Gli occhi vispi, i baffi, i lunghi capelli bianchi, in testa un vecchio berretto da baseball, sul viso un sorriso che ispira simpatia. In questi giorni David Crosby è in Italia, è venuto appositamente nel nostro Paese per ritirare il Premio Tenco; ieri, quindi, è stato a Sanremo, mentre oggi lo aspetta un’esibizione da Fabio Fazio, dopodiché dovrebbe salire sul palco per due concerti già sold out, il 9 e il 10 dicembre a Lucca e a Como.
Dovrebbe, al condizionale, perché si sta curando da una bronchite: «Sono sotto antibiotici, decideremo se confermare tutto lunedì, ma sto meglio, dovrei farcela», dice. Staremo a vedere. Intanto abbiamo incontrato il cantautore americano in un hotel a Milano, ecco com’è andata.
Tanta buona musica, droga, un trapianto di fegato, e poi di nuovo la musica. È un sopravvissuto o è stata tutta fortuna?
Entrambe le cose. Con la droga ho fatto tutto da solo, mi ci sono ficcato dentro e ne sono uscito da solo, e quest’ultima cosa è per me motivo d’orgoglio. Essere qui adesso dopo i problemi di salute che ho avuto, invece, non è un merito, è stato un regalo.
Crede che gli eccessi di un tempo fossero necessari per arrivare alla saggezza che mostra oggi?
No, gli eccessi portano solo a ulteriori eccessi, la saggezza si acquisisce con l’età, lavorando duro.
Crosby, Stills e Nash suonano “Almost Cut My Hair” al Madison Square Garden di New York nel 2009:
La sua musica ha lasciato un segno, più generazioni sono state influenzate dalle sue canzoni, anche tanti ragazzi le conoscono, magari perché i loro genitori hanno i suoi vinili in casa. Come vive questa sua longevità?
È meraviglioso sapere che ci sono ancora tanti giovani che ascoltano le mie canzoni, è la dimostrazione che se fai della buona musica, quella musica avrà lunga vita. Del resto basta pensare ai compositori di musica classica, Bach se ne è andato, Beethoven e Chopin pure, ma la loro musica emoziona ancora tante persone, come quella di molti grandi, da Bob Dylan a Joni Mitchell, e questa è una cosa fantastica.
All’inizio di quest’anno ha pubblicato “Croz”, il suo primo disco solista in 21 anni, prima c’era stato “Thousand Roads”. Lo ha realizzato con suo figlio James Raymond, con cui si è ricongiunto molti anni dopo l’adozione. Com’è oggi il vostro rapporto? Ha dei rimpianti?
Nessun rimpianto, abbiamo un ottimo rapporto. James è un ragazzo fantastico e un musicista più bravo di me, mi ispira perché ha studiato musica a scuola. Io sono un autodidatta, un songwriter, lui è un compositore in grado di scrivere per le orchestre, per il cinema, per la televisione. È anche mio amico e lavoriamo bene assieme, di fatto Croz è più suo che mio.
Ha inciso dischi da solista e con le formazioni più diverse, in trio come Crosby, Stills & Nash, poi come Crosby, Stills, Nash & Young, e ancora in duo… Quale di queste esperienze si addice di più alla sua personalità?
Tutte. Perché è importante non fare sempre la stessa cosa. Ed è salutare, è un buon modo per continuare a crescere e vorrei proseguire su questa strada in futuro: suonerò con gli Snarky Puppy, li ho scoperti di recente, sono una big band, fanno funky-jazz e sono incredibili. Ascoltateli e se non vi fanno impazzire giuro che vi do 100 dollari!
È importante non fare sempre la stessa cosa. Ed è salutare.
Come mai, però, ha deciso di pubblicare un disco solista puntando, tra l’altro, su un titolo così personale come “Croz”?
Croz è il mio soprannome, gli amici mi chiamano così. Quanto alla scelta del disco solista, stavo scrivendo dei pezzi con mio figlio James ed eccoci qua. Entrambi amiamo il jazz e le strutture dilatate, ci piace fondere la scrittura classica con soluzioni non convenzionali.
“Thousand Roads” è del 1993, avrebbe mai immaginato di incidere un nuovo disco solista che sarebbe stato scaricato da Internet?
Questa sì che è una storia interessante! Le case discografiche non hanno compreso il significato della parola “digitale”, si immaginavano nuovi tipi di supporti, non si sono rese conto che quello digitale sarebbe stato un mondo radicalmente diverso, perché se pubblichi una canzone in formato digitale, quella canzone può essere copiata e riprodotta centinaia di migliaia di volte. Non hanno capito che cosa stava succedendo e questo ha ucciso l’industria discografica. E noi musicisti? Non ci resta che fare concerti, il che va bene, adoro suonare dal vivo, è una delle cose più belle al mondo, ma quanto ai dischi, ormai li faccio perché amo farli, non mi aspetto più di guadagnarci qualcosa, nessuno se lo aspetta. Perché di fatto non guadagniamo più nulla: puoi sentire un mio pezzo su Spotify un milione di volte e io grazie ai tuoi ascolti potrò al massimo permettermi una cena.
