La “smaterializzazione” in tempi di Zoom ha colpito anche la routine del giornalismo musicale, figuriamoci se non finiva col farlo; e quindi, quella che un tempo sarebbe stata una classica intervista in una hall di un albergo milanese (o londinese, o berlinese, o…) è diventata una seduta davanti allo schermo, in due tranche, in due giornate separate: una con Dave Gahan – vabbè, non ha bisogno di presentazioni – e l’altra con Rich Machin (adesso spieghiamo chi è, per chi non lo sa). A 48 ore circa di distanza.
Ora: da un lato c’è il dispiacere feticista di non potersi sedere fisicamente accanto al cantante-dei-Depeche-Mode, perché accidenti, siamo fra i tanti milioni di persone a cui i Depeche Mode hanno cambiato un po’ la vita con le loro canzoni. Dall’altro il fatto che comunque hai potuto parlare con lui, ma hai potuto pure qualche giorno dopo scambiare chiacchiere con l’altro artefice principe di Imposter, appunto il succitato Machin, co-titolare della ditta Soulsavers (l’altro teorico titolare, Ian Glover, a questo giro è più o meno desaparecido, con Gahan che serafico commenta: «Ah sì, l’ho visto una volta, mi è sembrato un tipo simpatico, sì. Ma io, per il disco, ho interagito solo con Rich»). Separati quindi Dave e Rich, sia fisicamente che per giornata di svolgimento dell’intervista, senza la possibilità insomma di passarsi i pizzini con lo sguardo e di completarsi le risposte a vicenda stando seduti fianco a fianco. Eppure, su molti passaggi, hanno risposto con le stesse identiche parole. Uguali. Uguali uguali. A partire da: «Le canzoni di Imposter si sono scelte veramente da sole».
Si sono scelte? Sì. Perché Imposter è un disco di cover. E il processo di scelta delle cover è durato mesi. Ma non perché sia stato difficile o contrastato, come processo, anche se è interessantemente composito («C’è gente giovane, vabbè, giovane per modo di dire, come Cat Power, PJ Harvey o Mark Lanegan; fino a cose di Elvis, di Bob Dylan, Neil Young», riassume Gahan). No. La ragione della lunghezza è un’altra. «Non avevamo fretta, ecco», racconta Machin. «Ad un certo punto, con lo stop da pandemia, semplicemente non c’era più motivo di affrettare i tempi: dove dovevamo correre? Cosa dovevamo fare? Dove dovevamo andare?».
Gahan entra più nello specifico: «Io e Rich abbiamo iniziato a rimbalzarci delle liste di canzoni verso inizio 2019. Poi, con alcuni membri dei Soulsavers, siamo andato in un piccolo studio di registrazione in Inghilterra e lì abbiamo iniziato a buttare giù le prime idee su come riarrangiare i pezzi. Contemporaneamente, nel mio studio personale, io prendevo le misure alle canzoni in questione: ovvero le ascoltavo ad alto volume, ci cantavo sopra, vedevo come iniziavano a “prendere possesso” di me – e se ci riuscivano. Ecco, questo è il punto importante: le canzoni si sono in qualche modo scelte da sole. C’è stata una selezione naturale, istintiva. Le “sentivo”». Una pausa, e poi prosegue: «Soprattutto, ho sentito che queste canzoni iniziavano a creare una vera e propria storia, messe in fila una dietro l’altra: e questo è stato il principio che alla fine ci ha guidato nelle scelte. Qui sta la chiave: una storia. Creare una storia. Ho sentito molto questa spinta. Ed è grazie a ciò che, da una lista inizialmente infinita, alla fine siamo scesi solo a 20 pezzi e di questi ne abbiamo inciso una quindicina, non di più. Per dire: nel momento in cui avevamo deciso che Dark End of the Street sarebbe stata la traccia d’apertura dell’album, già sapevo che quella di chiusura sarebbe stata Always on My Mind. Avevo già in mente la narrazione, capisci?».
