«Nella mia testa questo era un disco già spento, morto»: inizia così la chiacchierata con Dardust, in questa chiacchierata che nasce proprio attorno all’uscita del suo nuovo album, Duality. Un disco che si divide in due parti: una elettronica (e piuttosto densa), una praticamente per piano solo (molto rarefatta). Un disco che può deludere chi cerca il pop, il featuring scintillante, il Re Mida della discografia che trasforma in streaming e/o in efficace pezzo da Sanremo 2.0 tutto quello che tocca. È piuttosto un disco da prendere molto seriamente, nel momento in cui si vuole capire chi realmente lascerà un solco di spessore sulla musica italiana un po’ più alta e colta riuscendo al tempo stesso a non essere strettamente elitario.
Perché di elitario nell’ultimo anno di Dardust c’è stato tra l’altro ben poco: sigle per Olimpiadi prossime venture, concerti nel deserto di spessore internazionale, la direzione della affollatissima ed ingorgatissima e nazionalpopolarissima Notte della Taranta. Cose così. Solo che invece di cullarsi sugli allori e passare ai dividendi, Dario Faini sta addirittura meditando di tagliare la corda. Ma andiamo per ordine. E partiamo da questo Duality che «era già morto»: quando è, invece, un disco decisamente notevole.
Spiegami meglio, questa cosa di Duality per te defunto…
La fase di creazione e composizione alla fine era terminata un anno fa. Nella mia testa quel disco era chiuso. Poi però c’è stata la voglia di adattarlo al Dolby Atmos, al suono spaziale; e caspita, lì mi sono reso conto che era un lavoro davvero potente, soprattutto nella parte elettronica, con tutti i diversi layer che ci sono.
Dolby Atmos, audio spaziale… Poi però la gente ascolta musica con le cuffiette.
Vero. Ma ormai alcune cuffiette hanno dei sistemi notevoli… Però effettivamente con loro non potrai mai fruire del suono a 360 gradi, come regola nell’audio spaziale. Io però resto convinto che più andremo avanti più sarà questa la via da seguire. E questo influirà anche sulla composizione: si inizierà a comporre pensando direttamente a come situare nello spazio la propria musica, uscendo dai limiti dell’ascolto binaurale. Si penserà proprio in modo diverso, insomma. Io un po’ già ho iniziato a farlo.
Intanto, nel dubbio, hai iniziato a dividere i dischi in due: una parte tranquilla e (quasi) acustica e in solitaria, una parte mossa e molto elettronica. Solo che stavolta hai invertito l’ordine rispetto ai live: prima la parte mossa, poi quella in piano solo.
Perché me l’avevi consigliato tu, quando eri venuto a sentire i provini mesi fa.
Stai scherzando?
Per nulla.
Giuro che manco mi ricordo di avertelo detto. Davvero, eh.
«Occhio che a mettere prima la parte di pianoforte solo la gente poi la prende come una introduzione quasi da aperitivo, qualcosa da tenere in sottofondo prima che inizi il disco vero»: avevi detto così.
E ti ho convinto, mi pare di capire.
Però la cosa in parte sorprendente è che il pubblico, almeno quello dello streaming dove i numeri li puoi misurare in modo molto chiaro, sembra molto più ricettivo verso la parte di piano solo. Ma non è solo questione di numeri, mi sembra sia così proprio anche dal punto di vista emozionale. Non so, forse l’elettronica è ancora troppo legata alla dimensione del live, del ballo, e per un ascolto casalingo fatica ad essere accettata. O almeno, questo accade nel mio caso.
E la cosa un po’ ti dispiace?
Relativamente. Perché sono convinto che, adesso che a breve avrò modo di portare Duality live in giro, la miccia si accenderà anche per la sua parte più elettronica. Però sì: quella è la parte che ho curato di più. L’ho fatto maniacalmente, soffermandomi su ogni minimo dettaglio. Il piano solo invece è un viaggio molto più istintivo, emozionale; alla fine l’ho registrato in poco più di una settimana. Sai cosa? Probabilmente siamo in un’era in cui siamo talmente sovraccaricati di stimoli che sì, trovare qualcosa di essenziale, asciutto, semplice ti coinvolge emotivamente molto di più…
Col risultato che appunto nel panorama dello streaming il disco col pianoforte solo e al massimo una spruzzata di elettronica, la neo classica insomma, è diventato un genere piuttosto inflazionato. Per funzionare, funziona. E ci si buttano in tanti.
