David Mansfield aveva solo 19 anni quando, nell’autunno del 1975, si è unito alla Rolling Thunder Revue suonando violino e pedal steel. Era così giovane che nel road movie Renaldo and Clara Bob Dylan l’ha accreditato come The Son (il figlio), mentre Martin Scorsese l’ha chiamato The Innocent (l’innocente) nel film del 2019 dedicato a quel tour. I contatti allacciati durante quei concerti gli hanno permesso di lavorare per mezzo secolo, anche con Johnny Cash, Bruce Hornsby, Lucinda Williams e Sting, oltre a permettergli di scrivere le colonne sonore dei film I cancelli del cielo, L’apostolo o I sublimi segreti delle Ya-Ya sisters.
Abbiamo intervistato Mansfield in collegamento col suo Hobo Sounds studio, a Weehawken, New Jersey. Ci ha raccontato delle sue incredibili esperienze on the road e in studio con Bob Dylan, e di quello che è successo dopo che il cantautore si è convertito e ha cambiato band.
Come te la cavavi prima di entrare nel gruppo di Dylan?
Per fare quel tour ho lasciato una band – Quacky Duck and His Barnyard Friends – con cui suonavo da quando avevo 15 anni. Avevamo fatto un disco per Warner Bros e suonato al Max’s Kansas City. In quel periodo ho imparato molto aprendo per una settimana i concerti di Gram Parsons, ai tempi dell’album GP, proprio al Max’s. All’epoca si suonava per quattro sere. Nella sua band c’erano la giovane Emmylou Harris, N.D. Smart alla batteria, Jock Bartley alla chitarra e Neil Flanz alla steel.
Era una road band piccola ma forte. Eravamo grandi fan di Gram Parsons e dei Flying Burrito Brothers, ci sentivamo in paradiso. Ed erano tutti gentili. Ci hanno preso sotto la loro ala protettiva. Neil, che suonava la steel, è venuto in Jersey per darmi delle lezioni e aiutarmi a recuperare la Sho-Bud steel guitar che avrei suonato nella Rolling Thunder Revue. Lui lavorava lì part time, l’ha presa dalla catena di montaggio solo per me.
Prima di iniziare a collaborare con Dylan eri un suo fan?
No. Ero fan di Beatles, Byrds, Beach Boys. Amavo i suoi pezzi famosi, soprattutto quelli più rock come Like a Rolling Stone, mi piaceva la musica. Ma non conoscevo bene la sua opera. Non sapevo che grande autore fosse figo. Conoscevo Blowin’ in the Wind e le hit che finivano in radio, ma non compravo i suoi dischi.
Come sei finito nella Rolling Thunder?
Per un colpo di fortuna. La Rolling Thunder Revue nasce da un’idea di Bobby Neuwirth. All’epoca suonava al Bitter End. Non potevano usare quel nome, c’era una disputa sulla proprietà e per qualche anno si è chiamato Other End. E Bobby Neuwirth faceva quattro o cinque serate lì. La mia ragazza dell’epoca lavorava al Bottom Line, un locale aperto da poco a un tiro di schioppo dal Bitter End. È passata lì con un’amica, per vedere cosa stesse succedendo. C’erano Mick Ronson, forse Roger McGuinn, ma non c’era un violinista. Mi ha praticamente costretto ad andare lì, mi ha portato da Bobby Neuwirth e ha detto: «Ehi, il mio fidanzato suona il violino». Lui ha risposto: «Beh, tiralo fuori dalla custodia e suonami qualcosa». In qualche modo, nonostante l’imbarazzo, ce l’ho fatta e mi ha invitato sul palco. Ci sono rimasto per tutta la settimana. È così che ho incontrato T Bone Burnett e [il chitarrista] Steven Soles. C’erano anche loro a quel concerto.
Qualche mese dopo la fine di quell’esperienza, ho ricevuto una telefonata da Bobby: «Non posso dirti cosa sta succedendo. Ma tieniti libero per l’autunno». E così sono arrivato alla Rolling Thunder Revue. In teoria ero nella band di Neuwirth. Ma quando sono iniziate le prove, tutti erano con tutti. Il gruppo di Neuwirth è diventato una sorta di house band.
Raccontami del primo incontro con Bob.