«Il nostro modo di lavorare in studio è stato ben preciso», spiega Machin. «Ogni giorno, una canzone. Solo una. La facevamo magari sei o sette volte, e poi sceglievamo la versione migliore. Come se fosse un concerto, capisci?, solo che era un concerto fatto di un singolo pezzo. Di solito in studio può succedere che tu faccia la canzone più volte, non è che sia una stranezza: però di un take prendi l’inizio, di un take la fine, di un altro take ancora il ritornello, eccetera eccetera. Stavolta, no. Abbiamo deciso di non fare così. Ci siamo tolti questa rete di sicurezza. Per questo ti dico che era come fare un concerto. Scelta per noi inedita: perché in passato sì suonavamo, noi Soulsavers, in studio abbiamo sempre suonato parecchio insieme, certo; ma poi io mi mettevo a fare editing, a scegliere, rifinire, ricomporre… Stavolta, invece, nulla di tutto ciò. Stavolta è stato diverso».
Ecco. Di questo metodo alternativo, Gahan è semplicemente entusiasta: «Sai, per me è strano arrivare in uno studio, vedere altri nove musicisti che infilano il jack nell’ampli e – bam! Si inizia a suonare, andando avanti senza soste. Coi Depeche non va così…». No, eh? «Coi Depeche non è che non si suoni, sia chiaro. Martin alla chitarra da una parte, io al piano dall’altra, abbozziamo delle idee, si inizia poi ad aggiungere delle drum machine, eccetera eccetera. Ma passata quella prima parte in cui si suona davvero e c’è in qualche modo una interazione diretta, c’è poi tutta una fase in cui la canzone si ricostruisce a pezzi separati, senza suonare mai tutti insieme-insieme. Può essere affascinante; ma può essere anche… beh, noioso. Sì, molto noioso». Pausa. Per poi riprendere: «Anche perché ogni tanto ci vuole parecchio tempo per arrivare al risultato finale più efficace». Altra pausa. «Il mio vero contributo ai Depeche Mode, lì dove faccio la differenza, penso sia quel tocco di spontaneità, di attitudine live, del fare le cose qui & ora. È soprattutto questo, è la mia qualità. Capisci allora quanto sia stato meraviglioso, lavorando su Imposter coi Soulsavers, poter incidere come se si stesse tutto il tempo facendo un concerto, in presa diretta, con i musicisti a suonare tutti assieme: un sogno. Coi Depeche è diverso. Anche se pure lì, ti dirò, al momento di interpretare la canzone e finalizzarla devo dire che o la canzone in questione la sento mia – e ci vogliono non più di due o tre take della parte vocale per capire se ci sono riuscito, se ci sono entrato – oppure semplicemente smetto, passo ad altro. Se non va, non va: ed è una questione di pelle, di istinto. Amo l’approccio più performativo, ecco. Trovo che sia probabilmente quello più onesto. Perché sì: bello prendere tanti frammenti diversi, scegliere i migliori o i più particolari, e iniziare ad assemblarli, ok; ma ogni tanto però succede che…». La frase qui pare interrompersi, ma non vogliamo che accada. Ogni tanto succede cosa, Dave? «Ogni tanto questo modo di procedere ti porta lontano dall’emozione più autentica».
