Un incessante racconto al pianoforte si distende su tappeti elettronici, alla ricerca di purezza: dopo Duality del 2022, svariati dischi d’oro come autore e la firma su un ennesimo brano (La noia di Angelina Mango, dopo Soldi di Mahmood nel 2019) che trionfa a Sanremo, Dario Faini, in arte Dardust, prosegue il suo percorso verso nuove dimensioni, dove torna per stare lontano dai riflettori.
Composto in Francia, il suo nuovo album Urban Impressionim è ispirato all’architettura brutalista e alla vita ai margini, raccontata qui con delicatezza ambient e un pulsante tocco di pianoforte in bianco e nero. Tra omaggi a Lucio Dalla, Ennio Morricone e influenze internazionali più recenti, come Brian Eno, o più lontane, come Debussy, è l’ennesimo lavoro di un artista che, tra neoclassica, elettronica e il recente esordio nel mondo delle colonne sonore, non smette di cercare nuove contaminazioni.
Il tour partirà a marzo, con le prime tappe italiane a Milano e Roma per poi proseguire in nove città europee, da Barcellona a Londra. Lo abbiamo incontrato per riflettere sulla sua evoluzione artistica, il legame con le periferie e la scelta di uscire dalla gabbia dorata del successo pop, per trovare ancora una volta la sua espressione più autentica.
Questo album arriva dopo Duality che, come da titolo, esplorava una tua certa dualità. Anche in Urban Impressionism c’è una dualità fondamentale, quella tra la componente elettronica e neoclassica, tra ispirazioni brutaliste e impressioniste. In un certo senso, anche se magari non intenzionale, sembra una naturale evoluzione del disco precedente.
Mi piace accostare mondi distanti, come in Storm and Drugs, dove univo l’immaginario della generazione chimica con il concetto di Sturm und Drang. Qui parliamo di impressionismo urbano. Vengo da una periferia e ho sempre avuto la sensazione di vivere ai margini, in un luogo che sembrava abbandonato. Ho colorato quella realtà con l’immaginazione. Pensa a un contesto in bianco e nero dove porto dei colori con il pianoforte, come un pittore impressionista. Questo disco è un ritorno alle origini: pianoforte ed elettronica minimale, un percorso più nudo, come guardare dei palazzi brutalisti. È un lavoro fatto di schizzi, nati dalle improvvisazioni, simili a quelli degli impressionisti, e quindi ispirato da questi due mondi lontani.
Nonostante il pop che frequenti, riesci a sottrarti dal caos.
Pensa alla scena pianistica contemporanea, moderna e minimale, che tradizionalmente si collega a immagini naturali e ambientazioni più tranquille. La musica di Satie per esempio veniva definita musica d’arredamento, pensata per essere rilassante e in sottofondo, evocando paesaggi naturali. Nella nostra epoca però l’ambiente urbano inizia a contaminare queste visioni. Se da una parte c’è il percorso naturalistico che storicamente ha caratterizzato questo tipo di linguaggio, dall’altra c’è il fatto che tanti di noi provengono dalle periferie. Anche la musica urban, come l’hip hop, nasce dalle periferie e poi arriva al centro, rinnovando il linguaggio e portandolo nelle città. Mi piace questa idea di un percorso catartico che parte dagli estremi per confluire al centro, dove la periferia, seppur lontana dal caos della città, diventa un crogiolo di emozioni più pure e autentiche.
Hai citato Satie: il tuo lavoro esplora anche i compositori del passato e presente, da Debussy fino all’ambient di Brian Eno. Ma c’è un aspetto altrettanto importante che ho notato: se in progetti come Duality c’era un asse Reykjavík-Berlino, adesso l’orientamento si sposta su New York, Londra, Parigi. Il comune denominatore è che sono luoghi che si trovano sempre fuori dall’Italia, e penso che questo rispecchi molto la tua visione musicale.