Dev’essere stato alle prime prove al S.I.R. Ero già stato con gente famosa, sapevo che il segreto era fare l’indifferente. Mi sono sforzato di far finta di non notarlo. C’era un gran caos e ogni tanto Bob prendeva la chitarra e iniziava a suonare. Gli andavamo dietro tutti. Non era una di quelle prove in cui qualcuno chiama le canzoni. Non c’erano fogli con accordi, niente del genere. C’erano le telecamere. Bob stava riprendendo, voleva fare un film del tour, Renaldo and Clara. Insomma, dovevi stare attento perché c’era sempre una camera dietro l’angolo. Non ho ricordi più precisi di così. Sono sicuro di non averci parlato direttamente, abbiamo iniziato a suonare subito. Il suo tour precedente nelle arene era andato sold out con mesi di anticipo, era un evento gigantesco. La Revue sembrava nata per essere l’opposto. Mandava dei tizi a distribuire biglietti nel centro città. Era come Willy Wonka.
Non eri sopraffatto da tutte quelle icone? Dylan, Joan Baez, Roger McGuinn, Mick Ronson… eri un ragazzino.
Beh, sì e no. Il mondo del folk era leggendario, ma io l’avevo appena scoperto. Non ero un fanatico di Dylan. Amavo le sue canzoni più famose, ma non sapevo niente di Joan o Jack. Jack cantava cose come The Butcher’s Boy (un vecchio pezzo folk inglese), ma per me era roba nuova. Non ne ero intimidito, ma se lo fossi stato, probabilmente sarebbe stato per McGuinn o Joni Mitchell.
E poi c’è un’altra cosa: avevano un atteggiamento straordinario. Io ero il ragazzino del tour, il che dava fastidio a Bob perché una volta era il suo ruolo. Tutti mi trattavano con rispetto, nessuno mi guardava dall’alto in basso. Tutti mi incoraggiavano. Credo che mi guardassero le spalle. Nessuno cercava di infilarmi in feste dove girava droga o cose del genere. Joan era molto materna. Era davvero dolce. E Neuwirth era il mio angelo custode.
Ho parlato con diversi musicisti che hanno suonato in tour con Bob. Dicono che il segreto è guardargli le mani, perché non sai mai cosa potrebbe fare. Era così anche per te?
Sì. Conosco gente che se ne lamentava, come il bassista Rob Stoner. Ma per me era una bella sfida. Faceva anche un’altra cosa, un po’ nello stile di Jack Elliott: la lunghezza delle sue frasi era imprevedibile. C’erano vecchie canzoni folk, tutte in 4/4, ma con una battuta in 5 o in 3. Sono passaggi bislacchi del folk più strano e antico, roba che trovi nell’antologia di Harry Smith. Rispetto ai tour con la Band, Dylan lo faceva molto più spesso.
Il cantato del Rolling Thunder è completamente diverso, più appassionato ed emotivo. Sentiva la musica, sicuramente di più che nelle arene del ’74.
Sì, era carico. L’ho capito quando Scorsese ha fatto il documentario. Ha usato tutto il girato che Bob aveva accumulato per il film, tutti i video dei concerti. Scoprire che era eccitante esattamente come nei miei ricordi è stato sorprendente. Le sue performance sono fantastiche, così come quelle di molti altri musicisti sul palco.
Un paio d’anni fa ho parlato con Joan Baez. Mi ha detto che il tour del 1975 era stato molto divertente, mentre quello del 1976 aveva un’atmosfera molto diversa. Com’è stato dal tuo punto di vista?
Per me è stato tutto bello. Ma sapevo che Dylan aveva una nuvola scura sulla testa che nel 1976 gettava un’ombra su ogni cosa. All’epoca il suo entourage era enorme, tra di noi eravamo molto amici. Non dipendevo molto dall’umore di Bob. Conosco tanta gente che ha lavorato con lui più avanti, non ha mai avuto scatti d’ira o cose del genere.
Quando parli di nuvola scura ti riferisci al suo matrimonio? All’epoca era in crisi…
Immagino di sì. D’altra parte, quando mi ha chiamato nel ’78 e il matrimonio era finito, voleva solo suonare e stare bene. C’era una differenza enorme, bianco e nero. Passava il tempo con la band, chiacchierava sul palco, scherzava, andava al bar con tutti. Non l’ha mai fatto durante il secondo tour della Rolling Thunder.
Come sei arrivato al tour del ’78?
Non ricordo con precisione, ma c’era più o meno la stessa organizzazione. Negli anni che hanno diviso i tour io, T Bone e Steven suonavamo nell’Alpha Band. Eravamo facili da trovare, non ricordo chi mi ha chiamato per la prima volta. La crew era essenzialmente la stessa.
Quando sei andato alle prove, ti ha sorpreso scoprire che l’esperienza era completamente diversa? C’erano un coro, i fiati…
Sì. Abbiamo anche provato fino allo sfinimento. Era simile a un’audizione, succedeva tutto in un posto che si chiamava Rundown Studios. Era in una vecchia fabbrica di armi su Main Street, a Santa Monica. Ci abbiamo suonato per mesi. È lì che abbiamo registrato Street Legal.
