A inizio marzo è salito per la prima volta sul palco dell’Ariston con gli Extraliscio, ma al Festival di Sanremo Davide Toffolo aveva anche un’altra missione: raccogliere materiale per un podcast in sette puntate (in realtà otto, c’è una bonus track), prodotto da Oram e ora disponibile su Spreaker e Spotify con il titolo Ghost in Sanremo.
«In pratica sono stato costretto a trasformarmi in una spia», scherza il fumettista e cantante dei Tre Allegri Ragazzi Morti, che armato di cellulare e immerso nella sua bolla no-Covid ha registrato conversazioni telefoniche con amici e colleghi (da Jovanotti a Piero Pelù, da Myss Keta ad Alessandro Baronciani), incontri non ravvicinati al Grand Hotel & Des Anglais (dove alloggiava), vocali di commento a quel che accadeva sul palco. E ancora, pareri sulla sua performance, sui pasti in camera e le piazze vuote, opinioni sul periodo assurdo che stiamo vivendo. Tutto per lasciare ai posteri il diario di un “ragazzo morto” in Riviera, la cronaca spassionata e (auto)ironica di un musicista approdato come un alieno su un pianeta a lui estraneo.
«Chi l’avrebbe immaginato?», dice Toffolo, che sta preparando per i giorni di Pasqua un live streaming con i Tre Allegri Ragazzi Morti. «Nel podcast esprimo il mio punto di vista di outsider in un modo – spero – divertente, con il linguaggio della commedia».
Com’è nata l’idea?
Prima di partire per Sanremo mi hanno chiamato dalla casa di produzione Oram per chiedermi se avevo voglia di realizzare un podcast sul festival. Ho accettato volentieri, forte anche della mia passione per la radio: sono un ascoltatore assiduo di Rai Radio 3, basti pensare che nel primo demo dei Tre Allegri Ragazzi Morti, che risale ormai a quasi trent’anni fa, avevamo inserito alcune frasi di bambini prese da un documentario radiofonico andato in onda su quel canale.
Dici che ti sei trasformato in una spia, ma in realtà ti presenti come “uno scapolo avventuroso”.
Certo, è la mia condizione. Con la pandemia è diventato più difficile vivere questa mia natura, quel che posso dire è che ho conservato una moralità (ride).
Ti sei anche sentito un alieno, al festival?
Beh, sicuramente io rappresento un mondo musicale che con Sanremo non c’entra nulla. Sanremo è l’evento dei grandi interessi discografici. Io in 30 anni di attività, sia con i Tre Allegri, sia con l’etichetta La Tempesta, ho raccontato un’altra possibilità per la musica, un percorso in cui quest’ultima è vissuta come scelta esistenziale. Quindi per me entrare in quel gioco ha significato esplorare un mondo solitamente lontano dal mio, riconoscendogli la qualità di romanzo che racconta l’Italia. A volte meglio, a volte peggio, quest’anno secondo me bene, con uno sguardo ben allargato, visto che è riuscito a mettere insieme me e Fedez. Ci sono andato con il mio bagaglio, quello di un outsider che non appartenendo al giro della grande discografia non è proprietà di nessuno, mentre tutti i cavalli in gara erano proprietà di qualcuno.
Sanremo è come un palio, affermi nel podcast. Ora che una corsa l’hai fatta, cosa ti ha sorpreso maggiormente?
Il rispetto che ho sentito, da parte di artisti e addetti ai lavori, per me e per il lavoro portato avanti con i Tre Allegri e con La Tempesta. Soprattutto i concorrenti più giovani di me, da Lo Stato Sociale a La Rappresentante di Lista, da Fulminacci a Malika Ayane a Dimartino e Colapesce, mi hanno fatto capire che devono qualcosa al nostro percorso, e questo mi ha colpito positivamente. Senza scordare l’affetto dimostrato dai fan.
Il titolo del podcast si lega non solo, ma anche a un momento in cui evochi Tenco definendolo un fantasma che aleggia sul festival: hai avvertito la sua presenza?
