Fino a circa due mesi fa, un’epoca così vicina e lontana, se fossi andato a farti un drink allo Zog sui Navigli di Milano, tra vere o presunte rockstar nostrane e frequentatori vari del locale avresti probabilmente incrociato questo tizio coi capelli lunghi, la barba, i jeans neri stretti, gli stivaletti e gli occhi nostalgici. Magari gli chiedevi una sigaretta e oltre a notare il suo strano accento inglese, né americano, né British, riconoscevi in lui qualcuno di vagamente familiare. Questo l’ho visto da qualche parte. Già.
Nicholas “Nic” Cester è stato il fondatore e frontman dei Jet, la band australiana che tra il 2003 e il 2009 ha venduto circa sei milioni e mezzo di dischi (non ascolti su Spotify, d-i-s-c-h-i). Se alla radio passano Are You Gonna Be My Girl, il loro singolo di maggior successo contenuto nel loro album di esordio Get Born, e non la riconosci subito ci sono solo due possibilità: a) sei un nostalgico e la scambi per l’intro di Lust for Life di Iggy Pop; b) nel 2003 vivevi sulla Luna.
Nic vive ormai da anni con la sua famiglia a Milano. Ho avuto modo di conoscerlo circa un anno fa e ricordo che fui subito incuriosito dai suoi modi gentili e dalla sua onestà quando, inevitabilmente, parlammo di musica. Oggi Nic porta avanti il suo progetto solista Nic Cester & The Milano Elettrica ed è uno dei componenti di The Jaded Hearts Club, una superband attorno alla quale c’è tanto hype. Beh, vedi tu, se tra i componenti ci sono lui, Matt Bellamy dei Muse, Graham Coxon dei Blur, Miles Kane dei Last Shadow Puppets e Sean Payne degli Zutons (oltre a Jamie Davis) forse non è poi così strano.
In una giornata di quarantena come tante altre e in concomitanza con l’uscita del secondo singolo dei Jaded Hearts This Love Starved Heart of Mine (It’s Killing Me), dove canta appunto Nic, lo raggiungo telefonicamente per una chiacchierata. Gli dico che sarà una breve intervista in cui vorrei parlare di musica e non solo, ma mento spudoratamente perché lo tengo al telefono per circa due ore. E dire che parto malissimo, perché è una videochiamata, ho appena finito di fare lavori in campagna e non ho avuto il tempo di fare la doccia: ho fili d’erba (niente battute) ovunque e mi presento con una bandana in testa più Rambo che Axl Rose per coprire i capelli e salvare le apparenze. Nic appena mi vede mi dice: «Aspetta un attimo». Scompare e riappare dopo un minuto sullo schermo del mio telefonino con una bandana in testa identica alla mia. «Ecco, ora possiamo cominciare», mi fa. E cominciamo, allora.
Vivi a Milano da anni. Come è successo, come ci sei arrivato? Ti senti ormai italiano?
I miei nonni sono entrambi di origine europea. Italiani e scozzesi per la precisione (Cester è in realtà Cestèr, friulano, nda). Non mi sono mai sentito veramente australiano, anzi, mi sono sempre percepito come europeo. Ho sempre avuto un forte legame con il mio nonno paterno italiano. Era un tenore e ho un bellissimo ricordo di lui che suonava la fisarmonica e cantava pezzi di Beniamino Gigli. Quando è venuto a mancare mio papà, dopo l’uscita del primo disco dei Jet, ho avvertito un forte richiamo verso l’Italia e le mie origini italiane. Avvicinarmi all’Italia e alla sua cultura era un modo di riavvicinarmi a mio padre, mantenere un legame con lui. Così, ai tempi del secondo disco dei Jet, comprai casa a Como, la mia fidanzata aveva studiato alla Bocconi di Milano e conoscevo Como anche per questo. Ma non mi sono subito trasferito in pianta stabile a Milano, ai tempi tra l’altro la stessa Milano era una città diversa, con un’energia ben differente rispetto ad ora. Dopo aver lasciato i Jet mi sentivo perso e dovevo cambiare aria, così andai a vivere per un anno e qualcosa a Berlino. Solo successivamente mi sono trasferito a Milano in pianta stabile.