Trovare un batterista è stato difficile. Abbiamo provato con tutti i grandi. Jim Gordon (dei Derek and the Dominos) è venuto alle prove. Anche Denny Seiwell degli Wings. Lui avrebbe funzionato, ma era incasinato con quella storia dell’erba con McCartney e non poteva suonare in America. Ci sono voluti mesi, alla fine abbiamo trovato la quadra con Ian Wallace.
Cosa pensava di ottenere Bob, secondo te? Qualcuno ha paragonato quel gruppo alla band di Elvis Presley o a quella di Neil Diamond. Di sicuro era diverso dalla Rolling Thunder Revue.
Secondo me non è proprio così, ma sicuramente c’erano grosse differenze con i tour precedenti…
Non so cosa avesse in mente. Posso giudicare solo le sue azioni. La gente diceva che era una cosa in stile Las Vegas. Non lo era affatto. Voleva solo un suono da big band, il wall of sound. Ci hanno rotto un sacco le palle per l’assolo di sax, dicevano che ricordava Clarence Clemons. Ma era Steve Douglas, era Clarence quello che lo imitava.
Amo quel tour. Credo che le critiche dipendano dal fatto che abbia pubblicato Budokan, ma quelli erano i primi concerti…
È stato un grosso errore. Se avessimo potuto registrare un disco live dopo un anno di concerti, avrebbe spaccato.
A parte Budokan, delle date finali sono rimaste solo registrazioni fatte dal pubblico. Ma anche da quelle si capisce a che livello straordinario eravate arrivati.
Era una band fantastica. Tutti i musicisti erano grandiosi. Lo stesso vale per i cantanti. Insomma, c’erano anche Carolyn Dennis (la futura moglie di Dylan). Sua madre Madlyn Quebec era stata una delle Raelettes.
Trasformare una canzone come Tangled Up in Blue in una torch ballad è stato geniale. Amo il modo in cui cambiava i brani, li rendeva unici e diversi dal solito.
Credo che fosse dell’umore giusto per godersi le performance, soprattutto dopo quello che aveva appena passato. Tutto qui. È la mia idea. Aveva un manager, Jerry Weintraub. Non so chi abbia avuto davvero l’idea, ma all’improvviso ci siamo tutti ritrovati in uniforme (ride).
Avete suonato 114 concerti in un anno. È un’enormità anche per gli standard di Bob.
Sì. Quando sono tornati a casa, molti musicisti della band si sono ritrovati senza session perché i produttori li avevano sostituiti con altra gente. Jerry Scheff non trovava lavoro, era stato in tour troppo a lungo.
Sono uno dei pochi fan di Dylan convinti che Street Legal sia uno dei suoi dischi migliori. È incredibile che l’abbiate fatto in quattro giorni.
È praticamente un disco dal vivo. Anch’io credo che sia un gran disco, i pezzi sono belli, è stato divertente registrarlo. Amo suonare Changing of the Guard, New Pony e altri pezzi. Ma il modo in cui l’abbiamo registrato… il fonico ci ha messi tutti nelle giuste posizioni e il suono era ok. Poi Bob ha deciso che non gli piaceva e ha detto a tutti di mettersi in cerchio. Abbiamo iniziato a suonare e i fonici hanno iniziato a spostare i microfoni. Non c’era più alcun posizionamento ottimale dei microfoni, niente di simile. È un peccato perché poteva suonare meglio di così.
Anche il mix è stato rovinato.
Non l’ho ascoltato, ma da quanto so l’hanno rifatto in un secondo momento. Forse è meglio.
Don DeVito l’ha sistemato prima di morire. Ma anche con il vecchio, brutto mix, la genialità di Changing of the Guard è evidente.
Amo quel pezzo. È un inno. È stato un periodo grandioso quello. Mi sono avvicinato molto a tante persone della band, alcune non sono più qui con noi, come Ian. Dopo quel tour, sono finito in una band di Los Angeles con Ian, i Teabags. Ero un membro onorario, l’unico non inglese. C’era Jackie Lomax. Era un artista Apple e la sua vecchia band, gli Undertakers, erano nati per competere con i Beatles. C’erano anche Graham Bell, da Bell and Arc, e Peter Banks degli Yes. Eravamo diventati davvero amici.
Alla fine del tour del ’78, Bob provava nel soundcheck diverse canzoni di Slow Train Coming. Nell’ultimo concerto ha addirittura fatto Do Right Me Baby. Sapevi che si stava convertendo?
No, non l’aveva capito nessuno. Ci ha sconvolti scoprire che Bob aveva cancellato tutti i tour organizzati da Weintraub. Ha passato qualche mese a studiare religione. Quando è tornato, non voleva più suonare con la vecchia band. Voleva ricominciare da zero.
