L’avevamo lasciata a Così vicini, album del 2014 che le era valso la Targa Tenco per la migliore canzone, Il senso delle cose. Sono trascorsi sette anni da allora, nel frattempo Cristina Donà ha pubblicato una raccolta, un disco con l’amica e collega Ginevra Di Marco, si è dedicata a uno spettacolo in omaggio alle donne di Faber che ha ricevuto il Premio De André, ha duettato con Dimartino nel brano I calendari, partecipato a un tributo a Robert Wyatt ideato dalla trombonista britannica Annie Whitehead, è salita sul palco con Massimo Cotto per lo show Rock Bazar e con l’attrice Isabella Ragonese per Italia Numbers. Intanto si appuntava idee, considerazioni, sensazioni che lasciate lì, su pezzi di carta e vecchi cellulari, hanno avuto il tempo di maturare per sbocciare, infine, in un nuovo album, deSidera, che ci mostra una cantautrice in stato di grazia, capace di una scrittura vivida, intensa, e qui molto diretta, sanguigna.
Alle spalle quasi 25 anni di carriera, Donà parte dall’etimologia del termine “desiderio”, letteralmente “mancanza di stelle”, per parlarci di desideri implacabili, bisogni indotti, distrazioni di massa, di ingordigia, di colpe, di una forsennata ricerca di capri espiatori che rende ciechi, di penuria di ossigeno in un mondo inquinato non solo dallo smog, ma dalla meschinità e dalla miseria di chi non sa fare altro che puntare il dito contro non importa chi.
Lo fa scavando nelle viscere, illuminando i nostri lati peggiori con un linguaggio a tratti persino carnale; lo fa come chi ha l’urgenza di sfogarsi, ma anche di urlare, di immaginare altri orizzonti possibili, di scuotere coscienze che paiono ormai ammorbate da istinti pavloviani. Il tutto restando nel solco di quel cantautorato rock che è da sempre la sua casa, ma che questa volta si tinge di nuove sonorità, di un’elettronica scarna, ma pungente, che arricchisce arrangiamenti stratificati e a tinte forti, messi a punto con la complicità del fidato Saverio Lanza. «Avevo deciso di non fissarmi sul processo di scrittura utilizzato in passato, ho lavorato in modo completamente diverso», dice Cristina.
Ti va di raccontare?
Ogni brano è germogliato attorno a pochi elementi. Se in precedenza partivo dalla stesura di una buona parte del testo per passare a un’idea dell’armonia e da lì andare avanti, questa volta ho scelto di raccogliere pochi spunti per traccia, anche solo due o tre parole o una frase che mi ero segnata da qualche parte, e di mandarli a Saverio per consentirgli di iniziare a costruire un mondo sonoro da sviluppare insieme. Ci siamo fatti guidare da questa modalità per noi nuova, ma che ci sembrava una strada possibile di fronte a un mio senso quasi di smarrimento.
Perché smarrimento?
Perché il caos in cui ci ritroviamo quotidianamente e la frenesia del mondo in cui viviamo mi fanno sentire spesso inadeguata. Non vado a quella velocità, io, per cui è come se avessi sentito il bisogno del tipo di sperimentazione che ho appena descritto per permettermi di imboccare una via per me inedita. Via che mi ha condotto verso la composizione di brani molto stratificati, che avremmo potuto semplificare o rendere più standard, ma che abbiamo scelto di lasciare così sia perché ci piaceva l’atmosfera che quel metodo di lavoro aveva fatto affiorare, sia perché a me personalmente stimolava l’idea, la sfida, di chiedere agli ascoltatori l’attenzione e il tempo necessari per entrare in in album non immediato, ma che credo possa regalare qualcosa di nuovo a ogni ascolto, se si ha voglia di sviscerarne il contenuto musicale e testuale, e che forse ricollego ai miei primi lavori, Tregua e Nido.
In sostanza hai scelto di andare controcorrente, si può dire?
Certo, so bene che in questo momento storico le menti di tutti sono sovraffollate e tanti possono preferire cose più semplici da ascoltare. Ma a parte che ho fiducia nel mio pubblico, sono convinta – e qui parlo da fruitrice di musica – che valga sempre la pena approfondire gli ascolti, usarli come spunti di riflessione. Correrò un rischio, ma io sono questa.
