Ci vuole del gran coraggio a scendere da una nave che procede a gonfie vele per avventurarsi da soli in mare aperto, magari battendo una rotta ancora inesplorata. Pochi sono disposti a correre il rischio: tra di loro c’è Dani Faiv, rapper spezzino classe 1993, che dopo anni di militanza in uno dei collettivi italiani più blasonati, Machete Empire, nel 2021 ha deciso andarsene per la propria strada.
All’epoca la notizia aveva fatto parecchio parlare, tra i fan dell’hip hop italiano: molti l’avevano classificata come una mossa suicida, molti altri erano talmente increduli che avevano addirittura ipotizzato che fosse stato cacciato dal collettivo. Ipotesi naturalmente molto lontane dalla realtà, come ci racconterà lui tra poco, ma nonostante tutte le incertezze del caso, Dani sembra molto contento del suo nuovo percorso. Ha appena pubblicato un nuovo album, intitolato semplicemente Faiv e dal sound molto più variegato dei precedenti: è davvero soddisfatto del risultato (tanto che «ci tengo a dirlo ufficialmente: al prossimo disco voglio anch’io la cover di Rolling Stone!») e si appresta a un’estate e un autunno di concerti («Tranquilli, sono fermo da un po’ ma non ho dimenticato come si tiene il palco»).
Faiv ha richiesto due anni di lavoro, un tempo considerevolmente superiore rispetto ai progetti precedenti. «Volevo un risultato più maturo», spiega. «Ogni traccia è stata elaborata nei dettagli dall’inizio alla fine insieme a molti musicisti, come una vera e propria canzone e non come un classico pezzo rap estemporaneo. Non a caso, in ogni brano c’è sempre uno special finale che spiega e riassume il concetto».
Come mai questo cambio di passo?
I miei fan sanno che ho sempre sperimentato. Ho voluto dimostrare a me stesso che non devo limitarmi. Ho ballato dai 6 anni ai 16, e negli ultimi anni in cui lo facevo ho frequentato un’accademia in cui ho studiato canto, facendo anche musical, coro, solfeggio. Amando soprattutto il rap, però, mi sono sempre mantenuto nella mia comfort zone. Ora, invece, era il momento di applicare quello che ho imparato.
La tua musica si è sempre contraddistinta per un mood più positivo e preso bene, rispetto a quella di tanti altri rapper italiani.
Non mi sento tanto parte dell’ambiente del rap, non condivido una certa mentalità. Di conseguenza fare brutto con le pistole non è un atteggiamento che mi appartiene, e anche se ci provassi farei ridere. Tanti cercano di costruirsi un personaggio, ma è un immaginario che non fa proprio per me.
In chiusura della prima traccia, Faiv, punto, dici “Non voglio essere un punto / voglio essere, punto”. Si ricollega a questo discorso?
Sì, diciamo che la mia è un’eterna lotta (ride). So quanto è fondamentale oggi essere un personaggio, ma il mio io più profondo mi dice di fregarmene. Non è quello che vuole il mercato, però. Io stesso mi sono reso conto che giocare un ruolo funzionava, quando ho iniziato la mia carriera: quando avevo le treccine colorate, ai tempi di Fruit Joint + Gusto, le interazioni sui social erano all’ordine del giorno, un sacco di gente mi scriveva in DM anche solo perché mi riconosceva. Non era una scelta dettata da uno stylist, sia chiaro: ero felice e mi sentivo libero perché per la prima volta riuscivo a mantenermi con la musica, avevo finalmente smesso di fare il cameriere, così avevo deciso di tentare una pettinatura un po’ folle per esprimere quella gioia.
In Faiv, invece, la copertina dell’album è completamente bianca, tipo tabula rasa.
Esatto, il concept può anche essere interpretato così: ricominciamo da capo e spacchiamo tutto.
È il tuo primo album da quando sei uscito da Machete, una cosa di cui si era parlato parecchio l’anno scorso. Hai qualcosa da aggiungere sull’argomento?
