David Zed è uno di quei personaggi fuori dal tempo, che se non ci fosse bisognerebbe inventarli. Una persona alla mano che pensi di conoscere da sempre e che ti viene incontro con la maglietta che cita il finale di Blade Runner: “Ne ho viste cose…”. E in effetti di cose ne ha viste David Kirk Traylor, ma soprattutto le ha fatte vedere a noi. Americano trasferitosi in Italia negli anni ’70, è stato, come fenomenale mimo, il primo androide del piccolo schermo e allo stesso tempo ha sdoganato un certo tipo di sonorità. Prima che con il teatro e la tv, si è infatti dedicato alla musica elettronica. È per questo l’antesignano di tutti gli Italian futuribili.
La tua carriera televisiva in Italia inizia se non erro nel 1979 con il programma Tilt condotto da Stefania Rotolo. Una trasmissione molto avanti per i tempi, soprattutto musicalmente, in cui tu presenti per la prima volta il personaggio dell’androide.
Sì, ho iniziato con Tilt, anche se per un fatto di messa in onda la prima cosa mia che gli italiani hanno visto era in una trasmissione di Maurizio Costanzo, in diretta, si chiamava Grand’Italia. Ma Tilt ha fatto la differenza: era un’esperienza surreale. Era l’epoca della disco dance e io ero tutt’altro che disco.
Come è nata l’idea di Zed e cosa ricordi di quel periodo?
Zed è stato originariamente un esercizio. Stavo lavorando come Dracula, 12 ore al giorno, in una specie di luna park ad Atlantic City. E c’era un manichino di Frankenstein che faceva così (imita le movenze di un robot, nda) tutto il giorno. Avevo tanto tempo libero, soprattutto quando non c’era molto pubblico, e l’ho studiato. Poi ho coordinato i movimenti per renderlo più interessante, una naturale evoluzione. E siccome c’erano anche il lupo mannaro e altri mostri, quando andavo a prendere la busta paga facevo Frankenstein. Ero amante dei film di Ray Harryhausen, l’animazione fotogramma per fotogramma… King Kong… era qualcosa che dominava i miei disegni da piccolo, che mi piaceva molto. Era finto, ma mi piaceva proprio in quanto finto.
Zed sembra tutto tranne che finto, è talmente perfetto che è assolutamente vero.
C’era un’altra cosa a questo proposito… Sono nato a Indianapolis, nella profonda provincia statunitense. Negli anni ’60 il conformismo lì era veramente spinto, ma la mia famiglia era diversa: mia madre era laureata in giurisprudenza, in chimica e aveva una PhD in scienze politiche, mio padre una laurea in ingegneria e in giurisprudenza. Mia madre per quanto fosse brava a fare tutto non era una casalinga, quindi sono cresciuto in una casa che era un caos incredibile. Avevo quindi voglia di essere normale e Zed paradossalmente è la proiezione di quella voglia, coi capelli sempre perfetti… Naturalmente è una presa per il culo dell’idea di essere normale (ride).
Perché l’Italia?
Ho vinto una borsa di studio della mia università nel 1979 e stavo già facendo una trasmissione radiofonica comica che andava abbastanza bene, ma non come Zed. Lavoravo in un cinema d’essai e ho avuto la mia prima esperienza con la lingua italiana. Davano un film della Wertmüller con i sottotitoli. Vedevo il film e li leggevo mentre pulivo i popcorn per terra: sono state le mie prime lezioni di italiano. Pensavo che non mi sarebbero servite a nulla, e invece…
In Tilt mimavi, ballavi, interagivi con Gianfranco D’Angelo: mancava solo una cosa, cantare. Fu in quel periodo che registrasti il tuo primo singolo, I Am a Robot. Avevi un background musicale?
Sì, ho studiato sia pianoforte che batteria, ma non ero bravo (ride). Cantavo in una band quando ero ragazzino, ho fatto anche la rock opera Joseph and the Amazing Technicolor Dreamcoat. Ero il faraone, che è una parodia di Elvis. Questo nei primi anni ’70, quando proprio dopo quella esperienza ho beccato le prime serate facendo le imitazioni di Elvis quando Elvis era ancora vivo… Ad ogni modo nell’ultima puntata Zed finalmente parlava con D’Angelo (ride).
