Rapper di strada dall’animo sperimentale, inconfondibile tono nasale pungente che distilla la vita dei sobborghi di Detroit (da dove la sua storia parte) su beat che mescolano le influenze grime e garage hip hop d’ispirazione britanniche che caratterizzano Stormzy, Dizzee Rascal e Wiley: Danny Brown è tornato, con un album prettamente autoreferenziale, caratteristica che ha sempre dominato il racconto dei suoi lavori in questi anni e che, stavolta, assume un significato ancora più netto e graffiante.
Quaranta, appena uscito su Warp Records, è infatti un mondo di sentimenti al contrario che riescono, però, a dare coerenza alla sua voce, tra immagini di cicatrici aperte e una malinconia sarcastica, come suggeriscono i versi della title track in apertura: “This rap shit done saved my life / And fucked it up at the same time” (questa cosa del rap mi ha salvato la vita e allo stesso tempo me l’ha fottuta). Scimmiottando una traduzione italiana per “quarantena”, il riferimento del titolo è all’isolamento dovuto al Covid e allo stesso tempo una citazione alla sua età durante la scrittura dell’album, proprio un paio d’anni fa. Il cuore di questa storia, ora che di anni ne ha 42, è la lotta di Brown contro la dipendenza e il suo percorso verso la disintossicazione e il rehab, che in seguito alla separazione dalla partner lo hanno portato a pesanti abusi di droga e alcool.
Nonostante la musica, anche stavolta, confermi che Brown sia in grado di restare nel lotto delle personalità più interessanti della sua scena – una mimesi costante di attitudine rap pura, carattere punk e incursioni soniche nella dance, che rimane visibile nel tocco e rievoca il fatidico incontro con il canadese A-Trak, il fu-dj di Kanye West, durante la scrittura del secondo album XXX nel 2011 – in Quaranta, come in una dissacrante ramanzina a se stesso, l’artista si apre su esperienze personali complesse, fornendo uno sguardo autentico alla sua evoluzione: al sesto album, Brown emerge non solo con la musica, ma anche in una forte voglia di arrivare a vivere di luce nuova, navigando il panorama musicale senza cadere nella trappola della pretenziosità.
Lo abbiamo incontrato per farci raccontare meglio tutto. Danny si apre a modo suo, con un tono schietto e preciso, pur rimanendo mite e rilassato nelle risposte, mentre ci accomodiamo al bar di un hotel di Shoreditch, a due passi dal Village Underground a Londra: qualche ora dopo si sarebbe esibito in un concerto già sold out da giorni.
Il tuo è un album ricco di significati, molto intimi, personali. Cosa pensi si debba aspettare chi è dall’altra parte?
Credo sia chi ascolta a doverlo dire, io lascio aperta l’interpretazione. Posso dirti che di certo si tratta di un chiaro riflesso di ciò che ho passato negli ultimi anni. Il rap tende a essere un mondo contrario a questo aspetto: molti artisti pensano di sentirsi più grandi della vita stessa.
È quindi un disco che dovevi fare per dare voce al racconto della tua realtà.
Non credo dovessi fare qualcosa in particolare, è più corretto dire che è il risultato di quello che mi sentivo di fare. Faccio musica, poi decide lei quello che vuole, dove portarmi.
Quaranta nasce in quarantena, in un periodo per te molto duro. La scrittura è mutata insieme agli eventi che ti hanno segnato o avrebbe avuto lo stesso piglio autocritico, in un’altra situazione?
È partito tutto durante il primo lockdown, poi mi sono direttamente trasferito in Texas, quindi non direi abbia subito particolari cambiamenti. Sì, era un periodo duro, ma la musica per me è terapia, quindi Quaranta parla di cose di cui normalmente non farei menzione durante conversazioni normali. È stato un processo che è servito per umanizzarmi.
La tua penna è spesso etichettata come matura, in maniera diversa dal mondo rap convenzionale. Stavolta in che modo succede?
Credo sia la forma di musica più pura che potessi scrivere, anche guardando al percorso degli ultimi due album [Atrocity Exhibition del 2016 e U Know What I’m Sayin? del 2019, ndr] che cominciavano ad addentrarsi in un certo tipo di racconto. Poi di solito, con gli anni, il rischio è di esagerare: capita che molti artisti fanno quelli strani solo per il gusto di, finendo per lamentarsi che se chi ascolta li critica, allora non ci capisce. Ma se la musica non è buona, non è buona e basta, no?