Questo disco ha una forte influenza francese, dove è nato. Non sono andato però nei luoghi classici dell’impressionismo come l’Orangerie o il Musée Marmottan Monet, ma fuori dalla realtà cittadina, dove ci sono architetture brutaliste straordinarie. Poi sì: mi piace uscire dall’Italia perché pur essendo il mio paese d’origine e il cuore di tanto lavoro che faccio come produttore, all’estero mi sento un esploratore. Quando sono Dardust mi metto una maschera, divento un personaggio che cerca di abbattere i confini. Anche quando la musica non segue le convenzioni di un linguaggio pop o canzonettistico, può essere universale e arrivare a tutti. Anche se a volte è di nicchia, può comunque diventare mainstream in casi eccezionali. L’ambizione è quella, anche se è molto difficile. Ma questa è la mia visione.
Se avessi iniziato con un disco come Urban Impressionism, senza tutto quello che hai fatto con il pop, come sarebbe stata la tua carriera?
Non so, probabilmente avrei fatto più fatica a farmi apprezzare in altri contesti. Se fossi partito direttamente con Urban Impressionism sarebbe stato più difficile. Ma il mio percorso con Dardust è stato quasi miracoloso, visto che si tratta di una musica di nicchia, di confine. Avere teatri pieni e gente che compra i biglietti per venire a vedermi non era affatto scontato. Alla fine l’onestà artistica in un modo o nell’altro paga sempre. È un percorso rischioso, ma è quello che voglio fare. Mi sento a casa nella musica che nasce dal pianoforte e dall’elettronica, quella è la mia dimensione. Non potrei mai rinunciare a questo approccio.
E funziona, perché si percepisce questa essenzialità. Come nel bianco e nero della copertina.
Ho voluto eliminare tutti i colori per creare un ambiente più asciutto, in cui la musica fosse al centro, senza distrazioni. Mi affascina l’estetica del bianco e nero, dove è la musica a portare tutti i colori.
A livello di produzione il disco presenta un’importante impronta dell’analogico, con l’uso di strumenti come il Moog One e il Juno 66. Ci sono anche riferimenti culturali italiani, come Lucio Dalla, Ennio Morricone e Ottorino Respighi, come in Italien rêverie che si ispira alle sensazioni di una notte con vista su Piazza Maggiore a Bologna.
I riferimenti sono arrivati quasi come una forma di gratitudine verso la tradizione musicale italiana. L’italianità melodica è unica nel mondo della musica, ed è molto differente dalla classica contemporanea, che spesso evita la melodia esplicita. Noi italiani abbiamo una forte inclinazione a cercare un’identità attraverso la melodia, a esprimerla chiaramente, senza timore di farla emergere. Nel mio caso cerco sempre di imporre un tema melodico che mi viene naturale. Non è un’architettura matematica, ma un processo più istintivo: improvviso finché non emerge un tema melodico che mi colpisce. Quando questo succede sento che il tema è forte, chiaro e identificabile. Non ho timore della melodia, e credo che questo sia un aspetto distintivo del carattere musicale italiano, che trovo affascinante e potente.
Ci saranno esibizioni importanti, come all’Hangar Bicocca a Milano, alla Nuvola a Roma, e un lungo tour in Europa. Ci sarà anche sul palco un’anima distintiva e che muterà dal vivo, per Urban Impressionism?
Sì, rispetto al Duality Tour, che era uno spettacolo molto complesso e scenograficamente ricco, il prossimo sarà più incentrato sulla musica. Voglio uno show più essenziale, senza luci colorate, tutto bianco e nero, in linea con l’estetica dell’album. Sarà un viaggio immersivo, quasi fiabesco, focalizzato quasi esclusivamente sul nuovo disco, che deve essere un’esperienza musicale intensa ed emozionante. Non so ancora i dettagli, ma spero di riuscire a trasmettere la giusta atmosfera.