Continuo a frequentare tutti i membri di Machete e collaborerò ancora con loro in futuro. Jack the Smoker lo vedo spesso, ero con Nitro una settimana fa, sono stato al release party dell’ultimo album di Lazza, Salmo lo sento ancora. Sono tutti fratelli, per me. Lasciare è stata una scelta mia: volevo intraprendere un percorso un po’ più coraggioso. E l’ispirazione me l’ha data proprio Salmo, un artista che venero e che, pur avendo una crew fortissima, fondamentalmente lavora molto da solo, con una sua etichetta, artisti propri che produce, un suo tour. Preferivo fare un pochino meno, ma da solo, con le mie forze: il gruppo dopo un po’ rischia di limitarti troppo. Per fortuna le conferme sono arrivate, ho dei fan che si sono fatti anche otto ore di macchina per raggiungermi.
Di recente sei anche diventato padre, e questo è il primo album che pubblichi da quando tuo figlio è nato. Ti ha in qualche modo influenzato nello scrivere?
Onestamente al momento no, perché ha ancora cinque mesi e quando è nato il disco era già finito. Magari più avanti, chissà. Comunque, sceglierà lui quello che vorrà ascoltare, quindi non mi pongo neanche tanto il problema di cosa penserà quando sentirà le mie canzoni. Spero con tutto il cuore che non diventi un rapper, però. Come ti dicevo, non è un bell’ambiente, e a prescindere da quello la musica è sempre un bell’azzardo: scommetti su te stesso tutta la vita, quindi devi avere le spalle larghe e la capacità di comprendere che ci sono momenti in cui sei al top e momenti in cui scendi. Gli auguro di fare il calciatore: ti alleni, stai in salute e vai in pensione a 35 anni, meglio di così (ride).
Tornando all’album, il primo brano ad anticiparlo è stato Anno zero, che parla di tutte le sfighe e le tragedie che hanno funestato il 2020.
Durante la pandemia ho avuto la fortuna di poter comunque uscire e andare a lavorare, e quando ero in studio volevo scrivere qualcosa che facesse capire che la mia penna “pesava”. Così ho fatto uno storytelling in cui citavo ogni disgrazia capitata nel 2020: non solo il Covid, ma la morte di Kobe Bryant, quella di Maradona, le esplosioni a Beirut. È stato uno dei pezzi più difficili da scrivere.
Al contrario, invece, uno dei pezzi più leggeri e scanzonati è How To, una traccia in cassa dritta con la partecipazione di Myss Keta. È un tipo di musica che ascolti abitualmente?
A dirti la verità ultimamente, sarà un annetto, non ascolto praticamente niente. Quando scrivo mi limito a concentrarmi su quello che sto facendo, per non farmi influenzare da altri artisti. E poi ultimamente non mi stimola molto ascoltare musica: magari sarà brutto da dire, ma sono sincero. Ovviamente ci sono dischi che è impossibile non aver sentito – gli ultimi di Marra o Kendrick, per dire – però per il resto non ho tanta voglia. Comunque, How To nasce per divertimento, da un’idea che ci girava in testa da un po’ di tempo: inizialmente la voce recitata era stata creata con il simulatore vocale di Google, ma poi abbiamo pensato che ce ne volesse una più iconica, così mi è venuto in mente di chiedere a Myss Keta.
Finto giovane e Icona hip hop, invece, sembrano due tracce in qualche modo collegate, in un periodo storico in cui molti rapper anagraficamente più grandi preferirebbero rifiutare il loro status di pionieri del genere pur di apparire più appetibili agli occhi dei giovanissimi fan.
Finto giovane è un pezzo che volevo fare da una vita, da quando mi capita di uscire e di vedere cinquantenni che usano modi e atteggiamenti da ventenne. Icona hip hop, invece, è l’unico pezzo davvero hip hop, ma con un beat molto fresco e completato alla perfezione dalla voce di Emis Killa. Però non le vedo propriamente come due tracce collegate. È vero quello che dici, che tanti rapper si sentono in obbligo di ringiovanirsi per piacere al pubblico, ed è triste. Certi slang non me li sento bene addosso io che ho meno di trent’anni, figurati uno di 40. Ma il successo di Marracash è l’esempio lampante che non serve cavalcare l’onda per arrivare a più persone. Detto ciò, io parlo di musica: per me ciascuno può fare quello che vuole, l’importante è che spacchi.