Più avanti, frustrato dalla band del periodo cristiano, mi ha proposto di partecipare alle prove. Ma non ha chiesto di entrare nel gruppo, niente del genere. Non ricordo bene, è tutto molto vago. Credo fosse solo per un giorno. Sai, Bob non è uno che parla molto di certe cose. Quando è frustrato e non riesce a ottenere quel che vuole, cambia squadra nella speranza di sistemare le cose.
Quand’è l’ultima volta che hai parlato con Bob?
Non lo incontro e non ci parlo da tanto, tanto tempo. Un paio d’anni fa l’ho visto in concerto al Forest Hills Stadium, nel Queens. Incontrarlo era difficile, non ci ho neanche provato. Un’altra volta, invece, è andata diversamente. Mia figlia maggiore stava per compiere 21 anni e voleva vedere Dylan. Ho chiamato il suo ufficio e ho chiesto di trovarmi un biglietto. Non solo mi hanno accontentato, ma ci hanno anche fatto andare nel backstage. Quando l’ha vista Bob ha detto: «Callie, come stai?». È stato bravo. Pensa te.
Cosa pensi del documentario di Scorsese sulla Rolling Thunder Revue?
Mi sarei risparmiato le parti sceneggiate. La musica è grandiosa. Tutte quelle parti inventate, con il tizio che fa il promoter, Sharon Stone, tutta la roba finta non mi ha infastidito com’è successo ad alcuni colleghi. Credo che Marty o Dylan, o forse tutti e due, abbiano scelto di fare come in I’m Not There. D’altra parte, tutte quelle scene ti tirano fuori dalla storia. Nascosto in quel documentario c’è un concerto di due ore e mezza.
Chi ci ha lavorato dice che «una piccola bugia può aiutare a capire una verità più grande».
Beh, credo sia la stessa idea dietro al film di Todd Haynes (I’m Not There). Mi sta bene. Non vedevo l’ora di vederlo. E mi è piaciuto. Si apre con il regista che parla alla troupe. Ho pensato: aspetta un attimo, non mi ricordo quel tizio. E conoscevo tutti della crew. Non lo riconosco nemmeno. È passato così tanto tempo? Eppure non mi drogavo.
E poi c’è il tizio che fa il promoter. Ho pensato: aspetta un attimo, ma non era Barry Imhoff? Poi Dylan dice: «Sì, anche David Mansfield voleva cantare con me. Mi ha dato un sacco di problemi».
Era vero?
No. Non so cantare. E anche se avesse parlato di scrivere… no. Mai. La cosa più vicina a scrivere insieme è stato durante una prova nel 1978. Ha iniziato a fare un giro reggae al piano e mi ha chiesto di aiutarlo. Non siamo finiti da nessuna parte.
Quindi l’unica cosa che dice di te in tutto il film è una bugia?
Sì.
In ogni caso, la Rolling Thunder è ben documentata grazie ai dischi live ufficiali. Spero che facciano qualcosa di meglio di Budokan per il tour del ’78.
Non so se ci sono registrazioni multitraccia di quei concerti.
Credo abbiano perso molto materiale, ma forse c’è ancora qualcosa. Potrebbero lavorare anche alle session di Street Legal…
Sarebbe divertente, mi piacerebbe vedere cosa ne verrebbe fuori. Da quanto ricordo, Arthur Rosato, uno dei membri della crew di Bob che lavorava con lui da anni, aveva un 8 piste Otari. Il suo lavoro era registrare quelle prove. L’ha fatto spesso, ma non so che fine abbiano fatto. Probabilmente sono incisioni merdose.
Odio chiudere con una domanda così cupa: ti dispiacerebbe essere ricordato solo come uno dei musicisti di Bob Dylan?
No, nessun problema. Ne vado orgoglioso. È incredibile che il mio lavoro con lui, soprattutto nella Rolling Thunder Revue, sia diventato più importante col passare degli anni, e non il contrario. Gli sarò grato per sempre. Mi ha spalancato un sacco di porte.
Ho lavorato a I cancelli del cielo grazie a Dylan. La produttrice mi ha visto suonare durante il tour del ’78. Bob mi faceva fare un assolo su All Along the Watchtower, che dedicava a Jimi Hendrix. Facevo un solo di violino elettrico e prendevo sempre un sacco di applausi. La produttrice mi ha visto e alla fine si è appuntata: «Il violinista per la band di Heaven’s Gate». Mi va bene che sul mio epitaffio si scriva «musicista di Dylan», semmai qualcuno vorrà ancora scrivere di me quando morirò… tra 40 anni (ride).
Questo articolo è stato tradotto da Rolling Stone US.