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David Gilmour: «Questo potrebbe essere il mio ultimo tour»

Parla il chitarrista: i temi dell’album ‘Luck and Strange’, i vecchi Pink Floyd che oggi, a 78 anni d’età, gli sembrano irrilevanti, i concerti durante i quali suonerà qualcosa del repertorio anni ’70 (sì, ha cambiato idea), il conflitto con Roger Waters, la voglia di mettersi tutto alle spalle

Foto: Anton Corbijn

Gennaio 2007, pochi mesi dopo la fine del tour di On an Island, David Gilmour convoca i suoi musicisti, tra cui Richard Wright dei Pink Floyd, nel fienile della sua proprietà nel Regno Unito. L’idea è mettere giù qualche spunto per nuove canzoni. «Non ci avevo riflettuto bene, là dentro si gelava», ricorda Gilmour. «Abbiamo comunque passato un quarto d’ora su questo riff che avevo scritto alla chitarra a cui si sono uniti tutti, uno alla volta».

Negli ultimi 17 anni Gilmour non ha dato grande peso a quell’abbozzo di canzone, anche se è una delle ultime occasioni in cui ha suonato con Wright, morto di cancro ai polmoni nel settembre 2008. Quel nastro gli è tornato in mente un paio d’anni fa quand’ha iniziato a mettere assieme nuove canzoni. Con Polly Samson, moglie e autrice da tempo dei suoi testi, e col produttore Charlie Andrew ha trasformato quel pezzo nella title track del nuovo album Luck and Strange, che uscirà il 6 settembre.

«Avevo dimenticato quanto fosse profonda. Dentro ci senti lo stile di Richard. Era un tipo vero, adorabile, creativo. Persone così non nascono tutti i giorni».

La morte di Wright e il conflitto che lo separa da Roger Waters fanno sì che i Pink Floyd rimarranno un ricordo d’un passato sempre più remoto. Ma a differenza di Nick Mason, che va in giro coi Saucerful of Secrets suonando solo pezzi del gruppo pre-Dark Side of the Moon, Gilmour guarda al futuro.

Ce ne ha parlato in collegamento Zoom dal suo studio nella campagna inglese, circondato da tastiere e chitarre vintage dal valore inestimabile. Abbiamo discusso di tutto, dalla creazione di Luck and Strange alla session con la figlia Romany, dall’imminente tour in cui suonerà a malincuore anche pezzi dei Pink Floyd anni ’70 all’eterno conflitto con Waters, dalla possibilità di vendere il catalogo della band al motivo per cui non gli è mai passato per la testa che si possa fare un biopic sui Pink Floyd.

Negli ultimi anni non sei stato particolarmente attivo. Hai mai pensato di ritirarti, magari alla fine del tour del 2016?
Non mi è mai passato per la testa. È che ci vuole un po’ di tempo per rimettersi in forze. Non sono uno di quei musicisti che desidera stare sempre in tour. Ho una famiglia meravigliosa. Ho una bella proprietà. Ma sapevo che prima o poi sarei tornato a fare qualcosa, non sapevo cosa, né quando. A quel punto è arrivato il lockdown e in un certo senso mi ha aiutato a concentrarmi, perché eravamo come in gabbia.

Ti riferisci ai webcast per promuovere il romanzo di Polly A Theatre for Dreamers. È stato anche un bel modo per i fan di conoscere meglio la tua famiglia e di sentirvi cantare tutti assieme.
Ci ha aiutato a concentrarci, è ripartito tutto da lì. Eravamo come intrappolati, per questo l’abbiamo chiamata Von Trapped Experience, un gioco di parole col nome della famiglia di Tutti assieme appassionatamente. Ci ha fatto capire quant’è divertente far musica tutti insieme. Abbiamo iniziato suonando cover di Leonard Cohen ed era bello il modo in cui si fondevano la mia voce e quella di mia figlia Romany.