Dopo lo scioglimento dei Jet non hai più suonato per circa 10 anni. Cos’è successo?
Beh, all’interno dei Jet si era creato un mood orrendo. Non ci stavo più dentro, veramente. È successo tutto in maniera veloce. Il successo è arrivato di colpo in concomitanza con la morte di mio papà. Da un lato il coronamento di un sogno, dall’altro un dramma personale, una perdita enorme. Non riuscivo a gestire la cosa, già dopo il primo disco dei Jet non mi sentivo più a mio agio all’interno di quel sistema. Abbiamo partecipato e vinto un premio agli MTV Music Awards a Miami e giuro, non ricordo un cazzo di quei giorni. Sarei dovuto essere alle stelle e invece ero totalmente chiuso in me stesso. Oggi mi rendo conto che soffrivo di depressione e non lo sapevo. Dopo il successo del primo disco abbiamo ricevuto tante pressioni anche da parte dell’etichetta per un secondo album, ma la verità è che non ero pronto, non avevo voglia di farlo. Questo ha creato attriti con mio fratello (Chris, altro componente e fondatore dei Jet, nda) e complicato ulteriormente un rapporto che con lui non è mai stato idilliaco. Anche dopo la perdita di nostro padre abbiamo avuto due reazioni totalmente diverse. Io sono scappato dentro di me, lui ha fatto l’esatto opposto. Si è appunto creata un’atmosfera orrenda all’interno della band e io ho completamente perso interesse per la musica. Così dopo il terzo disco ho smesso di suonare per 10 anni. Non potevo e non volevo né suonare né scrivere perché per me la musica è amore e passione, è verità e non sarebbe stato onesto per me farlo in quel momento, non sarei stato io, sarebbe stata una cosa finta, forzata.
E poi? Cosa è successo a Berlino?
Beh, a un certo punto a Berlino è come se qualche ingranaggio si fosse sbloccato. Ho ricominciato a suonare e a scrivere da zero quello che sarebbe poi diventato il mio primo disco solista, Sugar Rush. All’inizio mi sentivo quasi incapace, ma è lì che è rinato l’amore per la musica. Ho registrato parte del disco da solo a Berlino, suonando praticamente tutti gli strumenti. Mi sentivo di nuovo puro, dopo il primo brano è come se avessi rivisto la luce. Ora succede sempre ogni volta che scrivo qualcosa di nuovo, è come se mi sentissi sotto esame o incapace, ma in senso positivo, non è paura, è voglia di stupirsi di nuovo, uscire dalla propria comfort zone.
Facciamo un salto in avanti. I Jaded Hearts Club nascono come cover band dei Beatles. Come si è evoluto il progetto?
Ho conosciuto Matt tanti anni fa a Como. Ti racconto questa: ero a comprare una lavastoviglie e vedo questa donna bellissima che mi guarda. Uscendo dal negozio mi avvicina. Preso dal mio ego, pensavo fosse una fan. Mi chiede se sono il cantante dei Jet. E io: «Certo, sono io». A quel punto mi dice che è la fidanzata di Matt Bellamy dei Muse, che in quel periodo viveva proprio a Como, mi invita a cena da loro e capisco che non è interessata a me. Quella sera Matt ha preparato la pasta fatta in casa e io ho cucinato il ragù. È nata una vera amicizia, ci si vedeva spesso perché suonavamo agli stessi festival. Per quanto riguarda i Jaded Hearts Club, i componenti, escluso me, vivevano tutti a Los Angeles, la band è praticamente nata quasi per scherzo nel garage di mio fratello a L.A. Un giorno mi trovavo lì, dovevano fare un concerto e mancava Miles Kane, così mi hanno chiamato a cantare. Ho accettato senza nemmeno fare una prova. La cosa assurda è che Miles non c’era perché si trovava a Milano. Mi ha chiamato Sergio (Carnevale, già batterista dei Bluvertigo e di Nic Cester and The Milano Elettrica, nda) che mi diceva che era proprio allo Zog. Come se ci fossimo scambiati i ruoli. Da allora abbiamo continuato a suonare assieme e la cosa è diventata un vero e proprio progetto, anche perché Matt ha preso una pausa dai Muse e ha creato una nuova etichetta.