Ora è in tour con dei concerti acustici, voce e chitarra: come si sente sul palco da solo?
Per me è un cerchio che si chiude, perché è così che ho iniziato, e mi piace ancora tantissimo. Amo cantare per il pubblico, portarlo in viaggio con me nelle storie che racconto con le mie canzoni. Amo creare un contatto e suonare e cantare da solo su un palco è il modo migliore per riuscirci. La mia opinione è che se sei un songwriter e non hai una canzone che faccia provare qualcosa a chi la ascolta nella versione voce e chitarra, beh, allora non hai una canzone.
Negli anni ’70 la musica era strettamente connessa alla politica. Che ricordi ha di quell’epoca?
Noi non eravamo consapevoli di questo legame tra musica e politica, non era qualcosa che avevamo deciso seduti a un tavolo. Ma certo, indubbiamente la politica c’entrava: io amavo la scena di San Francisco perché non aveva nulla a che fare con Hollywood, con il cosiddetto show business. Ciò detto noi, i Grateful Dead, i Jefferson Airplane, eravamo tutti amici, ci veniva naturale suonare assieme.
Se non hai una canzone che faccia provare qualcosa a chi la ascolta nella versione voce e chitarra, beh, allora non hai una canzone.
E il leggendario concerto con Stills, Nash & Young allo stadio di Wembley? Era il 14 settembre 1974 e suonaste davanti a centomila persone.
Ah, eravamo forti, ma la location era così grande, troppo grande. Non voglio parlare male dei grandi concerti, fu magnifico, ma preferisco i posti piccoli, più intimi.
Il suo impegno sociale è noto e torna in quest’ultimo disco nei versi di “Time I Have”, in cui canta contro la guerra e dove non manca un riferimento a Martin Luther King.
È vero, in un certo senso ho voluto rendere omaggio a questo grande uomo, ma quel brano in particolare parla più del fatto che non voglio più arrabbiarmi. Ho un temperamento terribile e ho già sprecato troppo tempo ad arrabbiarmi e a intristirmi, non voglio più che accada. Sono un essere umano e ogni tanto capita, ovviamente, che perda la pazienza, per esempio sono indignato per quanto accaduto a Ferguson, l’omicidio di un giovane per mano di un poliziotto che non ha nemmeno pagato per il reato commesso è un fatto che non può lasciare indifferenti, ma più invecchio più riesco a mantenere un equilibrio, nonostante tutto.
Cosa pensa della recente ondata di razzismo negli Stati Uniti?
Purtroppo negli Stati Uniti c’è ancora tanta gente razzista ed è sicuramente una cosa da combattere. Quando iniziammo a lavorare per il Movimento per i Diritti Civili i neri del Sud non potevano nemmeno votare e con le nostre battaglie riuscimmo a cambiare le cose. Ma il razzismo è vivo e vegeto e credo influenzi anche il giudizio su Obama: la maggior parte delle critiche al Presidente non ha niente a che vedere con le politiche che sta attuando, la verità è che tanti non vogliono un Presidente di colore.
Nelle scorse settimane si è parlato molto della controversia tra lei e Neil Young, ve le siete mandate a dire a mezzo stampa: si è trattato solo di uno scambio di idee tra amici?
No, ma avrei dovuto tenere la bocca chiusa. Amo Neil, lo rispetto e ho sbagliato a parlare.
Crede che suonerete di nuovo assieme?
Lui non ne ha alcuna intenzione, quindi non succederà, è una cosa che so da tempo.
Amo Neil Young, ho sbagliato
a parlare, dovevo tenere la bocca chiusa.
Le piacerebbe, invece, produrre qualcuno?
Produrre l’album di qualcun altro ti porta via più tempo che realizzarne uno tuo e a me resta un lasso di tempo limitato da trascorrere sulla Terra, per cui… Lo farei, sì, ma solo se ne valesse veramente la pena. Al momento potrei farlo con Marcus Eaton, brillante chitarrista e cantautore di grande talento, ho cantato nel suo disco e chissà, potrei aiutarlo di più in futuro.
Come vede il suo futuro? Smetterà di fare musica un giorno?
No. Perché non posso fare a meno della musica, è la sola cosa che conosco, l’unica in cui sono bravo. O meglio, faccio immersioni, ma ora sono un po’ vecchio per questo; so guidare le barche, ma non posso vivere di questo. E comunque amo la musica, non posso rinunciarci. Senza contare che non guadagno nulla, devo continuare a lavorare. Del resto non sono uno che si guarda indietro, anzi, tendo a concentrarmi sul presente, penso a cosa posso fare e a cosa sono e sarò in grado di fare oggi, domani, la settimana prossima, il mese prossimo. Anche parlando del mio repertorio, le mie canzoni preferite sono quelle nuove. Due giorni fa avevo scritto dei versi e non avevo ancora la musica in testa, poi, a un tratto, mi è venuta in mente, così, all’istante, pouf! Mi sono alzato e ho afferrato il computer: non volevo perdere il momento.