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Dardust a Sanremo 2021: «La mia missione è portare l’indie al grande pubblico»

È l’eminenza grigia del Festival, per cui ha scritto cinque canzoni diverse per genesi e obiettivi. Stasera torna sul palco da protagonista: «Vorrei mostrare il mio mondo creativo, quello più libero e distante dal pop»

Foto: Emilio Tini

Tutti lo cercano, tutti lo vogliono. A Sanremo Dardust ha firmato ben cinque canzoni in gara: tre, ossia Voce di Madame, La genesi del tuo colore di Irama e Amare de La Rappresentante di Lista, con il suo nome d’arte; Glicine di Noemi e Quando trovo te di Francesco Renga come Dario Faini, suo nome all’anagrafe. E dopo aver prodotto il medley con cui Elodie ha fatto impazzire il web, stasera sarà all’Ariston nel ruolo di ospite: lo vedremo al pianoforte assieme ai tamburini della Quintana di Ascoli Piceno, la sua città. Avrà un momento tutto suo, dunque, si prenderà il palco da protagonista dopo che negli ultimi anni, come produttore e autore, ha infilato così tanti successi da diventare uno dei Re Mida del pop italiano, quello che funziona, radiofonico, da classifica. Basti dire – parlando di sodalizi recenti – che al 44enne Faini si deve molto del sound di Mahmood, con cui, tra le altre cose, ha scritto sia l’hit Soldi, assieme a Charlie Charles, sia il nuovo singolo Inuyasha, e che c’è il suo nome anche dietro a Il mio amico di Madame featuring Fabri Fibra. «Con questa esibizione al Festival vorrei far capire il mio mondo creativo, quello più libero e distante dal pop, benché sempre contaminato da quest’ultimo».

Sarà il tuo show, insomma: che cosa proporrai?
Suonerò al pianoforte un medley di miei pezzi presi dai dischi che ho pubblicato finora come Dardust. Partirò con Sublime, dall’ultimo album (S.A.D. Storm and Drugs, uscito a febbraio 2020), per poi passare a brani più vecchi. E con me avrò questo ensemble dei tamburini della Quintana di Ascoli, una parata di tamburi che mi accompagnerà. Oltre a due musicisti che mi affiancano ormai da tempo, Vanni Casagrande e Marcello Piccinini.

La Giostra della Quintana è una rievocazione storica di origine medievale che si tiene ogni estate ad Ascoli, città dove sei nato e cresciuto. A parte i motivi biografici, come mai questa scelta?
Mi piaceva l’idea di mescolare qualcosa che viene da un passato lontano con un contesto futurista come quello che ho in mente di creare. Perché ovviamente, come nei miei dischi, ci sarà molta elettronica. In scaletta dovremmo essere sul finale, non so ancora; in ogni caso questa performance è molto importante per me, l’ho pensata così anche in omaggio a mio padre, che ho perso poche settimane fa (Adelmo Faini, noto ad Ascoli in quanto ex consigliere comunale del PCI e fondatore della Cooperativa di servizi Il Capitano, nda).

Sei stato indicato come colui che, comunque vada, il suo Sanremo lo ha vinto: che effetto ti fa?
Ho cinque pezzi in gara, in effetti sono tanti. Non me l’aspettavo, tutto questo, in lockdown e nonostante la pandemia si è lavorato tantissimo. Per fortuna, visto che venivo da un periodo non bellissimo, con alle spalle un tour cancellato e altre cose. Lavorare e collaborare con così tanti artisti mi ha aiutato molto, la musica è stata la mia salvezza. Se poi penso che c’erano altre candidature per Sanremo, altre canzoni che erano in stand-by e che poi non sono state selezionate… Ecco, più che altro mi viene da pensare alla mole di lavoro che rende possibile tutto questo.

Si fa fatica a starti dietro, lo scorso luglio hai pure coniato un terzo pseudonimo, DRD, con cui hai lanciato Defuera, tuo pezzo con Ghali, Madame e Marracash.
Parlando di Sanremo, ho voluto distinguere i miei lavori, ma non per discriminare un repertorio rispetto all’altro. Diciamo che i brani firmati Dario Faini sono più tradizionali, mentre i pezzi firmati Dardust sono quelli più contemporanei, più contaminati e sperimentali. In particolare, con Voce della Madame – come la chiamo io – e con La genesi del tuo colore di Irama mi sono divertito a giocare con i colpi di scena, a inserire elementi che danno vita a un contrasto, che tolgono la linearità che ci si aspetta. Nella canzone di Irama, per esempio, c’è questo vocoder improvviso che arriva dopo un’esplosione di archi, un mix di tradizione e innovazione. Allo stesso modo con Estremo, il produttore con cui ho lavorato a Voce, l’idea è stata quella di dare al brano un taglio tra l’urban e il neoclassico.

Amare de La Rappresentante di Lista, però, suona più classica se la si paragona al repertorio proposto dalla band finora, non credi?
Lì non sono intervenuto tanto nella scrittura, il brano era quello. È vero che nel ritornello c’è un’apertura più classica, ma sulle strofe ho cercato di dare un taglio più elettronico, più particolare. Sicuramente è un pezzo più “largo” rispetto al repertorio già noto de La Rappresentante di Lista, però credo fosse proprio questa la missione, no? A me piace sempre prendere l’indie e tentare di portarlo al pubblico più ampio, è una bella sfida.

È il motivo per cui, a seconda dei punti di vista, sei elogiato o criticato: come te la vivi?
Sai, per chi mi critica portare avanti l’operazione che ho appena descritto significa normalizzare, livellare, ma io non sono d’accordo. Anzi, penso che portare elementi sperimentali nel pop, senza snaturare nulla, sia una missione fondamentale.