La band è composta da artisti abituati a essere al centro della scena. Come riuscite a far funzionare il tutto? Da fuori sembra davvero che vi divertiate molto, che ci proviate proprio gusto.
Ci divertiamo da matti, non c’è ego, questo ci tiene uniti. Abbiamo deciso di registrare il disco quando Matt si è preso una pausa dai Muse. Lui e Jamie hanno creato una nuova etichetta e hanno scelto i brani, attingendo soprattutto dal Northern Soul. Al momento sono tutte cover. L’idea era quella di recuperare dei lost classics, delle perle sommerse. Forse uno dei motivi per cui tutto funziona è che l’idea originale per questa band è venuta da Jamie, che non era un musicista professionista a tempo pieno. Ha reso il progetto genuino.
Quando tutto questo sarà finito farete un vero tour?
Sì, avevamo vari show programmati che ovviamente sono stati cancellati. Ci rifaremo.
Com’è nato e come si è evoluto il tuo progetto solista Nic Cester & the Milano Elettrica? È diverso, più maturo e groovy dei Jet, ci sono del blues e del soul a tratti. È come se tu fossi passato da scrivere e suonare musica da ragazzo a musica da uomo.
Ho vissuto esperienze che mi hanno portato a cambiare come uomo e quindi come musicista. Nella musica porti sempre le tue esperienze. Oggi mi sento decisamente più libero nella scrittura. Non ho più paura. Quando stavo per scrivere il mio primo album ho capito che la cosa meno rischiosa da fare era proprio rischiare, mettermi in gioco, perché non avevo nulla da perdere. A me piace tutta la musica, non solo un genere. Come ti dicevo mio nonno era un tenore. Mi piacciono Beniamino Gigli, Battisti, ascolto anche Nicola di Bari. Pensa che mi chiamo Nicholas proprio in suo onore (ride). Ho registrato parte dell’album a Berlino da solo, ma volevo una vera band con cui finire le registrazioni e andare in tour. In Italia ho cominciato a collaborare con i Calibro 35, ma non potevano venire in tour con me, però ho cercato altri musicisti e si è formata quella che oggi è la mia band. Alla chitarra c’è Adriano Viterbini dei Bud Spencer Blues Explosion, Sergio Carnevale, Daniel Plentz (già nei Selton, nda), Roberto “Drago” Dragonetti al basso e Raffaele Scogna alle tastiere. Dopo due settimane siamo andati in tour in Australia. È stato un successo, abbiamo riarrangiato i pezzi per suonarli dal vivo. Sono contentissimo di poter suonare con loro, persone che sono fiero di chiamare amici. Siamo come una famiglia.
Perché secondo te in Italia non riesce ancora a decollare una vera scena che, tranne alcune eccezioni, non esca dai cliché e dalle dinamiche di un certo modo provinciale di fare rock’n’roll? Di band valide ce ne sono e ce ne sono state, ma non riescono a venir fuori da una dimensione prettamente underground…
È difficile dirlo per me, per rispondere dovrei conoscere di più della storia musicale e della cultura italiana. Io credo che ogni posto abbia una sua energia e un suo dna e che questi poi si riflettano in tutto, anche nelle produzioni artistiche e quindi musicali, è un discorso anche di cultura. In Italia trovo musica ovunque, in ogni cosa. Nel cibo, nell’arte, nell’architettura, ma non ha forse quel tipo di energia specifica. È tutto più lirico, ecco. Tutto più intellettuale.