È qualcosa relativo all’evoluzione della musica oggi, con sistemi e velocità di fruizione che condizionano anche le idee dell’artista, secondo te?
In parte, ma il più delle volte accade semplicemente perché certi artisti cercano solo di fare i pretenziosi. Voglio dire, è davvero difficile fare un pezzo che abbia successo, specie nel pop, quindi a livello fortemente commerciale: ci vuole tanto talento. A volte esagerare con della roba strana è più che altro una reazione istintiva per uscirne indenni, far capire che si è diversi (mentre magari non si ha successo, semplicemente). Il più delle volte non è così.
E nel tuo caso, specie dopo questi anni piuttosto turbolenti, come hai evitato che questo accadesse nella scrittura di Quaranta?
Cerco da sempre di usare la musica per sfidare me stesso. E sento che sì, avevo qualcosa di vero da dire. Faccio rap da parecchio tempo ormai, e sarebbe facile farlo sugli stessi beat, facendo sempre la stessa cosa. Ciò che voglio, al contrario, è proprio evitare di ripetermi. Credo che il mio picco di sperimentazione sia stato Atrocity Exhibition, poi però recentemente ho lavorato con Peggy [l’amico rapper newyorkese JPEGMafia, ndr] che penso abbia fatto uscire un altro mio lato significativo, in questo senso [Scaring the Hoes, l’album collaborativo tra i due, uscito la scorsa primavera, ndr].
Anche Scaring the Hoes in effetti è uscito quest’anno, anche se è un lavoro collaborativo che sembra avere un altro contorno, specie a livello emotivo.
Avevo già finito di lavorare a Quaranta quando abbiamo iniziato a registrarlo. Io e Peggy siamo amici, parliamo molto. L’album è stato il risultato di alcune jam fatte insieme, divertendoci in studio nel tempo libero, senza alcuna pressione particolare su quanto venisse fuori. Non abbiamo pensato troppo a cosa dovesse essere, insomma. Quaranta è frutto di un altro tipo di lavoro.
Hai dichiarato che quando vi siete trovati in studio era piuttosto difficile lavorare con te: spaziavate da interi weekend senza che venisse fuori un pezzo ad altri momenti in cui riuscivate a chiuderne cinque in un giorno solo. Se ci sarà occasione, ora che ti trovi in una fase migliore, lavoreresti ad altro materiale e con idee diverse?
Beh credo tu ti sia risposto da solo. Come ho detto, siamo amici, in quel momento ci scrivevamo spesso, siamo riusciti a lavorare all’album e il resto è andato in porto. Per stavolta è andata così. Era un periodo in cui bevevo troppo.
Quanto hai voluto uscisse di te in questi lavori? Anche a livello sonoro, oltre che per i testi.
Ogni volta che comincio a scrivere un album so che in realtà ci sarà gente che troverà il mio modo di raccontare un po’ strano: non è stato molto diverso neanche stavolta. Sono cresciuto ascoltando artisti di Def Jux, che come realtà nasceva quando avevo vent’anni, pur non essendo esattamente parte della cultura popolare: era difficile ti capitasse di ascoltare quella musica in radio. Sono stati un po’ il mio modello durante il tempo. Negli anni mi sono appassionato molto anche al grime britannico, com’è noto.
Tra le reazioni che hanno suscitato il tuo ritorno, un sentimento ricorrente è stato si trattasse del “figlio maggiore” di XXX, che usciva nel 2011 su Fool’s Gold, l’etichetta di A-Trak, quando eri alla soglia dei trent’anni.
È stato un update naturale. Possiamo dire si tratti di una seconda parte di XXX, che mette un punto a un capitolo, a una particolare versione di me. A quell’artista. In dieci anni cambiano tante cose e io ho avuto modo di crescere, se ripenso a dove mi trovavo. Mi capita di ascoltare pezzi del passato che hanno la grande dote di suonare ancora attuali, perché certi artisti hanno lasciato il racconto di un preciso momento con la loro musica. Quello che cerco di mettere nel mio processo creativo è essenzialmente lo stesso.