Un’altra pausa, e Dave riprende, ricollegandosi a un discorso precedente fatto su New York, sul punk e il post punk: «Vedi, lo spirito punk è ancora un punto di riferimento fondamentale per me. Mi ha insegnato che: non ci sono regole. Ed anche che: bisogna prendersi dei rischi, bisogna avere il coraggio di buttarsi. È questo spirito che mi permette di fare dischi come Imposter, di collaborare coi Soulsavers. È proprio questo. Lavorare con loro, abbracciando il loro metodo di lavoro e le loro intuizioni, è un modo per me di uscire dalla comfort zone; e la mia comfort zone, beh, sono i Depeche Mode». Ah. «I Depeche sono un po’ il mio lavoro principale: quello diciamo quotidiano, diurno. I Soulsavers sono invece la fuga romantica, quella fuga che mi fa assaporare tanto l’emozione della forma-canzone. E io, beh, io vivo di canzoni… Anche coi Depeche, sia chiaro. Anche con loro. Quando sono sul palco, quando sto cantando, anzi, quando mi impossesso di quello che sto cantando, io sento finalmente di avere uno scopo nella vita: ed è un’emozione intensa. Davvero, davvero intensa. Sì. La musica, attraverso le canzoni, mi ha aiutato ad avere uno scopo nella vita. Mi ha aiutato a non perdermi».
Ecco. Non volevamo cadere nel solito cliché del far parlare Gahan della sua passata vita maledetta, ma l’occasione è lì, non riesci a fartela sfuggire: oggi, Dave, ti perdi ancora? Ti succede ancora? La faccia di Gahan assume un subliminale ghigno sarcastico, ad increspare la compostissima gentilezza con cui sta affrontando l’intervista tutta: «Perdermi ancora oggi? Oh: assolutamente sì. Almeno un paio di volte a settimana, direi. Sai, vivendo a New York la metropolitana è un casino, dopo venticinque anni che sto qua non ho ancora capito bene come funziona», sorriso mefistofelico. Ok. Messaggio ricevuto.
Il discorso scivola allora tranquillamente – e meno pericolosamente – su cosa significhi, oggi, vivere a New York. Proviamo a sottoporgli una sensazione: visto il piglio fondamentalmente British dei Depeche storici e il rock molto desertico e rarefatto (con Imposter registrato tra l’altro negli Shangri-La Studios californiani di Rick Rubin) dei Soulsavers, non sembra che la Grande Mela lo influenzi insomma più di tanto dal punto di vista musicale. «No, no, no! Sbagliato. Mi influenza eccome, New York. Mi nutre. E lo fa proprio perché è una città piena di musica: rock, jazz, soul, hip hop, mille altre cose ancora. È storicamente un melting pot di suoni questa città e, passato il periodo tremendo del lockdown, ora per fortuna sta riprendendo pienamente ad esserlo: io di tutto questo ho bisogno. Davvero. Non potrei farne a meno. C’è quindi molta New York nella mia musica, nell’ispirazione che mi permette di andare avanti. Vivere qui è stato ed è importantissimo».
Già: l’ispirazione, l’andare avanti. Ogni volta che parla di musica e di canzoni, Gahan diventa tremendamente serio, accorato. Quasi sentimentale. Machin invece è molto più scanzonato: «La cosa divertente è che in questo periodo sto ascoltando parecchia musica elettronica di nicchia, passo le giornate su Bandcamp ad ascoltare roba oscura, sai? Eppure, nella musica dei Soulsavers questa cosa proprio non c’è e, insomma, te lo dico, non credo la troverai a breve…», ride. «Anzi, credo non la troverai mai: ormai sono troppo vecchio per cambiare modo di lavorare!», e qui la risata diventa aperta, divertita. «Al di là di questo, trovo che sia bello fare una musica che non sia uguale a quella che hai appena finito di ascoltare per i fatti tuoi. È bello che queste sfere restino scisse».
Gahan, al contrario, non molla un colpo, nel suo essere serio e composto: «Tutte le canzoni di Imposter, nessuna esclusa, sono state importanti nella mia vita; tutto il processo in cui io e Rich abbiamo buttato giù quali potevano essere le cover da fare è stato un’emozione fortissima, perché mi sono reso conto di quanto ogni singola canzone fosse legata a uno o più momenti per me importanti. Vale anche per quelle che alla fine abbiamo scartato: non è stato un giudizio di valore lo scegliere questa o quest’altra canzone quanto il fatto che, come ti dicevo, volevo e volevamo che Imposter raccontasse una storia, fosse cioè un disco coeso, con un cantante, una band, un filo conduttore, anche se le tracce di loro sono tutte di autori diversi. Ma davvero: ho capito una volta di più, lavorando a questo disco, quanto la musica mi abbia aiutato a sopravvivere». E tu Dave con la tua musica hai aiutato a tua volta altri a sopravvivere, te l’assicuro… «Molto gentile da parte tua dire questo», ghigna. Qui il confine tra sincera umiltà e ironica affettazione è davvero impossibile da cogliere. Ammesso e non concesso ci sia.
