“Quando non c’è altro da bruciare, è il momento di darti fuoco” viene ripetuto in modo quasi ossessivo nell’introduzione della versione di Owen Pallett (quando ancorasi faceva chiamare Final Fantasy) di Your Ex-Lover Is Dead degli Stars. Deve aver preso alla lettera questo invito la nostra Annie Clark, in arte St. Vincent, per il suo nuovo album All Born Screaming (in uscita questo venerdì) nella cui copertina – e nel video del primo singolo Broken Man – la musicista prende fuoco come accesa da una combustione interna. Ma quale significato da St. Vincent a questo fuoco? «È la fenice che rinasce dalle ceneri, l’immolarsi, ma anche la genesi di tutto».
Dopo aver bruciato il peso dell’incarcerazione del padre nell’ultimo album Daddy’s Home («mi sono trasformata in quella cosa che mio padre avrebbe amato», ha raccontato a proposito), St. Vincent continua il suo deciso incedere verso il centro di sé, un luogo «nero e bianco e dei colori del fuoco» come le sfumature con cui ha definito All Born Screaming, lavoro autobiografico nato dalle perdite con cui l’artista ha dovuto confrontarsi in questi ultimi anni: «È stata davvero una questione di vita e di morte, e la morte è spesso chiarificatrice».
Completamente autoprodotto da Annie con una «piccola Wrecking Crew» di amici come Dave Grohl e Josh Freese (Foo Fighters), Cate Le Bon e Stella Mozgawa (Warpaint) che marchiano le 10 tracce con un sound duro, sporco, crudo, decisamente rock, All Born Screaming è un viaggio profondo e intenso in un luogo solitario («in certi luoghi puoi solo avventurarti da sola»), là dove sangue, viscere, terra, nonché vita e morte si incontrano per dialogare nelle oscurità dell’umano. A volte ciò che si trova è un nero impenetrabile (“Ho guardato dentro al nulla / ho guardato nei tuoi occhi” in Big Time Nothing), altre è sentirsi “una miserabile versione karaoke di Hallelujah di Leonard Cohen” (da All Born Screaming), altre ancora – quelle più fortunate – si arriva finalmente a trovare una casa (“Ho dovuto visitare molti pianeti prima di trovare il mio”, da So Many Planets). In mezzo il corpo putrefatto su cui si aggira la mosca di Flea, le bombe dentro di Violent Times, ma anche la poesia delle “ceneri degli amanti di Pompei ritrovati abbracciati per l’eternità” (da Violent Times) o l’omaggio all’episodio della morte della visionaria producer Sophie ricordata in Sweetest Fruit (“La mia Sophie si è arrampicata sul tetto per vedere meglio la luna / mio dio, un passo sbagliato l’ha fatta cadere negli abissi / ma per un minuto che vista magnifica”). Perché, alla fine, anche accanto alla morte, «l’unica cosa che conta è l’amore».
Abbiamo raggiunto l’eclettica musicista appena atterrata da un volo coast-to-coast da L.A. a New York. «Non so che tempo ci sia fuori da questo hotel, il mio aereo ha fatto sette ore di ritardo, sono scombussolata e credo che potrei straparlare», ci avvisa prima di addentrarsi nello svelamento di un disco che – costruito da registrazioni su registrazioni «per togliersi tutti gli strati di ego» – ci consegna la versione più violentemente onesta e cruda di St. Vincent.
Partiamo dal titolo, che è una frase molto intensa ma anche l’immagine perfetta per raccontare quello che possiamo trovare all’interno dell’album. Come sei giunta a questo titolo?
All Born Screaming è il nome della canzone che chiude il disco, una sorta di mantra estatico. Siamo alla fine dell’album e abbiamo attraversato la pesantezza, siamo andati dentro le cose più scure, come la violenza e l’autolesionismo, e ne siamo usciti fin da ritrovarci dall’altro lato dove abbiamo trovato un’accettazione estatica di cos’è la vita, che è tutto questo, tutto in una volta. E abbiamo capito che l’unica cosa per cui vale la pena vivere è l’amore.
E di amore, e quindi di vita, bruci nella copertina dell’album e nel video di Broken Man.
Ho lavorato con il mio amico Alex Da Corte per l’estetica dell’album, sia per la cover che per il video. La genesi di questa idea è arrivata a Madrid quando io e Alex siamo andati al Prado e abbiamo visto le pitture nere di Goya. Quelle opere hanno un’urgenza nel parlare di vita e di morte. Il fuoco invece significa molte cose: è la fenice che rinasce dalle ceneri, l’immolarsi, ma anche la genesi di tutto.
All Born Screaming è un lavoro denso, scuro, che non lascia spazio a quell’ironia che di solito permea i tuoi lavori. Un’atmosfera che hai voluto esplicitare anche da titoli come Hell Is Near, Violent Times, Big Time Nothing. Da dove arriva quest’oscurità?
Negli ultimi anni una serie di vicende mi hanno ricordato che la vita è breve e ho capito che non ho tempo da perdere. Quindi ho voluto guardare in faccia il lutto e la tristezza e tirarci fuori qualcosa. E così che voglio dare senso alla mia vita: prendere il caso e dargli una sorta di ordine in forma di musica. Ogni disco che ho fatto è un riflesso diretto di ciò che stava accadendo nella mia vita, non so come esprimermi in altro modo. La vita è breve, dicevo, quindi proviamo a darle un senso mentre siamo qui.