La tua scrittura oggi è molto matura, non si tira mai indietro.
Penso che in realtà tutti i miei lavori abbiano avuto queste caratteristiche. Spesso la gente si ferma a un solo aspetto della musica o dei testi, e soprattutto si sofferma sui contorni negativi delle cose. Succede, non so perché. Invece credo la mia visione abbia sempre espresso dei tratti più riflessivi e meditativi, come in questo caso.
In un’intervista al The Guardian dicevi: «Ho visto tanti artisti disintossicarsi, dopo la loro musica fa schifo». La tua storia adesso è quella di una rivincita?
Quando ho iniziato a lavorarci ero ancora completamente in quella fase, quindi non lo dicevo in quel senso. Ero talmente preso dalle cose che lavoravo frettolosamente ai brani perché volevo tornare a fare altro, adesso sono in un momento diverso, ho molta più pazienza. Mi sto godendo la musica che è nata e il percorso che ho completato. Quello che intendevo era che molti artisti pensano davvero troppo a come scrivere, quando sono totalmente ‘sobri’, e finiscono per non sentire veramente quello che dicono con la musica.
Quaranta ospita la produzione di the Alchemist, Quelle Chris, Skywlkr e Paul White, il batterista Kassa Overall e featuring con Bruiser Wolf e MIKE. Hai voluto cambiare qualcosa nella produzione rispetto al passato?
È stato più che altro un lavoro dell’etichetta, da parte mia c’era la volontà di fare di nuovo qualcosa con the Alchemist, con cui mi ero sentito durante la quarantena e con cui avevo già lavorato in passato su Atrocity Exhibition. Parlavamo molto di beat e di musica nuova durante l’isolamento. Ciascuno ha comunque dato molta coralità al progetto, aggiungendo tanto in post-produzione, rispetto alle demo che mandavo loro in quel periodo.
Nel frattempo ti sei anche trasferito, da Detroit ad Austin. Cosa c’è stato dietro questa decisione e quanto pensi possa aver influito per il Danny Brown più recente?
Avevo bisogno di farlo, non credo sarei stato in grado di disintossicarmi rimanendo nel mio ambiente. Certe persone, certi posti e certe dinamiche non mi avrebbero dato modo di concentrarmi su me stesso, come stavo cercando di fare. È stato una sorta di ritiro spirituale. Detto questo, la scena musicale lì è florida come ha sempre raccontato la sua storia, e in particolare per il rap di strada basta menzionare J Dilla per capire quanto abbia dato al genere. Per me è sempre stata una motivazione a fare bene, è dura essere nati lì e doversi confrontare con un certo peso storico, sai?
Arrivati a questo punto, possiamo dire che questo album è la chiusura di un cerchio?
Sì, adesso sarà come iniziare a sfogliare un nuovo libro. Dico spesso che Dio è il mio ghostwriter, perché a volte non so da dove venga fuori la musica che scrivo. Ma è così, per la maggior parte degli artisti è un gioco di soldi, io invece la tratto come una sessione di terapia. La musica durerà più di me, questo è certo. Quindi voglio che lasci una rappresentazione fedele di quello che ho passato.
E adesso ti trovi in un posto migliore?
Decisamente. Tutto questo è stato utile a farmi lavorare su me stesso. Quando affidi la tua felicità a droghe e alcool pensi che in qualche modo ti stiano aiutando, mentre invece metti in difficoltà le persone che hai intorno. Spero possa ispirare al cambiamento chi si trova nella stessa situazione in cui mi trovavo io, portarlo a pensare: “dopo tutto quello che ha passato, lui ce l’ha fatta”.
Se guardi indietro a quando hai iniziato, diresti di aver incontrato la versione di Danny Brown che ti aspettavi di incontrare a questo punto?
Non so dirtelo, sono diverso e l’importante è che lo possa raccontare. Fare musica per me è come avere un diario aperto in cui confessarmi, il resto intorno a te cambia perché nel frattempo cambia la vita, cambiano i momenti. Prima magari avrei fatto “la cosa da rapper” che parla di cose cool, mentre in quest’album c’è un messaggio e c’è tanta vita reale e vissuta. Il rap è il miglior modo di raccontarla. E credo che adesso, o almeno fino a questo punto, racconti un lieto fine.