David Johansen e le origini dei New York Dolls: l’intervista perduta | Rolling Stone Italia
Vita da bohème

David Johansen e le origini dei New York Dolls: l’intervista perduta

Una chiacchierata di tre anni fa: la scena newyorchese dei primi anni ’70, i locali dove si sono fatti un nome, le droghe e i vestiti, Todd Rundgren che li registra come faceva Alan Lomax coi bluesmen

David Johansen e le origini dei New York Dolls: l’intervista perduta

David Johansen e i New York Dolls nel 1974

Foto: Chris Walter/WireImage/Getty Images

Tre anni fa, nel pieno delle ricerche per il mio libro Talkin’ Greenwich Village: The Heady Rise and Slow Fall of America’s Bohemian Music Capital, ho voluto assolutamente parlare con David Johansen. Non che fosse uno dei folksinger legati al quartiere di Manhattan di cui stavo scrivendo, ma perché la sua prima grande band, i New York Dolls, s’era fatta un nome e una reputazione orgogliosamente trash al Mercer Arts Center, uno spazio con varie sale lì nel Village.

Nella loro incarnazione originale i New York Dolls sono durati solo pochi anni, ma Johansen ha poi avuto una carriera (come Buster Poindexter, cantante blues, attore) più varia di quanto si potesse immaginare nei primi anni ’70. Negli anni 2000 ha rimesso in piedi la band col chitarrista Sylvain Sylvain (morto nel 2021), facendo nuovi dischi e concerti. Orgoglioso dei Dolls e dell’influenza che hanno esercitato su molti gruppi punk venuti dopo, in un pomeriggio del giugno 2022 mi ha parlato della band e del posto che occupava nella scena di downtown New York e del Mercer Arts Center (che non è durato a lungo, visto che l’edificio è crollato nel 1973). Alcuni estratti della nostra intervista sono stati inclusi nel mio libro, qui c’è il grosso della chiacchierata.

Come ti vivevi la musica prima dei New York Dolls?
Quand’ero bambino, parliamo degli anni ’50, la sorella di mia madre mi portava in un ristorante nel Greenwich Village. Per me era un posto assurdo, rumoroso e colorato, coi camerieri che ballavano il limbo. Lì ho avuto il primo assaggio del fermento tipico del Village. Poi ho iniziato ad andare in MacDougal Street dove c’erano questi posti che non servivano alcolici, ma intrugli a base di caffè e cose del genere, roba per teenager. Andavo spesso al Night Owl (un club su West Third Street, ndr) dove ho visto Lovin’ Spoonful, Blues Magoos, Lothar and the Hand People. Volevo stare in una band, così cercavo di capire come si mette in piedi un concerto, gli amplificatori, le chitarre. Andavo anche al Café Au Go Go, dove ho incontrato Van Morrison. Non ho avuto problemi ad entrare tranquillamente nel camerino e parlare con Van.

Con uno dei tuoi primi gruppi hai suonato al Café Wha?, uno dei pochi locali del Village ancora in attività.
Portavamo la nostra roba da Staten Island e andavamo al Wha? per i concerti pomeridiani, dove suonavano una band dopo l’altra. Il nostro gruppo si chiamava Vagabond Missionaries. Facevamo un paio di brani originali, ma anche Boogaloo Down Broadway di Fantastic Johnny C, cose del genere, pezzi tipo Wilson Pickett, roba come Mustang Sally che andava di moda a quei tempi. Non eravamo particolarmente bravi, ma compensavamo con l’entusiasmo. La band però non si evolveva come avrei voluto io. Gli altri non si impegnavano a fondo, mentre io ero nel mio periodo niente-al-mondo-mi-può-fermare.

A quel punto però la scena era in declino e lo sarebbe stata per un bel po’.
Qualcuno che lavorava per il sindaco aveva avuto l’idea di istituire queste norme draconiane sulle esibizioni, la Cabaret Law. Ho letto proprio l’altro giorno che finalmente, ora, si può ballare nei bar. Dopo 60 anni, ma ti sembra?

Dove vivevi allora?
Il mio primo appartamento stava sulla Terza Strada, il quartiere degli Hells Angels. Era al settimo piano, senza ascensore, veniva 40 dollari al mese. I Dolls si sono formati nell’inverno (del 1971-72, nda), provavamo in un negozio nell’Upper West Side di un tizio che affittava biciclette usate alle persone che andavano al parco. Tenevamo lì dentro due amplificatori e qualche pezzo della batteria: l’abbiamo trasformato in una sala prove, costava pochissimo.

Come è nato il vostro look androgino?
Ci vestivamo già tutti così, è il motivo per cui ci siamo incontrati e abbiamo fondato la band. Ci vedevamo a St. Mark’s Place o in altri posti, ci osservavamo pensando: «Chissà se quel tipo suona la chitarra». Così alla fine ci siamo messi insieme. Eravamo tutti vestiti più o meno in quel modo, magari un po’ più hippie. Ero innamorato pazzo di Janis Joplin, ma eravamo hippie newyorkesi.

Tu avevi una famosa tuta dorata.
Avevamo tantissimi vestiti. Ce li passavamo e poi li regalavamo ad altri. Era un continuo cambiare. Chi veniva al Mercer viveva per lo più nell’East o nel West Village, noi eravamo come la band di quartiere e direi che lo rappresentavamo con i nostri look estremi. Una volta dovevamo suonare al Café Au Go Go e io sono arrivato nel pomeriggio. Mentre scendevo le scale con John (Johnny Thunders, nda) è saltato fuori dal nulla un tipo enorme che mi voleva uccidere perché, a quanto pare, l’avevo ingravidato dal palco. Diceva che l’avevo guardato in un modo tale che era rimasto incinto. Aveva in mano un coltello bello grande. Eravamo in cima alle scale, al livello della strada: John l’ha spinto giù dalla rampa e non l’abbiamo mai più visto.