Lo trovo un disco molto bello, particolare, fortemente identitario. Come avete lavorato agli arrangiamenti?
Non avevamo modelli di riferimento, se non l’idea di utilizzare, là dove ci sono delle sequenze, un’elettronica definibile come preistorica perché non raffinata, ma incentrata su suoni piuttosto basici che in alcuni brani servono a sostenere la parte ritmica, in altri a dar vita a nuove sonorità attingendo da suoni reali. Un’elettronica che in diverse tracce è addirittura suonata a mano, per esempio per il singolo Colpa. Saverio aveva trovato un suono di batteria che ha riprodotto personalmente suonando ogni colpo lui stesso, quindi rinunciando a costruire un loop e puntando, semmai, sulla casualità del risultato, su una procedura più umanizzata, meno imprigionata in una griglia. Per lo stesso motivo in Conto alla rovescia abbiamo mescolato fiati finti con fiati veri, operazione non certo nuova – ormai si è già fatto praticamente tutto –, ma che aveva un senso rispetto al discorso che intendevamo portare avanti. In pratica non abbiamo realizzato dei provini per poi ricavarne la bella copia: abbiamo cominciato a lavorare e ciò che ne è scaturito ci è piaciuto così com’era.
Resti nel territorio di un cantautorato rock che alle chitarre accompagna fiati, archi, pianoforte, percussioni. Diciamolo, ché parlare di elettronica è sempre fuorviante.
Hai ragione, anzi, a dirla tutta deSidera è un disco più rock rispetto a quelli che lo hanno preceduto. Semplicemente ho voluto inserire questi colori elettronici – l’idea è stata mia – perché per la prima volta ho avvertito l’esigenza di legare la mia vocalità a dei suoni meno naturali di quelli canonici del rock.
Il risultato è un album tosto, concedimi il termine. Aspro, densissimo, un po’ amaro forse, ma anche pregno di un ardore e di uno slancio vitale non indifferenti. Sembra il frutto di una lunga riflessione: è così?
Sì, è il frutto di un mio percorso di autoanalisi e di riflessione sulla natura umana e sul mio modo di reagire rispetto al quotidiano e al sociale. Quel che è successo è che avevo molti appunti raccolti negli anni che a un certo punto ho ripreso in mano: è stato allora, rileggendoli, che mi sono resa conto di quanto in tutti quei pensieri sparsi il tema del desiderio fosse centrale, visto che la soddisfazione dei nostri desideri ha delle ripercussioni sul mondo in cui viviamo.
“Altro che aperitivo, ci siamo bevuti il pianeta”, canti in Distratti.
Perché è così, soprattutto in Occidente la stimolazione di bisogni e quindi di desideri è talmente costante da farci perdere di vista quanto la soddisfazione di quegli stessi bisogni e desideri provochi mostri là fuori. Mai come ora credo ci sia la necessità di un processo di consapevolezza che metta in luce le nostre responsabilità collettive ma anche individuali, visto che non viviamo isolati rispetto al contesto. Il punto è: esiste una strada per migliorare noi stessi e il mondo in cui viviamo? Perché ormai siamo di fronte a un bivio ed è vero che le forze in gioco, dalle multinazionali alla finanza, sono entità mastodontiche di fronte alle quali ci si sente un nonnulla, ma mi piace pensare che un pochino di potere di indicare una via ci appartenga ancora. Se non altro come consumatori… Insomma, sono anni che si parla di consumo consapevole e oggi sono contenta di vedere tanti ragazzi battersi per un’economia sostenibile ed ecologica, ma ora siamo davvero chiamati tutti quanti a porci almeno qualche domanda: sul desiderio, sì, ma anche sulla colpa.
Non è un caso che Desiderio e Colpa siano stati i primi brani estratti dal disco, immagino.