Al di là della classifica finale di Sanremo, Madame sta senza dubbio sparigliando le carte nella scena musicale italiana: qual è il tuo giudizio tecnico?
A livello di metrica e di flow, considerando anche il suono delle parole, il modo in cui le pronuncia in maniera nuova dando un suono diverso alle vocali, lei sta sicuramente innovando la musica italiana. Come nei brani di Mahmood, nei pezzi di Madame convergono vari mondi sonori, quello della canzone, quello urban, quello dell’elettronica. È un po’ come se lei fosse l’esponente femminile di un crossover che sta rivoluzionando il modo di scrivere canzoni nel nostro Paese. Anche se devo ammettere che noto ancora un certo approccio conservatore a Sanremo, ma insomma, va bene… Tornando a Madame, è anche giovanissima, ha solo 18 anni, avrà tutto il tempo di essere compresa da ancora più gente, ma già in questa edizione del festival mi sembra stia dimostrando il suo talento, che è tanto. Tra l’altro, mi ha sorpreso la spudoratezza e la sfrontatezza con cui ha affrontato un palco come quello dell’Ariston, non è da tutti.

Curiosità: quanto ti sei divertito a preparare il medley per Elodie? A me sono subito venuti in mente i 2 Many DJs, ci hai pensato?
Sai che no? Li conosco, ma ho pensato più che altro all’obiettivo di unire melodie di brani iconici italiani con un impianto più internazionale, un’idea venuta fuori da una conversazione con Jacopo Pesce, il direttore della Island Records. Il principio era accostare canzoni come Vogue di Madonna e Guaranà della stessa Elodie, Crazy in Love di Beyoncé e Soldi di Mahmood, il tutto con una performance che non fosse tipicamente italiana. Perché da noi c’è sempre un po’ di pregiudizio nei confronti di chi sul palco canta e balla, come se muoversi sul palco facesse necessariamente scadere la qualità, mentre all’estero questa cosa è sdoganata. Comunque sì, mi sono divertito tantissimo, giocare con la musica per un’operazione del genere è come stare al luna park, su una giostra gigantesca.

C’è stato qualche mash-up che avresti voluto proporre, ma che hai escluso perché troppo audace per Sanremo?
No, però c’è un passaggio di Let’s Dance di David Bowie che non so se è stato notato da tutti, e che ci è venuto in mente, a me ed Elodie, a pranzo, poco prima delle prove fissate per il pomeriggio. Mentre mangiavamo è partita Let’s Dance di Bowie, appunto, e ho subito detto “cazzo, questa dobbiamo metterla!”: sono andato in studio e l’ho aggiunta al volo.

Come mai avete inserito il playback, nell’esibizione di Elodie?
Guarda, posso assicurare che Elodie ha cantato tutto live, le abbiamo risparmiato solo i due “guaranà” che avrebbe dovuto cantare mentre scendeva le scale per tutelarla, visto che indossava pure dei tacchi altissimi. Infatti nel resto della performance si sentono anche delle imprecisioni nel cantato, belle, secondo me, in un medley tutt’altro che facile come quello. La scalinata dell’Ariston è davvero rischiosissima, io stesso sono spaventato, stasera spero di poter partire direttamente seduto al pianoforte.

Foto: Alessio Panichi

Tu che hai già partecipato ad alcune edizioni precedenti, come lo stai vivendo questo Sanremo con la pandemia?
Eh, è tutto blindato, fatto di linee che non si incontrano. Tra artisti, staff e team diversi non ci sono contatti, siamo tutti separati, mancano lo scambio, il dialogo, i festeggiamenti. È strano…

Lo Stato Sociale e Alessandra Amoroso con Matilde Gioli hanno dato voce, in modi diversi, ai lavoratori dello spettacolo: da musicista in una posizione fortunata, che cosa ti senti di dire sullo stop dei live?
Preferisco guardare il futuro con speranza e con la carica di chi è pronto per ripartire. Sono proiettato in maniera positiva verso la fine di questa situazione, perché è l’unica luce che ho davanti. Voglio assolutamente tornare a vivere la musica nella condivisione, è fondamentale questa cosa. Oltre ai problemi economici che tanti hanno e per i quali ovviamente mi dispiace – non c’è nemmeno il bisogno di dirlo, credo –, soffro per il fatto che noi artisti stiamo tutti vivendo la musica in due dimensioni, non più in 3D: ci manca la terza parte, che è lo scambio di energie che si crea durante i concerti, e questo fa sì che non sappiamo più cosa pensa il pubblico, quanto è fragoroso un applauso e quale energia un brano può darti dal vivo. Ed è un limite alienante, perché le endorfine sono il motore primo di questo mestiere così magico.

Nel frattempo abbiamo perso Claudio Coccoluto e si sono sciolti i Daft Punk.
Già, due miei riferimenti, due brutte sorprese, non me l’aspettavo. Coccoluto è stato l’esponente numero uno della club culture italiana, l’ho sempre seguito, sin dagli anni 90. I Daft Punk sono stati rivoluzionari sotto il profilo dell’estetica elettronica e non a caso li tengo sempre in considerazione quando produco e scrivo, per l’utilizzo dei synth, per l’uso del vocoder. La prima volta che sentii Around The World per me fu un’epifania, così come lo è stata Hey Boy Hey Girl dei Chemical Brothers.

Come sarà il pop del futuro?
Per come la vedo io si resterà nell’ambito della contaminazione tra mondo urban e forma canzone, ma in questo contesto si cambierà un po’ attitudine, torneremo all’organico, a ciò che è caldo, analogico, ai musicisti che suonano in studio, magari ensemble provenienti dal jazz, dall’r’n’b, dal soul.

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