David Byrne vuole migliorarti la vita | Rolling Stone Italia
Interviste Musica

David Byrne vuole migliorarti la vita

Il nuovo disco dell'ex Talking Heads è pieno di sogni e buone notizie, per dimenticare l'incubo Trump.

David Byrne vuole migliorarti la vita

David Byrne

Foto di Jody Rogac

La correlazione tra apertura di biblioteche e diminuzione dei tassi di obesità, violenza domestica e crimini in diverse metropoli del Sud America; Western Harbour, il primo quartiere interamente alimentato da fonti di energia rinnovabile, nato a Malmö; l’apertura da parte del sindaco di Vancouver, nel difficile quartiere di Gastown, di spazi in cui i tossicomani possono iniettarsi eroina con aghi puliti sotto la vigilanza di personale medico pronto a intervenire in caso di problemi, che ha ridotto i casi di overdose in città del 35%.

Queste sono alcune delle notizie che restituiscono il sorriso a David Byrne: l’ex Talking Heads in Reasons to be Cheerful – un sito internet e una serie d’incontri pubblici in giro per il mondo – punta il dito verso casi di eccellenza nei settori dell’economia, della ricerca scientifica, dell’istruzione, della medicina, dell’attivismo politico. Metaforiche lame di sole che scansano le nubi di Trump, della Brexit e dei populismi galoppanti in Europa, per rischiarare lo sguardo, mostrare sentieri nuovi.

Nel frattempo, ha lavorato ad American Utopia: primo disco solista da 14 anni (non contando le collaborazioni con Fatboy Slim, Brian Eno e St. Vincent) che presenterà in un tour mondiale che toccherà, in Italia, Perugia, Trieste e Ravenna. Un album dal songwriting molto classico, speziato dalle numerose partecipazioni: Sampha, Daniel Lopatin (Oneohtrix Point Never), Jam City, Rodaidh McDonald (produttore e collaboratore di The xx, Adele, Vampire Weekend e King Krule, tra gli altri) oltre che il vecchio sodale Brian Eno che, come leggerete, sarebbe dovuto esserne co-firmatario. Incontro David Byrne alla Fondazione Prada di Milano, dove sta per tenersi la tappa italiana di un giro europeo di conferenze. Mi trovo davanti a un uomo risolto, di un garbo raro, che ride spesso. Prima di ogni risposta, solleva gli occhi nel vuoto, raccoglie i pensieri per qualche secondo e li esprime in bella copia.

Partiamo dal progetto Reasons to Be Cheerful (“ragioni per essere gioiosi”). Che nome curioso: la musica ha espresso dissenso contro lo stato delle cose, denunciandole con strafottenza o aggressività, ma è da un po’ che non si sente parlare di “gioiosità” come arma.
Il progetto è iniziato nello stesso periodo in cui stavo scrivendo le canzoni di American Utopia. Entrambe sono nate, però, come idee ben distinte, non immaginavo sarebbero diventate materiale da portare in giro per conferenze. Un paio di anni fa, ho preso a collezionare storie di cronaca che infondevano ottimismo come forma di autoterapia. I titoli dei giornali mi deprimevano: erano colmi di violenza e tutto l’assortimento di emozioni che citi. Per restare sano di mente sentivo il bisogno di conservare un filo di speranza in un futuro più equo. Nonostante i pessimi presagi, mi sono trovato tra le mani una marea di storie e, invitato a partecipare a un incontro pubblico, mi sono chiesto se non fosse stata l’occasione per condividere quel materiale terapeutico che, per me, aveva funzionato egregiamente. Mancava solo il nome al progetto, finché mi sono ricordato della canzone del grande Ian Dury, Reasons to Be Cheerful (Part 3). La scrisse in un periodo politicamente duro, simile a quello che stiamo vivendo: l’era della Thatcher. Mi resi conto, a posteriori, che c’erano tratti in comune tra tutte le storie che avevano catturato la mia attenzione: nascono a livello locale – una cittadina, piccole nazioni – per espandersi, in seguito, in aree più estese. Una seconda caratteristica è di non essere progettate dagli Stati: fioriscono spontaneamente per iniziativa dei cittadini. Inoltre sono adattabili a varie culture: vanno bene per la Danimarca come per l’Italia, al di là delle differenze locali. Infine non poggiano sulla benevolenza di un individuo: un milionario che dona un’ingente somma a un ospedale non è un avvenimento replicabile. È lodevole, ma non un modello su cui fare affidamento.

È interessante quello che dici su attività nate in piccolo. Ho sempre più spesso l’impressione che una certa parte dell’arte definita politica corra il rischio di coltivare una forma di “buon gusto”, più che un atteggiamento critico o com- portamenti utili. Forse più che di proclami, c’è bisogno di capire cosa si può fare nella nostra sfera d’azione. Quali sono le caratteristiche che rendono virali le iniziative di cui parli?
Le idee nuove causano sempre resistenze e, spesso, la prima leva per farle accettare è finanziaria: una pratica sostenibile, che produce risparmi o profitti ha sicuramente più possibilità di essere compresa e attecchire. Altre volte se ne possono misurare i risultati in termini di equità sociale. La questione, in questo caso, è più problematica, perché ancora in troppi ritengono che le asimmetrie economiche rispecchino le qualità degli individui piuttosto che contesti sociali e culturali, livelli d’istruzione o il benessere delle famiglie d’appartenenza. È piuttosto triste: l’ineguaglianza è negativa per la società nel suo complesso. Non solo per chi ha redditi bassi, ma per tutti. Non sono un esperto – un economista o un sociologo – e la mia speranza è che queste storie semplici filtrino, in qualche modo, in chi viene ad ascoltarmi. Che alla fine delle conferenze la gente non vada via pensando: “Ok, è andata. Ho fatto la mia azione politica quotidiana” (Ride).