Non lo so. Io di sicuro sono innamoratissimo di questa dimensione. E no, non mi sembra inflazionata, onestamente. Anzi: mi sembra ci sia proprio un desiderio in giro di ancora più cose asciutte, semplici, immediate. Tra l’altro è stato molto interessante il ruolo di Taketo Gohara, che ha curato la registrazione di questa metà “tranquilla” del disco.
Ovvero?
Lavorando col pianoforte solo, parto di solito da un tema, che giocoforza è semplice: è il tema, deve essere semplice. Poi però io cerco sempre di arricchirlo, di aggiungerci delle cose, dei virtuosismi, perché insomma, voglio far vedere che sono bravo, che so suonare. Inserisco arpeggi, soluzioni intricate, incrocio le mani mentre suono… Stavolta Taketo invece si è proprio imposto: «No. Fermo. Stai fermo. Il pezzo resta così».
Ma non ci credo che gli hai dato ascolto.
Stranamente invece stavolta mi sono fidato subito (ride)… Strano, vero? Ma mi rendevo acconto anche io che i temi che avevo creato andavano, in qualche modo, subito al punto.
Però dimmi che almeno la parte elettronica del disco te la sei tenuta tutta per te.
Ecco, sì.
Ah, ora ti riconosco.
A parte Vanni Casagrande, che mi ha aiutato in un paio di passaggi, sì, volevo che fosse una sfida completamente mia. E anche l’idea di inserire delle parti legate a un certo tipo di nuovo jazz è assolutamente una scelta personale. Ero in un periodo in cui stavo ascoltando parecchio Kamasi Washington, Comet Is Coming, quella roba lì, tant’è che volevo inserire tutto questo in quello che stavo facendo. Ne ho parlato con Enrico Gabrielli dei Calibro 35, che era venuto a fare delle parti di clarinetto e di flauto, chiedendogli se magari lui aveva qualche contatto per arrivare a quella gente lì, e lui mi ha risposto «Ma perché andare fino a lì, guarda che in Italia c’è della gente che fa esattamente questo, ha esattamente il tipo di suono che stai cercando, si chiamano Studio Murena». Ho seguito il consiglio, è stato super: ci siamo intesi subito, coi ragazzi. Nonostante la differenza d’età e in teoria anche di background, parlavamo la stessa identica lingua. Loro sono preparatissimi tecnicamente, come strumentisti. Ci si intendeva subito quando ci si parlava di accordi, di cambi, di quinte da suonare, di modulazioni. È vero che la musica elettronica ha una componente prima di tutto da nerd, più da sintesi e programmazione che da esecuzione e composizione, ma poterla approcciare avendo anche una conoscenza teorica forte aiuta, credo, a fare cose più interessanti, almeno potenzialmente.
Che poi, parlando di collaborazioni non scontate e di elettronica, quest’anno ti ha portato anche d un altro progetto collaborativo: quello con Benny Benassi. Una faccenda molto diversa.
E Sophie di Sophie and The Giants alla voce.
Esatto: Golden Nights.
Con Benassi mi sono trovato benissimo, è proprio una bella persona. Un entusiasta. Gli chiedo un sacco di pareri, di consigli. E la versione di Golden Nights che abbiamo curato in prima persona, con la collaborazione di Astrality, trovo sia molto bella. Quella invece uscita alla fine in tutta Europa proprio non mi piace.
Prego?
Se la riascolto, per me è senza senso. Il lavoro fatto con Benny ed Astrality, seppur abbastanza commerciale, lo trovavo comunque forte ed incisivo in molti aspetti. Peccato che poi in sede di mercato internazionale abbiano pitchato quell’altra versione.
E tu non hai potuto farci nulla?
No. Sul lato internazionale, non ho potuto farci niente. Troppi i flussi e le dinamiche decisionali in gioco ancora fuori dal mio controllo. La versione originale era andata bene in radio, qui in Italia, e doveva essere quella da usare anche per tutto il mercato estero; invece, hanno scelto una versione pop sbiadita di quel pezzo.
Che non ti rappresenta.
Zero proprio.