Il tuo primo singolo è considerato uno dei primi esempi di Italo disco. Tra gli autori e arrangiatori c’è Claudio Simonetti dei Goblin: è la favola del ranocchio che diventa principe, ma in versione robotica. Come vi siete incontrati e come avete impostato il lavoro? Come mai ti è venuto in mente di buttarti nella discografia?
Ero arrivato qui con 200 dollari, ho iniziato a fare il mimo a piazza Navona, di notte facevo il dj. Il primo disco nasce proprio quando stavo lavorando in piazza. Mi si avvicina questo signore e dice: «Guarda, sei bravissimo, c’è una discoteca, se vieni con me puoi fare uno spettacolo tutto tuo e sicuro ti assumono». Sono andato, ho fatto il mio numero e tutta la discoteca si è fermata a guardarmi. E lì Bornigia del Piper mi ha offerto un lavoro nel weekend. Quindi avevo la radio, la piazza e la discoteca. La seconda settimana mi ha fermato Giancarlo Meo, che gestiva la Banana Records con Simonetti, e mi ha chiesto se volevo fare un tour di spettacoli con Vivien Vee e gli Easy Going. Un sogno perché potevo rimanere in Italia. Pagavano poco, però mi permetteva di guardare l’Italia dal di dentro. Era una grande avventura, avevo 22 anni all’epoca.
Giovanissimo. E come reagiva il pubblico?
La parte di Zed andava forte ovunque nello spettacolo, e Meo e Simonetti alla fine dell’estate mi hanno offerto un contratto discografico. Non mi consideravo questo grande cantante, però mi dissero che mi avrebbero messo in televisione ed era una cosa che potevo utilizzare per il mio cv in America. Ho deciso di rimanere fino a Natale per vedere come andava: ci sono state una serie di false partenze in tv, ma alla fine è uscito fuori Tilt. Va in onda ed è un successone, quindi di prescia abbiamo messo insieme I Am a Robot, era importante farlo circolare prima di Natale. Lo stampiamo e mi chiama da Londra la EMI, vuole fare che vada a Sanremo. È stato un successone, il disco è entrato in classifica, si chiamava R.O.B.O.T.
Ecco, se in I Am a Robot la voce è ancora umana, quindi risulta meno credibile, la svolta arriva proprio con R.O.B.O.T. dove il vocoder la fa da padrone. All’epoca forse solo i Rockets lo avevano sdoganato in questo modo. I Kraftwerk qui in Italia erano ancora abbastanza di nicchia…
Prima di diventare dj non avevo mai sentito parlare dei Kraftwerk, ma mi piacevano e notavo una coincidenza molto strana: loro non solo nel look ma anche nelle scelte dei colori, rosso e nero, si vestivano come facevo io negli Stati Uniti. Era come vedere quattro me stesso!
Forse ti avevano copiato?
Sì, ovviamente (ride). Beh, in realtà no…
Eh, ma qui ho un elenco di cose che ti hanno scippato… Ad esempio i Depeche Mode, l’intro di A Pain That I’m Used To è preso dall’inizio di R.O.B.O.T. I Daft Punk col loro vocoder sembrano citarti, anche Pop porno de Il Genio nel ritornello usa la stessa progressione armonica di R.O.B.O.T. Come la mettiamo?
Guarda, io non posso prendere crediti compositivi su R.O.B.O.T. perché è stato costruito da Simonetti e Bruno Tibaldi. Sui crediti della voce certo, ma canto col vocoder quindi non parliamo mica di Pavarotti (ride).
R.O.B.O.T. è scuro e meno rassicurante di I Am a Robot, che prevedeva ancora la commedia, i colori erano più accesi. Qui invece sembri una specie di Bowie berlinese, bianchi e neri freddi… ti sei per caso ispirato anche a Klaus Nomi, il mimo braccio destro di Bowie?
Sì, il singolo avrebbe dovuto avere un significato più “serio”, ma la EMI era convinta dovesse essere un prodotto per bambini. E la cosa assurda era che gli Easy Going e Vivien Vee cantavano in inglese ed erano italiani, io invece ero l’ unico americano e dovevo cantare in italiano (ride). Ma questo alla fine ha aiutato.
Che musica ascoltavi allora? Quali erano i tuoi punti di riferimento?