Nel brano Golden Cage potrebbe esserci un riferimento alla “cage dorée”, la prigione dorata che menzionavi in una recente intervista a proposito del tuo ruolo da conteso produttore pop in Italia. Come ti senti riguardo a questa idea ora che sta partendo un nuovo progetto? Qual è la tua posizione in questi anni, rispetto all’ormai conclamata aura di re Mida del pop italiano?
In Golden Cage c’è un riferimento all’iron cage di Max Weber, la gabbia d’acciaio che rappresenta le aspettative sociali e professionali che possono intrappolare una persona. Essere ingabbiato da queste aspettative crea una grande pressione, e come produttore mi sono spesso trovato intrappolato in questo flusso, condizionato dai risultati. Mi ha portato a un burn out. Negli ultimi due-tre anni ho deciso di fare una pausa e di rallentare. Ho scelto di rientrare solo in progetti dove sentivo di poter dare qualcosa, ma diciamo che sono stati anni di riflessione e pausa. Anche se episodi come Cenere o La noia sono stati significativi, il mio lavoro in quel periodo è stato molto limitato. Non sono mai stato completamente fuori da quel mondo, ma l’impegno è stato ridotto.
Hai citato due brani che sono arrivati primo e secondo a Sanremo.
Non era voluto, sono due brani nati nella totale libertà in un periodo in cui non stavo facendo quel lavoro lì. Quindi l’idea della gabbia dorata mi piaceva, uscire dal palazzo scintillante per andare nelle periferie, nei luoghi più puri, dove ritrovare una certa onestà creativa, intellettuale e artistica. Ma io lo continuo a fare. Ho appena finito una buona parte di produzione per il disco di un grande artista che uscirà a breve, un artista con cui volevo lavorare a un progetto del genere da sempre. È stato un mio sogno.
Che immagino non si possa dire…
Sai che dovrei chiederlo a lui? Dai, glielo chiedo in diretta, di solito risponde subito (prende il telefono per scrivere un messaggio, nda). Ma in verità, l’ha già detto lui a un evento, mi sa. È il nuovo disco di Lorenzo, Jovanotti. Lui ha un atteggiamento da esploratore, io mi trovo molto in linea con lui sulla contaminazione, sul fatto di osare, sull’esplorare. Era un lavoro che volevo fare da sempre, è un artista che ho sempre ammirato e seguito, e abbiamo collaborato su un bel po’ di tracce del suo nuovo disco.
C’è qualcun alto con cui ora, al di là del mondo pop, non hai ancora lavorato e con cui vorresti far musica in futuro? E con qualcuno nel passato, che magari che non c’è più?
Beh, avrei collaborato con Umberto Bindi, per esempio, perché era una persona colta sul lato armonico e musicale dell’arrangiamento. I suoi pezzi erano incredibili e lui prendeva molto dalla musica classica. Della scena attuale, non so, non saprei risponderti, ci devo pensare. Mi piacerebbe collaborare con artisti internazionali, che è quello che farò nei prossimi mesi, sia a Parigi che a Londra, artisti della scena elettronica e anche più indie, per scoprire nuovi mondi. Lo farò sicuramente.
Considerando tutto ciò che abbiamo detto, tra l’aspetto intellettuale e quello emotivo dell’album, possiamo dire che questo è forse il lavoro a cui aspiravi arrivare in questo punto della tua carriera?
Sì, decisamente. È un disco molto essenziale, e sorprende me stesso per il tocco così minimalista rispetto al passato. Di solito come produttore e artista cerco di incorporare un ampio spettro di colori e influenze. Qui invece ho fatto un lavoro al contrario: ho tolto elementi più che aggiungerli. Tutto ciò che c’è ha una precisa ragione d’essere, e forse è vero che la maturità porta a questa capacità di sintesi. È come se spogliandomi di tanti colori avessi raggiunto una forma di espressione più pura, più centrata.