Foto: Gavin Elder

È stato quindi alla fine del lockdown che hai iniziato a pensare al disco nuovo?
In realtà ci siamo rinchiusi noi quasi completamente per due anni. L’idea di uscire e prenderci il Covid ci innervosiva. Non siamo riusciti a non prenderlo, ovviamente, ma le discussioni su questa spada di Damocle che pendeva sulle nostre teste sono finite nel disco. Un altro argomento di cui si parlava era l’invecchiamento. Polly è un’ottima scrittrice e pensatrice, ha la capacità di entrare nella testa della gente. Sono queste le cose che ci hanno spinti a lavorare di nuovo assieme.

Avevo frammenti musicali su cui avevo lavorato in passato e intanto stavo scrivendo nuovi brani. Per un po’ le cose sono andate piuttosto a rilento, poi siamo andati a stare in una piccola casa a nord di Londra, dove abbiamo lavorato tipo cinque giorni su sette. Io avevo una stanza con un piccolo studio, Polly un suo posto per scrivere, e abbiamo lavorato tanto per far sì che questa cosa diventasse un demo a partire dal ’22, ’23. E alla fine siamo arrivati al punto in cui potevamo finalmente mettere assieme un team e prenotare gli studi di registrazione.

Molti testi parlano di invecchiamento e mortalità. È stato così fin da quando avete cominciato a lavorarci?
Sì, i temi erano quelli fin dal principio. Sono le cose e i problemi di cui si parlava io e Polly e qualche volta in famiglia. Durante il lockdown pensavamo che il virus avrebbe potuto spazzare via l’umanità, in buona sostanza. E questo ci ha spinti a pensare ad altre cose che in qualche modo pendevano sulle nostre teste.

A produrlo hai chiamato Charlie Andrew. In che modo ha contributo a cambiare il mondo in cui lavori?
Beh, è più giovane di me. Viene da un’altra epoca. Ha un altro background. E di sicuro non conosce le cose da baby boomer che sono accadute prima che nascesse. Ed è in mezzo a una scena che comprende gente come gli Alt-J, con cui ha lavorato, e Marika Hackman e un bel po’ d’altra musica che non conoscevo. E lui non conosceva la mia, diciamo.

Come l’hai trovato?
Mi scervellavo per trovare qualcuno con cui poter collaborare, ma nessuno di quelli che mi venivano in mente sembrava essere giusto. Poi Polly, che in queste cose è molto brava, ha fatto una ricerca su Internet e m’ha fatto ascoltare musica fatta da vari produttori. Il lavoro di Charlie Andrew spiccava su tutti gli altri. Lo abbiamo chiamato e ci è sembrato parecchio interessato a fare il disco. È stato entusiasmante perché lui, sai, si comporta un po’ da tiranno. Ti spinge a fare cose. E se all’inizio non ci riesci, ti tocca riprovarci.

Però poi c’è anche Steve Gadd alla batteria, che è un musicista decisamente diverso.
Quando non avevo ancora un produttore gli avevo chiesto venire per una settimana prima di Natale, ma a Charlie è andato benone, Steve è una leggenda. Nel frattempo siamo entrati in studio con musicisti più giovani, Adam Betts alla batteria, Tom Herbert al basso e Rob Gentry alle tastiere. Loro e Charlie mi hanno spinto a testare i miei limiti, è stato fatto un bel lavoro.

Nel disco c’è una cover di Between Two Points dei Montgolfier Brothers, che un sacco di gente non conosce. Com’è che hai deciso di rifarla?
Era in un paio di playlist sul mio smartphone, saltava sempre fuori quando ascoltavamo musica in auto, m’è venuta voglia di provarla in studio per vedere cosa veniva fuori. Il testo esprimeva un senso di vulnerabilità giusta per un reduce come me. Polly ed io abbiamo pensato più o meno nello stesso momento di farla fare a Romany. L’aveva sentita una o due volte nelle nostre playlist, ma non la conosceva. Le ho messo sotto al naso il testo e l’ho piazzata davanti a un microfono. In queste cose è una vera professionista, lo è da quando aveva 3 anni. La traccia vocale che sentite è in pratica la prima che ha inciso, salvo qualche piccola cosa che è stata sistemata.