All’epoca ascoltavo i Lipps Inc., Stevie Wonder, Springsteen… L’elettronica ancora non era così diffusa, stiamo parlando del 1980. Noi abbiamo aperto la strada in Italia. In quanto al fatto di essere inquietante, c’erano genitori che adoravano Zed, ma i bambini no. I genitori venivano a conoscermi, mettevano il figlio tra le braccia e il piccolo piangeva…
A distanza di pochi mesi esce Balla Robot, stavolta un brano synth pop che potrebbe ricordare certe cose di Camerini, ma è firmato dalla premiata ditta Oliver Onions.
È un pezzo preregistrato sul quale ho messo la voce. Era una base adattata da Giancarlo Meo, l’abbiamo fatto velocemente. Ci sono due edizioni perché verso l’83 l’abbiamo riciclato. La casa discografica pensava che il fenomeno Zed nel 1983 fosse finito. Io stavo girando Galassia 2, una superproduzione della Rai con la regia di Boncompagni e quindi Meo mi ha detto: «Perché non sfruttiamo l’occasione per fare un ultimo 45 giri?». Lui non ci credeva tanto, per promuoverlo abbiamo fatto solo un’apparizione televisiva, in un orario senza senso, a mezzogiorno. Però era prima di un’altra trasmissione fatta da Boncompagni e Giancarlo Magalli, ovvero Pronto, Raffaella?…
E come hai fatto a entrare nel cast della trasmissione?
Beh, sono un comico di stampo americano, mi hanno invitato, mi sono intrattenuto con gli ospiti e alla fine mi hanno chiesto se volevo fare l’ospite fisso e ho detto: «Fammici pensare… sì!» (ride).
Nel 1986 esci invece con una cover riveduta e corretta di Witch Doctor di David Seville, con sonorità più dance, prodotto da T Verde della Discomposer. La cosa assurda è che nel 1998 i Cartoons faranno una cover del pezzo sbancando le classifiche. Sei uscito col pezzo giusto al momento sbagliato o anche qui qualcuno spia le tue mosse?
L’ho prodotto da solo, dopo Pronto, Raffaella?. Pensavo che fosse una maniera per rimanere sotto i riflettori, pensavo che quel brano avrebbe fatto successo. E in effetti l’ha fatto, ma non con me (ride). La mia versione fu bloccata. L’intuizione era giusta, però chiaramente non conoscevo il business dei dischi italiani. E avevo anche dei nemici…
Ah sì? Apriamo questa parentesi: come può avere nemici uno come Zed?
Non lo so chi siano. Diciamo che sono nato in una nazione capitalista, un sistema che in Italia imitano male. Se vuoi che un sistema come il capitalismo o il comunismo fallisca, basta che lo porti in Italia (ride). Ho trovato tanta resistenza dopo Pronto, Raffaella?. E non erano coincidenze, perché stiamo parlando di una trasmissione che vedevano 20 milioni di italiani, quando gli italiani sono solo 60 milioni. Non sono mai stato bravo nella politica di queste cose: pensavo che fare bene quello che facevo fosse il mio dovere, ma per alcune persone rappresentava una minaccia.
E di conseguenza sei tornato in America…
Dopo tre anni, nel 1989, e dopo aver fatto una produzione molto difficile con Carmelo Bene. Ho letto in una rivista una critica dello spettacolo in cui diceva che era molto bello questa commedia che ha fatto Bene con il robot della Carrà. Il robot della Carrà?! Ha un nome di sole tre lettere, Zed. Se vuoi risparmiare sull’inchiostro, puoi direttamente evitare di scrivere, ma hanno fatto tutto un giro per evitare di citare il nome del personaggio. Mi sono reso conto che per alcuni avevo superato il limite. Lo spettacolo era tratto da La cena delle beffe di Sem Benelli. Non si trova da nessuna parte: ne abbiamo girate varie versioni ma «il nero non era giusto» (imita Carmelo Bene).
Tu sei uno dei pochi attori pop che Carmelo stimava, insieme a Proietti. Ma è vero che, mentre ti redarguiva per la recitazione, gli hai fatto una battuta del tipo «sono programmato così, non ci posso fare niente»?