Già, ho ragionato molto anche su questa tendenza che osservo attorno a me di scaricare le colpe sugli altri o semplicemente su qualcosa che sia altro rispetto a noi: una strategia che semplifica la vita perché deresponsabilizza e che quando viene messa in campo dalla politica diventa ancora più grave. Basta trovare un capro espiatorio e la strada è spianata. E i capri espiatori cambiano e tutto rimane uguale. In questo senso deSidera è un album sulle fragilità umane: più che della cura della malattia, mi interessava parlare dei suoi sintomi, perché sono convinta che la conquista della consapevolezza sia già parte della cura. Anche perché il pianeta si autoregolerà, troverà i suoi modi per uscire dal disastro che abbiamo combinato; siamo noi che siamo in pericolo, peccato che molti non lo abbiano ancora compreso sul serio. È strano che in Italia non si sia fatto alcuno sforzo per mettere insieme un qualche partito politico ambientalista, fosse anche solo per convenienza, per catturare i voti dei ragazzi che scendono in piazza alzando la voce su queste istanze.
Sarà che i giovani non sono abbastanza, nel nostro Paese, per rappresentare un bacino di consenso interessante per la politica. Quello che mi chiedo è: in questo percorso che hai appena raccontato sei stata agevolata dal fatto di vivere in montagna da non so quanti anni?
Da tanti ormai: ho vissuto a Rho, dove sono nata, fino al 1993, poi mi sono spostata in Val Seriana. E tra l’altro, benché come atmosfere il mio primo album sia parecchio urbano, ho iniziato a scrivere proprio dopo essermi trasferita, quindi qualcosa conta. Provo una grande gratitudine per il fatto di poter elaborare i miei pensieri in un luogo comunque molto antropizzato, e pure inquinato, ma in cui ho la fortuna di aprire la finestra e di vedere le montagne, in particolare quella che chiamo sua maestà La Presolana. Un luogo in cui ho imparato a camminare, a concedermi lunghe passeggiate nei boschi, verso i rifugi, e dunque ad ascoltare il mio ritmo e il mio corpo e ad avvertire quanto quest’ultimo non sia affatto separato dalla natura, ma parte di essa. Che poi sono concetti che ci hanno insegnato a scuola durante le ore di fisica: è tutto collegato.
Forse il punto è lavorare su un tipo di desiderio molto distante da quello che nel tuo singolo definisci “cannibale” e che, sempre citandoti, ha come meta cose immediatamente commestibili. È questo l’appello che volevi inserire tra le righe di questo disco?
Esattamente, mi fa piacere che tu l’abbia colto. Tutto per me è nato grazie all’incontro con un’insegnante di yoga illuminata – e dico così perché ci sono anche molti “santoni” che fanno danni enormi – la quale mi ha insegnato a osservarmi da fuori. Osservare da fuori i propri sentimenti e le proprie azioni, senza un atteggiamento troppo giudicante, è utile per cogliere certi automatismi di cui, subissati come siamo da continui input, nemmeno ci rendiamo più conto e che ci hanno trasformati, chi più chi meno, in consumatori compulsivi, mai sazi. E credo sia l’unico modo per riprenderci un po’ di libertà, a meno che non si voglia vivere come in Metropolis di Fritz Lang. Certo, sarebbe meglio cambiare del tutto paradigma, ma almeno qualche rinuncia siamo in grado di farla?
L’unico brano che hai scritto durante la pandemia è Senza fucile né spada: lo hai aggiunto alla fine?
Quella canzone risale alla primavera 2020, stagione che ci ha visti reclusi e che nel mio caso, abitando in Val Seriana, dove le vittime di Covid sono state moltissime, mi ha vista anche in mezzo a una sorta di apocalisse che mi ha gettato in una paresi artistica. Però questo pezzo è venuto fuori, l’unico, e sì, ho voluto inserirlo nell’album perché ci tenevo a lasciare una testimonianza per i tanti che hanno perso i loro cari in quelle circostanze, anche perché se è accaduto quel che è accaduto è anche per una malagestione di ciò che stava avvenendo.
Come mai, invece, hai scritto una canzone, Come quando gli alberi si parlano, basandoti sulla storia di un suicidio di coppia? Nel comunicato stampa si spiega che si tratta di una vicenda giunta alle tue orecchie quando frequentavi l’Accademia di Brera a Milano.