Com’è nato American Utopia?
Anche questa doveva essere una collaborazione: Brian Eno mi aveva passato parti di batteria che mi erano piaciute molto. Volevamo fare un altro disco fifty-fifty, ma mi sono lasciato trasportare e ho iniziato a scrivere sul materiale di Brian, a suonarci su, ho invitato anche altri musicisti e quando il progetto ha preso forma, Brian mi ha detto: “Ok, ok, questo disco è tuo” (Ride). È stato molto generoso. Non ricordo un momento in cui mi sono detto “Devo sedermi a tavolino e scrivere nuovi brani”; mi sono solo lasciato guidare dalle sezioni
ritmiche di Brian. Avevo alcuni testi conservati da qualche parte, non sapevo cosa farne e li ho utilizzati per il disco. Pensa che ne diedi uno a St. Vincent, anni fa: “Non so come lavori, magari ti può piacere qualcuno di questi testi”, e come risposta ricevetti… il nulla, silenzio. “Forse non compone partendo da testi di altri”, pensai. (Ride)

Chiaramente, si sente che è un “disco di David Byrne”, ma devo confessarti che è molto diverso – timbricamente e negli arrangiamenti – da cose che hai fatto nel passato e inizialmente mi ha un po’ spaesato…
Sai, ci ho lavorato insieme a molti altri collaboratori. Un anno fa, quando davo l’album per finito, l’ho fatto sentire ad amici che gestiscono l’etichetta Young Turks. Mi hanno detto che, a loro avviso, avrei potuto rischiare di più, portarlo avanti coinvolgendo altre teste, più musicisti. Mi hanno segnalato un po’ di artisti. Mi sono detto: “Certo, proviamo. Se non dovesse andar bene, posso sempre fare un passo indietro, non c’è nessuno che mi corre dietro”. Credo che un processo così lungo, con così tanti attori coinvolti, mi abbia permesso di pensare – con grande rilassatezza, ma in modo molto chiaro – allo spazio che volevo per i singoli suoni e per gli arrangiamenti.

Parliamo un po’ del titolo? È rivolto al futuro, alla possibilità di un nuovo sogno americano, oppure parli, al passato, del fallimento di un progetto utopico?
È, in parte, una provocazione. In molti mi hanno detto: non puoi fare sul serio, stai scherzando, vero? No, non è una battuta. È un’urgenza, un desiderio. La consapevolezza emergente di poter ambire a qualcosa di diverso e migliore. Personalmente non credo alle utopie o a sistemi sociali perfetti. Ma dobbiamo trovare il modo di migliorare le nostre vite e la nostra società. Non scrivo ancora canzoni sulle energie sostenibili (Ride), non ho ancora trovato il modo di farlo in maniera decente. Però il disco si pone diverse domande: chi siamo? Cosa significa essere umani? Molti negli Stati Uniti e nel resto del mondo sono attoniti, si stanno chiedendo: “Cosa diamine sta succedendo?”, e io non sono da meno.

Cosa ti sei risposto?
A prima vista sembra tutto terribile e disgustoso. Davvero terrificante. Quando ti chiedi qual è la causa scatenante di tutto, ti rendi conto che molti sono caduti nella trappola del cinismo e dell’egoismo per paura della situazione economica e dei cambiamenti culturali che stiamo attraversando. Le cause sono profonde, Trump non è il problema, è solo un sintomo.

Tornando alla musica: la frequenti da qualche decennio, ormai. Come sono cambiate le cose dai Talking Heads? La musica aveva un peso diverso sulla società, era più influente?
Credo che un artista di una generazione successiva alla mia possa rispondere meglio a questa domanda. Basandomi sulle impressioni che raccolgo dalle persone che incontro, però, mi sembra che la musica e le opinioni dei musicisti abbiano ancora un grande rilievo simbolico e di aggregazione. Quello che noto è che le carriere corrono molto più velocemente, adesso, e questo può essere pericoloso. Con i Talking Heads suonavamo di fronte a venti persone nei primi concerti ed è andata avanti così per circa un anno, finché il pubblico non è aumentato lentamente. I fan, poi, sono rimasti molto fedeli alla band, ma il seguito è cresciuto piano piano. Questo ci ha consentito di sperimentare, di fare errori. Provavamo le canzoni dal vivo per capire se piacevano. Magari c’era qualcosa da cambiare nell’arrangiamento o nel finale, lo facevamo e la mettevamo di nuovo alla prova. Se facessi la stessa cosa adesso, saresti su Internet dopo due minuti.

È come diventare adulti pubblicamente…
Esatto! Ed è molto difficile, le persone hanno bisogno di staccare da tutto, ogni tanto. Bisogna darsi il tempo di concentrarsi, di studiare, di evolvere, di fallire. Perché bisogna anche sbagliare per fare cose grandi.


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