Sì, è vero. Carmelo era una persona particolare, non era mai contento. Pensa che anche l’Opéra-Comique ci voleva, ma non accettò perché secondo lui pagavano poco.
Nel 1986 sei tornato negli Stati Uniti e il 1986 è l’anno in cui Max Headroom, il robot computerizzato, diventa una star mondiale anche grazie al video con gli Art of Noise Paranoimia. E mi sembra evidente a chi si ispiri…
Eh, mi hanno paragonato a Max Headroom in patria. Il problema è che lui esce fuori quattro anni dopo Zed. Però Zed è stato visto in Italia, invece di stare in un mercato importante come quello britannico e americano. Quindi il mio clone ha raccolto tutto. Ed è chiaro che ha ricevuto informazioni. C’erano troupe statunitensi che erano molto prese da Pronto, Raffaella? e c’era anche la CNN una volta che andammo con la trasmissione dal Papa e vedendomi disse «devo guardare di più la televisione». In Zed c’è anche il connubio di musica elettronica e mimo che è alla base di Paranoimia, certo.
Hai mai fatto causa alla produzione di Headroom?
Guarda, non c’è modo. Loro avevano la Coca-Cola Company dietro, io solo quello che guadagno lavorando. C’è anche da dire che Zed era diverso da Max per molti versi che erano importanti, però il disegno del personaggio, con quell’illusione ottica che non si capisce se è vicino o lontano… Stessa cosa con il film di Spielberg AI, dentro c’è un’altra versione di Zed e potrei andare avanti. Anche il nome Zed è stato rubato dai Power Rangers, hanno creato il cattivo con questo nome (con due d, ndr) dopo che io ho fatto una campagna di cinque anni in America per promuovere il mio personaggio. Il mio avvocato fa: «Ci vuole almeno un milione di dollari per la causa, che facciamo?».
Ma è andata meglio negli Stati Uniti o in Italia?
Per certi versi negli Stati Uniti, ma sono stato messo in ombra da Max Headroom. Ma queste cose vanno sempre a cicli. Quando sono arrivato io a Los Angeles la scena era in brutte condizioni, non era più quella dei ’70/80 e oggi è peggio. Ma dopo essere stato in Italia ho fatto comunque passi da gigante in cinque anni, sono stato fisso al Comedy Store, all’epoca il più grande locale d’America per la comicità, ci erano passati Robin Williams, Jim Carrey, Eddie Murphy.
Però poi il destino ti ha fatto tornare in Italia, no?
Sì, dopo che il terremoto di Los Angeles mi ha rovinato l’appartamento. E subito dopo tutto il lavoro che mi avevano offerto è sparito. Sembra fatto apposta, ma nella sfiga è stato un colpo di fortuna. Prima di gennaio ’94 avevo una proposta da Dick Clark, un personaggio importante, che ha promosso Elvis. Una serie televisiva per la ABC, era già stato tutto firmato, ma a un certo punto i manager non volevano niente a tema fantastico. Spettacoli a Las Vegas e di punto in bianco tutto cancellato. Mia moglie era incinta. Quindi torno in Italia perché lei vuole vedere i suoi genitori, io faccio il frequent flyer e mentre lavoro a un doppiaggio trovo un amico che mi dice «c’è un network internazionale a Tor Sapienza e forse c’è lavoro là». Avevo tutte le mie trasmissioni in videocassetta e le ho portate al network e mi hanno offerto una trasmissione tutta mia. Contemporaneamente gli inglesi mi invitano a fare trasmissioni là e nello stesso tempo i giapponesi mi scoprono. Mi invitano a fare moltissime trasmissioni. Mia figlia doveva nascere due settimane prima dell’esordio, avevo rimandato il debutto per questo motivo, invece è nata due settimane più tardi mentre ero in diretta in Giappone.
Hai mai pensato a scrivere un libro su tutte queste tue avventure?
Sì, ci sto lavorando dal lockdown. Ma è molto difficile da scrivere perché ti viene spontaneo dire «e se avessi fatto…», prende una piega esistenziale. E invece deve essere divertente oltre che schietto e interessante. Mi ispiro in questo senso all’autobiografia di Steve Martin, che unisce perfettamente alti e bassi.
Perché hai smesso di pubblicare dischi?
Sono tornato alle radici di attore comico. La comicità vera è da sempre la mia passione.