Immagino che questa intensità sia anche uno dei motivi per cui hai sentito la necessità di produrre completamente da sola questo album. Dopo tante co-produzioni, è la tua prima volta.
Ho sempre co-prodotto ogni mio album e mi registro da quando avevo 14 anni, da quando ero nella mia cameretta. Registrare è il modo in cui ho imparato a scrivere. È così ho imparato ad arrangiare e pensare alla musica. Scrivere e produrre per me sono parte della stessa cosa. Ogni suono ha un significato all’interno di un disco, ogni suono riflette il significato delle parole. Quindi è stato un passaggio naturale, entrare in studio e cercare il percorso sonoro in cui sarei riuscita a dire ciò che volevo esprimere.
Qual è stata la sfida più grande che hai affrontato in studio?
Non c’è nessuno che ti dice «ok, va bene così, andiamo avanti», eccetto te stessa. E così c’è sempre quella sensazione di poter far meglio, cantare una canzone centinaia di volte per arrivare al punto giusto. Ma solo tu puoi sapere quando è il momento. Provo a mettertela diversamente: sei giudice, giuria e boia.
E come se ne esce vivi da questo tribunale?
È necessario crescere come produttori, arrivare alla migliore versione possibile della propria idea. Ma bisogna saper riconoscere il momento in cui bisogna fermarsi. Perché c’è un momento – e arriva sempre – in cui lavorarci ancora un attimo non fa che peggiorare quanto fatto fino a lì. Devi imparare a farti da parte, ed è la cosa più difficile.
Tu sei molto dura con te stessa in quella fase?
A volte (ride).
Mi sembri una persona con un rapporto violentemente viscerale con la musica. Come si è voluta questa simbiosi nel corso della tua carriera?
La musica è così vasta che puoi studiarla per sempre e non arrivare nemmeno vicino al suo mistero. Negli anni la mia visione di far musica è cambiata: ora per me le canzoni sono creature mistiche che si rivelano a te solo se tu vai verso di loro con una certa purezza nel cuore. Bisogna come inchinarsi di fronte a loro e ricevere gli ordini. Lo so, suona un po’ stregonesco, ma è il mio modo di relazionarmici.
Continuando con la tua analogia: come ci si inchina di fronte a queste creature?
Ho cantato alcune canzone centinaia di volte per togliere tutti gli strati di ego, tutti i possibili manierismi, tutto ciò che non era reale, o crudo. A volte ho dovuto cantare cento volte una canzone per incarnarne lo spirito piuttosto che per eseguirla. Magari sto dicendo cose senza senso, ma nella musica devi essere, non devi provare a essere. Devi diventare parte di un intero, tu e la tua musica.
Nel disco, tra i vari featuring, c’è anche quello con Dave Grohl che di te ha detto «ti porta sempre in qualche luogo nuovo, e lo fa con forza e grazia».
Sono innamorato del modo di suonare di Dave, nessuno può emularlo. E sentirlo nei miei brani è qualcosa di incredibile, una scossa nella colonna vertebrale. Inoltre, oltre a Grohl ci sono anche Josh Freese, Cate Le Bon e Stella Mozgawa delle Warpaint. È la piccola Wrecking Crew che ho radunato per il mio album.
Parlando di modo di suonare, credo di aver visto tutti i tuoi tour europei, da quello di Actor del 2009 a quello di Daddy’s Home della scorsa estate. Ma quello che mi è rimasto più impresso è stato il tour di Love This Giant con David Byrne. Ricordo un vostro incredibile concerto a Firenze.
Certo, ricordo quello show benissimo, l’ho amato tantissimo! Abbiamo concluso suonando l’ultimo pezzo tra il pubblico. Era l’ultima data del tour: che bellissima conclusione. Ah, è anche mangiato il miglior pasto della mia vita quella sera.
Concordo, davvero strepitoso. Avendoti vista prima e dopo quel tour credo che quel momento sia stato una rivoluzione nella tua idea di performance: dalla caotica energia degli esordi al minimalismo teatrale che ora ti contraddistingue.
Hai ragione, concordo. Prima di lavorare con David Byrne non avevo ben chiara l’architettura di uno show. Inoltre ciò che mi ha davvero scioccato è stato vedere quanto le mosse di danza che facevamo in quel live mi facessero emozionare. David mi ha fatto capire l’importanza della storia del teatro, della teatralità, del palco. E di come è importante portare energia in tutte le zone del palco.
Ti faccio un’ultima domanda sull’album. C’è un brano – Sweetest Fruit – dedicato alla scomparsa della producer e musicista inglese Sophie. Quest’anno non sarà l’unico brano in sua memoria, ne arriverà anche uno firmato da Charli XCX per il suo nuovo album, che con Sophie ha collaborato. Tu che rapporto avevi? Come nasce questo tuo omaggio?
Ero una fan anche se non ho mai avuto l’occasione di incontrarla. È stata una donna rivoluzionaria. Ho letto com’è morta: in Grecia, sporgendosi da un palazzo per vedere la luna piena. Ogni particolare di questa storia mi ha spezzato il cuore, ma sotto c’era anche qualcosa di poetico in questa persona che si allunga per cercare la bellezza. Ogni tanto si cade quando cerchiamo la bellezza. Sophie ora l’ha raggiunta per sempre.