Perché in quella storia finita in modo così drammatico ravviso un esempio di fragilità umana che può insegnarci molto. Non esistono una logica buona e una logica cattiva, e non sempre tutto è causato dalla società brutta e cattiva: per quelle due persone l’unico modo per continuare ad amarsi era togliersi la vita e per quanto questo possa sembrare assurdo e doloroso da accettare, è così e mi andava di raccontarlo. Le stranezze e le cose che non riusciamo a comprendere esistono, non si possono eliminare, ma a volte nella disperazione altrui, se ci si mette realmente in ascolto, possiamo trovare delle risposte. Come diceva Carlo Mazzacurati, «ogni persona che incontri sta combattendo una battaglia di cui non sai niente, sii gentile»: il rispetto per gli altri deve andare oltre alle apparenze.
L’amore torna sul finale in una traccia, Titoli di coda, che parla della fine di una relazione con un linguaggio immaginifico che rimanda al gergo cinematografico e che ho trovato interessante: “sono uscita dall’inquadratura”, canti a un certo punto.
Titoli di coda nasce dall’osservazione della fine di una storia d’amore di una persona che mi è vicina, con le immagini di cui parli volevo descrivere cosa accade quando si viene lasciati e si esce dalla vita dell’altro, per cui non si è più compresi, non si è più nei suoi piani.
In tutto ciò come ti senti rispetto all’industria discografica odierna?
Quest’estate ho fatto dei concerti e sono contenta di dire che c’è stata partecipazione, è andata bene, quindi non mi posso lamentare. Purtroppo è la visione del futuro che nel nostro campo è un grosso punto interrogativo, ma è pur vero che il mestiere del musicista, per come l’ho sempre vissuto io, è per sua natura precario e legato all’accettazione delle sfide che ti si pongono davanti ogni giorno. In questo momento di sicuro ci sono delle voci da sistemare, in primis quella del diritto d’autore su Internet, perché il principio del valore dell’opera si è completamente perso a favore del contenitore che sull’opera ci guadagna.
Ossia delle piattaforme di streaming musicale.
Già, è il motivo per cui nelle ricompense per coloro che hanno sostenuto la realizzazione dell’album abbiamo inserito una app che stiamo sviluppando e che, un po’ alla Patreon, cerca di ricostruire un rapporto tra artista e pubblico restituendo contemporaneamente valore all’opera. Bisogna anche avere il coraggio di dirlo, che la gratuità fa perdere di vista il valore delle cose.
Parli di ricompense perché hai realizzato l’album grazie a una campagna di crowdfunding su Produzioni dal basso: come mai questa scelta? Dubito non avessi altre opzioni.
Guarda, non ho nemmeno tentato di farmi produrre da un’etichetta, la mia è stata una scelta di autonomia e indipendenza. Avevo già sperimentato la via del crowdfunding per il disco con Ginevra Di Marco di due anni fa e nonostante il lavoro immane che questo tipo di campagne comporta ho pensato potesse essere un buon modo per finanziare anche deSidera, perché così mi tengo la proprietà del master e in futuro potrò decidere di farne ciò che voglio.
Nel 1997 fu Manuel Agnelli a produrti il disco d’esordio, Tregua, con cui poi vincesti la tua prima Targa Tenco. Che ne pensi della sua esperienza ormai multipla a X Factor?
Allora, premetto che io i talent non riesco a guardarli. E non per snobismo, ma perché la logica di quel tipo di programmi televisivi, con tutti quei ragazzi sottoposti a una pressione che io mai sarei riuscita a sopportare alla loro età, mi manda in sofferenza. Non riesco a guardare nemmeno Scherzi a parte, perché soffro per le vittime degli scherzi! Questo per dire che non so come Manuel stia effettivamente trattando i concorrenti, né come si stia comportando da giudice in tutto questo suo percorso. Però ho seguito il suo esordio nella trasmissione, la sua prima volta, e devo dire che l’ho riconosciuto, ossia ho riconosciuto il Manuel molto preciso, lucido e schietto con cui io stessa ho lavorato ormai più di 20 anni fa. Non ho mai pensato che facesse male a stare lì: il contesto è indubbiamente diverso da quello in cui l’avevo conosciuto, ma se la modalità è quella che ho visto, dato anche come stanno andando le cose nel mondo della musica, ben venga che uno come lui diventi un punto di riferimento.