perso il cuore, in più tracce parli delle tue fragilità, penso a Dietro le parole, Panico, Ma il cuore batte. Che cosa ti rende più insicuro? E dato che i tuoi testi ricercano un afflato poetico che li rende piuttosto criptici, hai mai pensato che, pur senza abbassare l’asticella, potresti essere meno enigmatico e più diretto nel raccontarti?
Temo di non saperlo proprio fare, e non sono nemmeno sicuro di volerlo fare. Credo molto nella suggestione potenziale della scrittura artistica, da autore avrei difficoltà nel non rendere il mio linguaggio suggestivo e deduttivo più che chiarificatore. La poesia, forma espressiva vicina allo scrivere canzoni, non chiarisce, ma suggerisce, poi sta al lettore interpretare e attorno a quelle suggestioni crearsi la propria visione. Però, in effetti, quello che dici potrebbe essere uno dei motivi per cui i Marlene non sono mainstream: per capire i nostri dischi li devi affrontare sul serio, devi ascoltarli due o tre volte per coglierne l’afflato letterario che da sempre ci caratterizza. Perché mai, mai, mai abbiamo perso questa cifra stilistica e questa onestà intellettuale. Dopodiché molti ci hanno abbandonato perché non facevamo più noise, ma questa, purtroppo per chi ci ha abbandonato, non è una valutazione di natura artistica, è un semplice gusto estetico molto banale che porta a sentenziare. Poi mi chiedevi delle mie fragilità… Quelle derivano proprio dal fatto che la musica sta prendendo una piega impossibile per i musicisti come noi, come me, e allora, certo, ti preoccupi, ti chiedi come finirà e allora ti viene da pensare che una svolta potrebbe arrivare facendo il giudice a X Factor. Solo che questo purtroppo non è per tutti.

Mi avevi già detto in una passata intervista che ti sarebbe piaciuto fare il giudice a X Factor.
Piaciuto non lo so, sicuramente la valuterei come un’opportunità di cambio importante. Non dimentichiamo una cosa che ha detto Manuel Agnelli in un’intervista, ossia, più o meno, “facendo il giudice a X Factor vado a cercare e a prendermi il potere”. Frase emblematica: evidentemente da musicista rock in Italia – e garantisco che fare rock in Italia è una faccenda di follia ed eroismo – non riusciva a prenderselo, quel potere. Poi ci si può chiedere: serve prendersi il potere? In un contesto in cui la musica non è remunerata purtroppo sì. Perché siamo in difficoltà, se ci fosse la remunerazione ognuno si collocherebbe nella scala dove gli piace stare senza ambasce di nessun tipo, ma questa scala non c’è più, non c’è più la situazione mediana: c’è la famosa forbice tra il 90% dell’umanità impoverita e il 10% dell’umanità sempre più ricca, e questo paradigma si riflette nel mondo delle piattaforme di streaming musicale.

Mi interessa la faccenda dei detrattori dei Marlene che hai sfiorato prima: è un po’ un tuo tarlo. Non è che sei troppo sensibile da questo punto di vista?
Io sono sicuramente molto sensibile, ma il fatto è che mi sono sentito tradito quando mi sono sentito abbandonato da persone appartenenti alla mia stessa comunità, che ascoltano lo stesso tipo di musica alternative che ascolto io, persone che, sbagliando, hanno intercettato intenzioni in noi che non esistevano e pensato che non fossimo più quelli di prima. Ma non è così: i Marlene hanno sempre avuto un approccio eminentemente artistico, semplicemente si sono evoluti, e se questo tradimento non fosse stato nocivo avrei potuto fregarmene, ma visto che nocivo lo è stato… io non lo mando a dire.

Com’era il Godano dei primi tre dischi dei Marlene tanto amati dai fan della prima ora?
Ero un giovane con un’energia pazzesca, che stava vivendo un sogno che si era finalmente concretizzato. E che essendo fan di molte band underground sapeva che si stava imbarcando in un’avventura che aveva tantissime probabilità di finire. Noi in questo momento ricordiamo i Litfiba, i C.C.C.P., i Diaframma, qualche altro nome forse c’è ancora, ma nella scena precedente alla mia tutto il resto è morto, ci sono avventure musicali durate uno o due dischi e poi basta. Quindi ero ben consapevole che l’Italia non fosse un Paese rock, come non lo è tutt’oggi. Eppure dopo oltre 30 anni eccomi qua.