Dai, almeno ora con Duality hai potuto fare tutto quello che volevi e come lo volevi. È comunque un lavoro impegnativo, foss’anche solo per questa doppia anima che presuppone due tipi di ascolto diversi: stai chiedendo tanto, al pubblico. Risponderà? Ti ascolterà? Ti seguirà?
Ah, non lo so. Non ne ho la più pallida idea. Non mi aspetto nulla, da questo disco. Non mi sento proprio di fare previsioni. Vediamo cosa succederà. All’estero forse c’è più spazio per lavori di questo tipo mentre in Italia, dove siamo dominati da quello che potremmo chiamare urban pop…
Alt, fermo: se siamo dominati dall’urban pop è colpa tua.
Ma no.
Ma sì.
No, dai. Non solo mia. Però ecco: quello che volevo dire è che la mia prossima sfida sarà trasferirmi all’estero.
Addirittura?
Sì. Perché credo di aver dato tutto, in Italia. E non voglio che questa mia identità da produttore si mangi tutto il resto, che Dardust insomma venga visto come uno sfizio che mi prendo nel tempo libero, per sfogarmi un po’, mentre invece il mio lavoro vero sarebbe quello di produrre singoli e dischi per altri. Quest’anno sono successe molte cose: la Notte della Taranta, il brano per le Olimpiadi, i concerti nel deserto. Tutte cose che hanno acceso un po’ una luce su me come Dardust, come artista in primo piano. Ce ne erano già state in passato, però quest’anno veramente sono state una in fila dietro all’altra. Quanto può essere ricettiva l’Italia per un approccio come il mio, da musicista? Non lo so. Ecco perché sto pensando di trasferirmi all’estero.
Europa o Stati Uniti?
Non lo so. Ci sto pensando. C’è chi mi consiglia Londra, chi Berlino, chi New York…
O anche Los Angeles.
Mah, quella credo che sia più urban musicalmente parlando, più circoscritta.
Ma non è vero, dai: c’è anzi l’industria più grande di tutte anche per quanto riguarda la musica, ovvero quella del cinema.
Vero.
Solo che: tu hai voglia di continuare a sopportare di stare ai voleri della grande industria?
Mmm. Perché usi il termine sopportare?
Non credo sia semplice, ecco. Devi stare a regole non tue, sotto vari punti di vista. Può essere faticoso, o frustrante. Quindi sì: sopportare.
Sicuramente sono arrivato alla consapevolezza che certi ritmi, io, non li voglio più sopportare. Non li accetto più. Non è un caso che quest’anno abbia lavorato molto di meno come produttore per altri. Mi sto disintossicando da quell’atteggiamento maniacale in cui voglio esserci, voglio essere presente, voglio controllare tutto, accettando così anche di prendermi la pressione che deriva dal fatto di assumersi la responsabilità di lavorare brani per altri. Già con le cose mie ho ormai troppi file aperti, figuriamoci se devo aggiungere anche quelli per altri, dove comunque ci metto lo stesso tipo di impegno e di attenzione, visto che sono un perfezionista. Vedi: tutto questo mi ha portato a un certo punto a lavorare sette giorni alla settimana, dal mattino presto fino alle 10 di sera, quando poi mi impongo finalmente di staccare. Mai una vacanza, mai.
Eh.
Solo che a un certo punto mi sono detto: ma perché? Ha senso per me tutto questo? Perché lo faccio? Per incassare più soldi? Per diventare ancora più ricco? E se divento più ricco, a cosa mi serve questa maggiore ricchezza? Per cosa la uso, visto che i miei unici momenti di libertà sono due ore sul divano a svenire davanti a Netflix, prima di andare a dormire? A un certo punto ho proprio iniziato a chiedermi se avevo sviluppato una insana dipendenza dal lavoro, o se la mia era una banale voglia di esserci a tutti i costi quasi presenzialista. Cose in cui non voglio cadere. Penso quindi che nel futuro prossimo cambierà drasticamente la mia modalità di lavoro con la musica. Voglio almeno liberarmi da un certo tipo di pressioni e di obblighi: pressioni ed obblighi che non rinnego e non critico, sono anche fattori belli, hanno sempre rappresentato una sfida molto stimolante, e io ho bisogno di sfide. Ma voglio sfilarmi dal meccanismo macchina-hit-classifica-cash.
Davvero?
Anche perché mi pare di aver già dato. No?