Resta il tempo per un’ultima, sottile provocazione: ma quindi, Dave, se oggi i Depeche Mode sono il tuo lavoro diurno, quello “normale”e principale, esiste la possibilità che prima o poi i ruoli si rovescino e siano i Soulsavers a diventare invece il lavoro principale? La risposta arriva subito, ed è secca: «Ah, non credo». Poi, meditandoci un attimo, approfondisce il concetto: «Coi Soulsavers siamo arrivati al terzo disco ora, non è poco, ma se mi chiedi se ce ne sarà un altro – non lo so. Non te lo posso minimamente garantire. Ma in fondo anche coi Depeche è così: non parliamo mai dei piani futuri io e Martin, quando abbiamo appena finito di lavorare a un disco. Le cose, se devono succedere, succedono. Ci sarà un altro disco dei Soulsavers? Chissà. Ce ne sarà un altro dei Depeche Mode? Come dico sempre: non lo so, vedremo. Se inizia ad esserci qualcosa di interessante su cui lavorare, la scintilla scoccherà. Altrimenti pazienza. Di sicuro, amo fare musica. Quello sì. È qualcosa di bellissimo». Il discorso pare interrompersi, quasi a riassaporare per l’ennesima volta quanto la musica sia importante per lui, per poi riprendere: «Fare piani però è inutile: succederà quello che deve succedere, e di solito non è mai quello che ti aspetti… o nelle modalità in cui te l’aspetti».
Con Rich l’atmosfera parlando di piani futuri è, di nuovo, molto ma molto più scanzonata: «Ah guarda, non so nulla», ed esplode in una fragorosa risata. «E non è che sto fingendo, eh: non ho proprio idea! Sì, ci sarà il concerto-evento di Londra; poi dovrebbero essercene un altro paio, ok. Ma dopo questo, boh. E ti dirò, meglio così. Forse è meglio non avere piani per andare in giro: perché il 2022 sarà un caos». Interessante. Cosa intendi? «Hai idea di quante band che sono state ferme quasi due anni vorranno adesso tornare in giro? Guarda, anche solo trovare delle venue libere sarà una cosa maledettamente complicata. Ma poi, fammelo dire, fammi dire un’altra cosa importante: dopo la pandemia credo che ci sia un sacco di gente normale che si è trovata impoverita, no? E allora: fino a che punto è giusto chiedere alle persone di continuare a comprare biglietti per concerti, mettendo insieme tour su tour? Credimi, il 2022 sarà un casino: forse meglio starne alla larga».
Viene quasi il sospetto che suonare dal vivo e fare i tour non ti faccia impazzire… «A me piace fare i concerti, figurati se non mi godrei per dire un piccolo tour europeo, per presentare Imposter. Ma, se proprio devo essere sincero, il posto in cui sono più felice è lo studio di registrazione. È lì, sì. Capisco perfettamente che per molte persone, musicisti e non solo loro, sia fondamentale che l’industria dei tour e dei concerti dal vivo riprenda a pieno regime: anche io ho bisogno di guadagnare per arrivare a fine mese, non è che posso permettermi di stare con le mani in mano. Ma io magari lo posso fare anche semplicemente da produttore, lavorando a dischi d’altri: capisci? Io insomma una soluzione alternativa ce l’ho», considera soddisfatto, «e non vedo perché non dovrei approfittarne, se ne ho la possibilità. Che dire: vedremo».