Ora, però, ti tocca dirmi come inquadri il successo dei Måneskin.
I Måneskin non li ascolto perché ho altro da ascoltare, ma hanno ottenuto qualcosa che nessuno aveva ottenuto prima in Italia, ossia facendo rock in italiano sono diventati mainstream nel mondo. Non rispettati in una nicchia anche all’estero e negli Usa com’era accaduto alla PFM, ma mainstream. E questo sapendo suonare e riprendendo non solo i Led Zeppelin, che sento citare sempre quando si parla di loro, ma anche, per esempio, il funk dei Red Hot Chili Peppers. Mi permetto di immaginare che se riusciranno a mantenere questo successo, il rock italiano ne potrebbe giovare. Tra l’altro loro stessi hanno nominato Marlene Kuntz, Verdena e Afterhours come band ispiratrici e questo ha fatto sì che i nostri nomi siamo comparsi sul Guardian.

Quello che mi chiedevo è se tu che hai più volte dichiarato che il rock in Italia non funziona sei rimasto sorpreso, del successo dei Måneskin.
Intanto penso davvero che suonino bene dal vivo, spaccano. Premesso questo, non sono sicuro di essere sorpreso che il rock sia tornato a piacere in Italia, semplicemente loro hanno un’immagine potente, forte, Damiano si è attirato le classiche antipatie di molti proprio perché è uno che sa tirarsela bene, e il rock è fatto di gente che se la tira. Perché questa stronzata molto italiana di dire “quello se la tira”… ma cosa vuol dire? Fa parte dell’essenza rock questa cosa, l’essere spavaldi, avere una presa visiva, non importa se declinata alla Måneskin o in altri modi, in tal senso anche la non estetica di molti gruppi nerd è voluta.

Sul prossimo disco dei Marlene Kuntz puoi anticipare qualcosa? Ho letto che ci state lavorando.
Sì, abbiamo iniziato a fare sul serio, abbiamo fatto due settimane immersive, ne sono usciti sei pezzi che ci piacciono e al momento la direzione è sorprendente, vedremo se poi ci convincerà fino in fondo o meno, ma per ora stiamo andando altrove: potrebbe esserci molta componente elettronica.

E visto che ti cibi sempre di libri e poesie, c’è qualcosa che sta influendo sulla scrittura dei nuovi brani?
Un po’ di cose, di concetti sconnessi con approcci filosofico-spirituali di matrice orientale, ma niente che possa legittimare una mia immersione in contesti che mi affascinano, ma che non mi appartengono culturalmente.

Ti ritroveremo battiatiano?
No, infatti, mentre ti rispondevo mi dicevo che si potrebbe pensare questo, ma no, non credo. Anche perché quello che affascina me non mi sembra sia qualcosa che affascinava Battiato, al massimo si tratta di ambiti culturali simili. Per esempio, ho iniziato un libro, La pienezza del vuoto. Dallo zero alla meccanica quantistica, tra scienza e spiritualità: parla del concetto del vuoto, del nulla, concetto intrigante.

Perché?
Perché è difficile da accettare: noi siamo abituati alla concretezza delle cose, l’unica cosa ineffabile cui siamo abituati a pensare è l’anima – posto che esista, non è detto –, per il resto si parla di cose, di oggetti. Immaginare il nulla è più complesso, senza contare che il nulla fa paura, fa venire l’horror vacui, io stesso lo temo. Penso all’idea di morire e diventare nulla, da un lato sarebbe auspicabile, perché se dopo la morte non c’è più niente che problema c’è?, dall’altro l’idea della morte si accompagna sempre nella nostra testa al pensiero che qualcosa di noi permanga, anima o coscienza che sia.

E con questa ti tocca anche dirmi che canzone vorresti al tuo funerale, ti va?
Serrande alzate dei Marlene Kuntz. Perché è una ninna nanna che ho composto per mio figlio quando aveva 2 o 3 anni. Perché ha dentro qualche risvolto metafisico, quindi si sposa bene con realtà oltremondane come la morte. Perché così tutti direbbero “ah, questa l’aveva scritta lui” ecc. (ride). E perché in effetti ciò che auguro a me stesso al termine di questa vita è una ninna nanna eterna.

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