Che cosa ne pensi della scena musicale italiana? Ci sono band o artisti che ti piacciono? Do per scontato che ti piacciano i Verdena. Poi?
Mi piace Brunori, lo conosco personalmente e mi piace come persona e come artista, mi stupisce. E sì, i Verdena mi piacciono.
Cose che invece non ti piacciono?
Eh no, a questa domanda non rispondo.
Perché la musica di merda ha successo?
Beh, semplice: perché tendenzialmente è più facile e meno costosa. Per lo stesso motivo per cui la gente mangia da McDonald’s. È veloce, non richiede impegno, è meno costosa anche da un punto di vista del coinvolgimento nella sua assimilazione, emotivamente.
Sei entrato in contatto con tantissimi musicisti di fama mondiale. Chi ti ha impressionato di più?
Tra quelli che ho avuto modo di conoscere veramente, due su tutti. Uno è Liam Gallagher, ha un’attitudine che è unica, insuperabile. E poi Matthew Bellamy, lui lavora a un altro livello. Ha una precisione, una metodologia e una meticolosità nel curare ogni singolo aspetto musicale che è incredibile.
So che sei un grande collezionista di chitarre vintage italiane. Perché ti piacciono? Quale è la tua preferita?
Mi piacciono perché non sono inflazionate. Non hanno una storia mitica come le Fender o le Gibson, di cui conosco ogni dettaglio. Non sono ovvie, le capisco ancora poco, sono nuove per me, sono esotiche anche nel design. Esteticamente sono un mix tra il design italiano e qualcosa di kitsch nel senso più positivo del termine, sono lo-fi e molto cool. Non hanno spesso la qualità delle chitarre più rinomate quindi suonarle e farle suonare in un certo modo è un po’ una sfida, non mi sento comodo al 100% e quindi mi stupiscono. La mia preferita è una Crucianelli Elite rossa degli anni ’60 comprata da un tizio a Pavia qualche anno fa.
Sei una persona molto attenta allo stile…
È vero e il mio stile è cambiato nel corso degli anni accompagnando anche i cambiamenti musicali. Quando cambia il mio modo di pensare la musica cambia anche il mio stile. La barba che ho fatto crescere mentre scrivevo il mio primo disco solista, per esempio: volevo suonare cose diverse ed essere anch’io diverso. È una sorta di metodo di recitazione. Il mio stile musicale influenza il mio modo di apparire e viceversa. Il mio prossimo disco, per esempio, avrà tante influenze anni ’70 e, senza averlo pianificato, il mio stile sta cambiando. Avviene in maniera naturale, voglio esplorare un altro mondo. Ultimamente mi piace Serge Gainsbourg, per esempio.
Che musica altra stai ascoltando in questo periodo?
Mi piace molto il nuovo disco di James Righton. Poi Baxter Dury, è bravissimo. Ma anche Anderson .Paak, Thundercat e il nuovo di King Charles.
Devi fare la quarantena su un’isola deserta. Puoi portarti tre dischi, un paio di libri e una boccia di vino: quali?
Porterei i dischi con cui sono cresciuto musicalmente e che mi hanno ispirato di più: Tea for the Tillerman di Cat Stevens, Abbey Road dei Beatles e Stevie Wonder’s Original Musiquarium. Come libri direi Cuore di tenebra di Conrad e… il dizionario di italiano. Per quanto riguarda il vino ultimamente amo il Barbera.
La prima cosa che farai dopo il lockdown?
Voglio andare al mare.
Ti manca di più l’Australia o la Ferrari Dino degli anni ’70 che hai lasciato lì?
Dino!
Grazie Nicola. Ora puoi togliere la bandana.