Sì, quel fantasma c’è. Perché comunque andare a Sanremo vuol dire, in qualche modo, mettersi a confronto con la storia della musica italiana e la tentazione, mentre sei sotto i riflettori, di portare in scena un atto estremo per rimanere nella storia ce l’hanno tutti, inclusi quelli che non lo dicono. Non dimentichiamo che su quel palco la componente della competizione è potente, per cui vale tutto, ma sul serio. Un po’ come al palio di Siena, appunto: non c’è artista che partecipi al festival senza pensare almeno per un attimo a come farsi notare e ricordare; alla fine magari non fa niente di particolare, ma il pensiero è immancabile. Io me la sono cavata facendomi fare un guanto da scheletro da abbinare alla maschera… Però questo è solo un aspetto, perché poi il fantasma di Tenco aleggia su Sanremo anche per rammentarci quanto sia importante difendere la natura della propria musica e la qualità di ciò che si propone.
Sanremo ha sempre dato spazio ad artisti non mainstream, sconosciuti al pubblico nazional-popolare, ma quest’anno si è assistito a un vero e proprio ribaltamento, sono saltati tutti gli schemi: che ne pensi?
Penso sia stato fatto un grande lavoro di riabilitazione, ma di riabilitazione di Sanremo, non del mondo indie, termine che oggi viene utilizzato per indicare un genere, un cantautorato nuovo che passa attraverso emotività sonore diverse, ma che in realtà indica una modalità di produzione musicale che si tiene distante dalla dimensione delle major. Diciamo che a Sanremo è sbarcata la musica leggerissima anche delle nuove generazioni, citando Colapesce e Dimartino.
Il vero mondo indipendente c’è ancora?
Assolutamente sì, ma non lì. Che poi in questo periodo di pandemia, con i locali chiusi e i concerti fermi, sia difficile capire dove stia è un altro discorso, ma questo è il bello della musica: quando pensi di averla acchiappata, va da un’altra parte.
Nel frattempo le norme anti-Covid hanno tolto a quest’ultimo Sanremo la sua natura mondana, festaiola. Eppure nel podcast dici che “restringi di qua, restringi di là, c’è sempre un modo per divertirsi”: ci sei riuscito?
Ma sì, ne ho viste di tutti i colori. Pensa che nella parte sotto dell’albergo dove alloggiavo c’era una produzione televisiva per un canale privato con un gruppo di Pordenone che suonava, con soubrette, bambini, di tutto. Un mondo parallelo (il tono è chiaramente ironico, nda). Per divertirsi basta la voglia.
Ok, non ti metterò nei guai, piuttosto dimmi degli audio in cui si parla della crisi che ha messo in ginocchio il settore dello spettacolo.
Nei giorni del festival c’è stata una manifestazione particolare, L’Ultima Ruota, che ha visto un gruppo di lavoratori dello spettacolo andare in bicicletta da Milano a Sanremo e incontrare colleghi di varie categorie in situazioni di difficoltà. Gli audio inseriti nel podcast sono testimonianze legate a quell’iniziativa.
Cosa puoi aggiungere? A febbraio c’era anche chi sosteneva che data la situazione era meglio non farlo proprio, il Festival di Sanremo.
Ci sono state polemiche, lo so. Per me è stato giusto farlo, solo che almeno inizialmente speravo potesse essere un’occasione per raccontare una cosa ben precisa, ossia che nel nostro campo la pandemia non si può affrontare facendo un Dpcm uguale per tutti i luoghi, e il motivo è che quei luoghi non sono tutti uguali. Mi spiego: un museo in provincia dove entrano 10 persone al giorno non può essere trattato come un museo di Roma dove di persone al giorno ne entrano 10 mila. Ecco, io auspicavo che il Sanremo facesse comprendere alla politica che, se affrontate nella loro specificità, certe situazioni si possono risolvere, per cui non ha senso tenere chiuso tutto. Invece è finita che si è usato il festival per dire agli italiani come devono comportarsi, ma questa volta usando gli artisti come esempio di coercizione.
La tua proposta implica distinzioni che un apparato normativo difficilmente può prevedere.
Però ci sono situazioni evidenti, un conto sono gli Uffizi di Firenze, un altro il Museo di Storia Naturale di Pordenone: che senso ha tenerli chiusi entrambi? Anche perché – dirò una cosa retorica – lo spettacolo, la musica, l’arte e la cultura rendono la vita più bella. Cioè, adesso ci sembra normale andare a letto alle 9 di sera, stiamo scherzando? Anzi, è proprio per questo che anche la figura dello scapolo avventuroso è importante, perché deve mantenere alta l’idea di una possibilità d’incontro.
E come fa?
Eh, l’unica cosa che so è che non è per niente facile.