In Luck and Strange Polly scrive dell’impatto della vostra generazione.
L’idea della canzone è che noi baby boomer, noi generazione del dopoguerra si pensava che tutte le guerre fossero finite. Pensavamo che avremmo vissuto una sorta di età dell’oro. Il nostro primo ministro di allora, Harold Macmillan, disse una farse celebre: «Non è mai andata così bene». È stato bello vivere quel periodo e anche tutta la gente che faceva parte delle rock band, i tour, è stata una cosa bellissima, meravigliosa. Ma l’epoca che stavamo vivendo era la norma o è stato solo un momento che è passato o sta passando? Io e Polly tendiamo a guardare le cose in modo critico e quindi crediamo si stia tornando a un’epoca buia. Com’è che la chiamano, post verità?

The Piper’s Call richiama in qualche modo The Piper at the Gates of Dawn, il primo disco dei Pink Floyd?
No, è un pifferaio diverso, è più simile al pifferaio di Hamelin. È una canzone sul carpe diem e i vizi della fama, sulle tentazioni e i divertimenti tipici dello stile di vita rock’n’roll che abbiamo vissuto, cose in cui non bisogna farsi coinvolgere troppo. Credo che alla fine parli di me.

Sings sembra una conversazione intima tra te e Polly.
È proprio così. Un paio di canzoni sono un po’ strane, perché sembra che le abbia scritte io e che quelle cosa le stia dicendo a lei, quando in realtà le ha scritte lei e le sta dicendo a se stessa. C’è un passaggio nella canzone in cui si sente mio figlio quand’era piccolo, ora ha 29 anni, che dice “Canta, papà, canta”. Era registrato su un mini disc nel 1997. L’abbiamo inserito verso la fine. Adoro questa canzone.

Scattered è stato scritta da te, Polly e vostro figlio Charlie. Come è successo?
Ho scritto una parte di testo, ma era come dire un po’ vaga. Parlava di tre diversi argomenti e Polly ha suggerito di concentrarsi su uno solo. Abbiamo pensato di chiedere a Charlie di fare un tentativo. Ha proposto una specie di leggenda di re Canuto che ordina alla marea di fermarsi. Alla fine è arrivata Polly e con la sua genialità e competenza l’ha rifinita.

Nel comunicato stampa dici che questo è il miglior disco che hai fatto dai tempi di The Dark Side of the Moon. Che cosa te lo fa pensare?
È un’affermazione esagerata tanto più che The Dark Side the Moon non è nemmeno il mio album preferito, forse gli preferisco Wish You Were Here. In ogni caso, mi pare che questo disco sia la cosa migliore che ho fatto più o meno da quando ho memoria, perché alcuni di quei vecchi dischi mi sembra siano stati fatti da qualcuno altro, secoli fa. Avevo 30 e qualcosa anni quando Roger ha lasciato il nostro piccolo gruppo pop e ora ne ho 78.

Deve sembrare una vita fa.
È del tutto irrilevante oggi.

A che punto sono i preparativi del tour?
La band è pronta, dentro c’è la maggior parte dei musicisti che hanno suonato sul disco. Guy Pratt [il bassista] è nella band, ovviamente. E c’è anche il [tastierista] Greg Phillinganes, che ha fatto l’ultima metà del mio tour 2015/16. E c’è Louise Marshall, una delle cantanti dell’ultimo tour. Ma le altre due cantanti che ho questa volta sono le Webb Sisters, Charley e Hattie, che sono state spesso in tour con Leonard Cohen. Sono inglesi, non vivono molto lontane da dove sto io. E sono riuscito a convincere Romany a venire a fare la voce solista in alcuni concerti. Non ho ancora deciso in quali e che cosa potrà fare. Studia all’università a Londra, non so se riuscirà a fare tutto.