Come è nata la musica della band?
Io avevo già un paio di canzoni quando ho conosciuto i ragazzi e abbiamo iniziato a lavorarci su. Avevo un quaderno con degli appunti: quando sentivo Johnny o Syl suonare un riff o altro, iniziavo a scrivere. Alla fine siamo riusciti a mettere insieme un po’ di canzoni. Ai tempi di Vietnamese Baby stavo ancora provando a imparare a scrivere. Suonavo la chitarra, ma in modo decisamente rudimentale. E per il testo avevo in mente una sola cosa: che orrore.

Che cosa ricordi del Mercer Arts Center, dove i Dolls si sono fatti conoscere e si sono fatti una reputazione?
Era nel vecchio Broadway Central Hotel, che aveva l’ingresso su Broadway. Qualcuno aveva preso quella che credo fosse una grande sala da ballo e l’aveva ristrutturata in modo da renderla un posto moderno. C’era una sala dedicata al cabaret, due teatri, l’Oscar Wilde Room, che era la più piccola, e l’O’Casey. Avevo conosciuto un tizio al Max’s Kansas City, Eric Emerson. Era in un gruppo che si chiamava Magic Tramps. Indossava i lederhosen e suonava una specie di gypsy rock’n’roll. Mi ha detto: «Dobbiamo fare un concerto in questo locale nuovo. Volete aprire per noi?». Gli ho detto di sì, eravamo agli inizi, prendevamo ogni tipo di ingaggio, non eravamo di certo schizzinosi. Il nostro primo concerto è stato in un dormitorio per senzatetto, quindi era un passo avanti per noi.

Siamo andati lì e ci siamo esibiti. Poi, proprio quando siamo scesi dal palco, un tizio più grande di noi è venuto da me e mi ha chiesto: «Vi va di suonare ancora, dopo che questa band avrà finito?». E così abbiamo fatto. La reazione è stata molto buona: la gente ballava, sembrava di essere a una festa. Dopo sono andato nel suo ufficio e quel tipo mi ha detto che saremmo diventati grandi. È stato molto incoraggiante, lo diceva mentre contava i 30 dollari o quanto era che ci ha pagati. Ci ha offerto di tenere un concerto a settimana nella Oscar Wilde Room, ogni martedì a mezzanotte. Abbiamo iniziato a suonare lì e intorno a noi si è agglomerata una scena. C’erano filmmakers che potevano entrare in contatto con altri che avevano una mentalità simile. Era una scena vivace. C’era una pista da ballo e una specie di gradinata. Per raggiungere le altre sale bisognava attraversare l’area per il cabaret. Volevano tenere aperto il locale più ore che potevano, per far soldi.

Poi cosa è successo?
Diamo passati all’O’Casey. L’intesa col pubblico era ottima e non dovevamo fare troppa strada per arrivarci. La metropolitana passava sotto all’edificio: si sentiva, ma non quando suonavamo. Forse quelli in metro invece sentivano noi. A molti, probabilmente, quello che facevamo sembrava solo casino. Ma per altri era sublime. Immagino sia una questione di gusti. Noi eravamo agli inizi e stavamo imparando il mestiere.

Giravano molta droga e alcol al Mercer?
Se fossi arrivato lì ingenuo come un bambino probabilmente l’avrei notato, ma non ci ho fatto particolarmente caso. Era come entrare in una gelateria e vedere che in tantissimi stanno mangiando il gelato. La gente si faceva di erba e acidi, ma non girava molta eroina. Chi si fa di eroina non ha voglia di ballare.

Si faceva vedere anche Bette Midler?
Aveva una storia con Jerry Nolan, il nostro batterista, e probabilmente è venuta a vederlo sì. Bowie si è presentato col suo entourage: è arrivato con uno di quei costumi stile Spiders From Mars.

Cosa ricordi della registrazione del primo disco dei Dolls con Todd Rundgren?
Nessuno voleva produrlo perché avevamo la reputazione di essere dei mezzi pazzi. Allora qualcuno ha detto: «Lo produrrà Todd». Todd era come quel tizio che registrava i bluesmen nei campi di cotone, Lomax. Lui registrava la musica così come era, era folk art, non fatta per essere inserita in un filone di mercato. È così e basta: se piace, va bene. Non è qualcosa per cui vai a pensare se piacerà. Di sicuro è stato un sollievo sapere che avremmo fatto le cose a modo nostro. Avevamo il nostro sound e dovevamo suonare le canzoni come ci venivano. Ed è così che è andata. È stato come scrivere delle pagine di un diario o qualcosa del genere.

La leggenda narra che abbiate devastato il camerino del Bottom Line, uno dei club più importanti del Village, quando ci avete suonato nel 1974.
Probabilmente per loro eravamo una fonte di guai, ma non direi che abbiamo devastato il camerino. C’è stata una specie di rissa: Arthur (Kane, il bassista, nda) mi ha tirato una bottiglia forse di seltz mirando alla nuca. L’ho schivata abbassandomi e uno specchio è andato in frantumi. Immagino che con “devastare” intendessero questo. Ci hanno detto che non avremmo mai più suonato lì. Ma alla fine sono la persona che ci ha suonato più volte in assoluto, coi miei vari progetti.

Da Rolling Stone US.

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