In studio con Guy Pratt. Foto: Gavin Elder

A inizio anno hai detto di non essere «disposto a rivisitare i Pink Floyd degli anni ’70» nel tour. Lo pensi ancora? Niente Floyd dei ’70?
Ogni tanto bisogna arrendersi alla realtà delle cose e quindi penso che farò uno o due pezzi di quel periodo, ma è passato un sacco di tempo da allora. So che la gente li ama e io amo suonarli. Farò Wish You Were Here ovviamente e alcuni pezzi che sono nati da me.

Non hai mai fatto un concerto solista senza fare Comfortably Numb. Sarà in scaletta?
Sì, è molto probabile. Molto.

E pezzi come Breathe, Time e Money?
Non credo che farò Money, se è questo il motivo per cui qualcuno vorrebbe venire al concerto…

Suonerai tutto il disco nuovo?
Non dall’inizio alla fine. Non ci ho ancora pensato. Non abbiamo ancora iniziato le prove. Ho iniziato a lavorare sulle scalette e su come voglio che sia lo show, ma non è ancora tutto definito.

All’inizio di quest’anno hai detto che ti sembrava che il tuo ultimo gruppo fosse un po’ una tribute band ai Pink Floyd. Perché?
Ho cambiato un paio di musicisti a metà dell’ultimo tour, perché sentivo tutto il peso sulle mie spalle e volevo che gli altri mi aiutassero. Volevo sentirmi più leggero lasciando ad altri il lavoro duro in modo da potermi concentrare sul canto e sul suonare. E poi non volevo ricalcare pedissequamente i vecchi dischi. Volevo che la gente sentisse un po’ più di libertà, che la musica fosse viva. E non è facile perché il pubblico che viene a vederti vuole che le canzoni siano identiche a quelle dei dischi, ma i musicisti non lo vogliono, ovviamente. Io voglio tenermene lontano. È un piccolo gioco di prestigio cercare di mantenere inalterate le parti importanti delle canzoni, trovando però il modo di prendersi delle libertà per andare oltre.

Negli ultimi anni Nick Mason è andato in giro a suonare coi suoi Saucerful of Secrets. Li ha già visti?
No, ma piace il fatto che lo stia facendo. Non so cosa dire di preciso al riguardo. Tendo a pensare che i pezzi siano diversi da come li si faceva noi all’epoca. Sono dalla sua parte nella decisione di rifarli. È fantastico e credo si stia divertendo un sacco. È così che dovrebbe essere.

Un ragazzo fortunato che non pensa più ai Pink Floyd. Foto press

Ora però ti devo chiedere di quell’altro tizio. Nel 2010 il tuo rapporto con Roger era sufficientemente buono da spingervi a esibirvi assieme in un concerto di beneficenza. Tu poi sei stato ospite del suo concerto di The Wall a Londra. Com’è che si è passati da quella situazione a quella attuale in cui non vi parlate neanche più?
Un giorno ne parlerò, ma non voglio farlo adesso. È un argomento noioso. Ed è finita. Come ho detto prima, lui ha lasciato il nostro gruppo pop quando avevo meno di 40 anni. Ora sono un vecchietto e quel che è successo non è più rilevante. Non so neanche quel che ha fatto nel frattempo, quindi non ho nulla da dire sull’argomento.

Quando tu e Polly avere fatto quei tweet l’anno scorso (sull’antisemitismo, l’ipocrisia, la misoginia di Waters, ndr) sapevate che sarebbe venuto fuori un gran casino.
La gente la definisce una battaglia, ma per come la vedo io è una cosa a senso unico che va avanti a diversi livelli d’intensità da quando ha lasciato il gruppo. Polly sentiva di dover dire la sua. Io ero d’accordo con quel che ha scritto e l’ho detto. Tutto qui. Non ho null’altro da aggiungere, nessuna nuova luce da gettare sulla cosa.

Secondo varie voci il catalogo dei Pink Floyd potrebbe essere venduto. È una cosa vera?
Se ne sta ancora discutendo, sì.

E a te piacerebbe?
Il mio sogno è non essere coinvolto in decisioni come queste e nelle discussioni che ne derivano. Se solo le cose fossero diverse… E poi non m’interessa dal punto di vista finanziario. M’interessa solo che la cosa esca dal pantano in cui si trova da un pezzo.

Immagino sia una bella sfida raccogliere tre “sì” per qualunque cosa riguardi i Pink Floyd.
Non è così che funziona. Funziona con un sistema di veto. Si potrebbe dire che ci sono tre persone che dicono di sì e una che dice di no.

Tu e Nick avete riportato in vita il nome dei Pink Floyd nel 2022 realizzando Hey Hey Rise Up per l’Ucraina. Potresti rimettere in piedi i Pink Floyd in futuro per un’iniziativa simile?
È un mondo strano quello in cui viviamo, e ci sono cose nella vita per le quali senti di dover fare qualcosa e di doverlo fare subito. Per le cause in cui credi potresti anche usare ciò che hai guadagnato durante la vita. Quindi mai dire mai.

Hai mai pensato di scrivere un’autobiografia?
Me l’hanno chiesto, ma la cosa finora non mi ha mai tentato. Magari ci penserò quando sarò un po’ più vecchio.

Ci sono stati tanti biopic rock negli ultimi anni. Riesci a immaginarne uno sui Pink Floyd in cui un attore interpreta te?
Non ci ho mai pensato. Non saprei. Nessuno lo ha proposto. Se mai qualcuno volesse farne uno sui Pink Floyd, non riesco proprio a immaginare come potrebbe essere. Non so cosa penserei se la cosa venisse fuori, non è successo.

Suonerai al Madison Square Garden la notte delle elezioni presidenziali americane. Pensi che l’atmosfera sarà un po’ strana?
Avrei voluto sapere della data delle elezioni prima di prenotare quei giorni, sapendolo mi sarei preso un giorno libero. Ma ehi, voi americani dovete fare quel che dovete fare. E quelle elezioni sono affari vostri. Noi qui ne abbiamo appena avuta una. Suppongo mi piaccia l’idea che i governi siano gestiti da gente adulta e in Gran Bretagna ci siamo mossi lievemente in quella direzione. Vedremo come andrà da voi.

Pensi che questo potrebbe essere il tuo ultimo tour?
Sì, potrebbe esserlo, ovviamente.

Pensi che lo sarà?
Te lo dirò dopo il tour.

Chiudiamo parlando di Yes, I Have Ghosts. L’hai messa come bonus del nuovo album e credo che riassuma tutto quanto: “Sì, ho dei fantasmi, non tutti sono morti e danzano alla luce della luna”.
L’ho scritta con Polly ed è influenzata e legata alla storia di A Theatre for Dreamers. Come ho detto prima, avevamo intenzione di fare alcuni spettacoli in giro per il paese dove avremmo suonato una o due cover di Leonard Cohen, che fa parte della storia raccontata nel libro. Abbiamo scritto quella canzone proprio per inserirla in quegli spettacoli e avere un pezzo musicale in più. Ma non è ancora uscita in un album. A entrambi piace molto, quindi abbiamo pensato che potesse essere una delle cose extra da mettere in questo.

È incredibile pensare che tu e Polly state creando musica assieme da oltre 30 anni. La vostra collaborazione è durata molto più di quella con quell’altro tizio.
Polly e io lavoriamo insieme su queste cose da 32 anni. In effetti, la prossima settimana è il nostro 30esimo anniversario di matrimonio.

Congratulazioni.
Grazie. Come hai giustamente sottolineato, è un periodo più lungo di quello che ho passato con quell’altro tizio.

E le cose vanno molto meglio con lei che con lui.
Non potrei essere più d’accordo. Al 1000%.

Da Rolling Stone US.

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